Vita

È un’allucinazione matematica
Di un nulla dai clangori dissonanti.
Un cuore rotola dalle scale infrangendosi
Come una sottile anfora di vetro.

Resta solo l’eco solitaria
Di questa fulminante esistenza.


Serenata

Mentre ti assopisci
Arriva.
Ciò che ti tormenta tutte le notti
Ciò che desidera
Divorarti l’anima.

Non esistono pareti nella tua mente
Solo sterminati orizzonti
Chiari come le ossa.
E lui è là, ben vestito.

Suona il ritornello della tua fine
Gioiosamente danzando
Con un mandolino scordato.
E ti fissa.

Le sue lunghe corna ondeggiano,
Secche
Come i rami a novembre.


La neve di Belgrado, anatomia di un sogno

Mi ricordo vagamente che camminavo con te su un ponte quella sera. La strada era trafficata e accanto a noi s’innalzavano palazzi riflettenti, come quelli che si vedevano a Francoforte. Ti ricordi come era bello il cielo? Un crepuscolo che sembrava infinito, che trasformava gli edifici in scale di grigi, in un’intricata ferraglia vitrea a colpi di luci, che variavano dal rosso al viola funebre.
Le nubi erano rosa come le tue guance d’inverno. E il sole tramontava lentamente oltre il ponte dove stavamo camminando.
Mi voltavo ogni tanto per osservare le file di macchine in strada, o per tirare un’occhiata ai passanti che ci venivano incontro. E mi ricordo che ogni tanto guardavo anche te. In silenzio.
Dovevamo andare a cena fuori, stavamo cercando il posto, praticamente ci eravamo persi… Io non avevo la benché minima idea di dove fosse, ma tu ci volevi andare perché ti aveva colpito l’idea di poter mangiare in un ristorante indiano a Belgrado. Questa cosa mi faceva sorridere ancora, ancora da quando me l’avevi accennata in albergo.
Attraversammo la strada tra le luci dei semafori, mano nella mano perché improvvisamente ti era balzato in testa il ricordo di dove fosse quel “maledetto posto del cazzo”. Mi dicevi che eri sicuro, che sarebbe stato immediatamente lì dietro l’angolo di quella casa col tetto rosso. Arrivati dove effettivamente doveva essere il famigerato ristorante trovammo invece una specie di fast food dell’est europeo con tanto di scintillante insegna gialla in cirillico e dagli inquietanti interni viola.
Mi ricordo ancora il tuo stupore misto a furia che ti era entrato fulmineo negli occhi. Ma fortunatamente non sfasciasti nulla, girasti i tacchi e, dopo avermi afferrato il braccio borbottando qualche bestemmia, mi portasti su un’altra strada, affollatissima.

Vedevo una luce in fondo alla stanza.
Vedevo i miei piedi spuntare dalla coperta verde con le unghie smaltate di rosso, la luce della abat-jour illuminava gelida un lato della camera come un faro in una notte invernale, tagliente, dentro una casa vuota e appena imbiancata.
Accanto a me non c’eri tu, ma la mia amica Elisa che gentilmente mi sussurrava qualcosa all’orecchio.
Dov’ero finita? Mi chiesi immediatamente. Perché improvvisamente era tutto cambiato? E tu e la tua maglia viola? Dove eravate?
Elisa mi prese la mano e improvvisamente il lato luminoso della sua stanza mostrò uno squarcio brillante di paesaggio innevato. Rimasi di pietra, era bellissimo.
“Vedi quello?” Disse lei. “Questa è la neve di Belgrado, la neve sui palazzi grigi e infiniti, come cubi ammassati, graffiati dai fili elettrici e dai pali della luce”.
Il cielo di quella visione casalinga ed urbana allo stesso tempo era quasi boreale, come se un’aurora dai toni giallo-celesti, spenti, come un’immaginaria esplosione nucleare, avesse invaso tutto l’ambiente.
Pian piano la neve iniziò a scomparire e i palazzi a sparire nell’ombra. Si spense la luce nella stanza, lentamente come una candela che si esaurisce, mentre Elisa mi teneva la mano e baciava la mia guancia teneramente.
In quel momento rividi i miei piedi, cadaverici e gelati, bianchissimi. Come se sentissero il freddo della neve fantasma. Tutto si dissolse in una nebbia viola e ad un tratto apparisti tu.
Te lo ricordi quel momento in cui sei tornato? Mi prendesti i fianchi stringendomeli fortissimo per farmi sentire che eri accanto a me. Arrivasti vestito nei toni di blu, con in braccio un bellissimo sphynx, bianco come il latte con gli occhi gialli che mi fissavano nel crepuscolo che ti precedeva. Eri splendido come sempre mentre ci incamminavamo per strada, mentre osservavamo la gente.
Come quelle due donne altissime che incontrammo durante la nostra passeggiata sul ponte alla ricerca di quel ristorante. Mi facevano paura, troppa paura ma ne ero affascinata. Saranno state sulla cinquantina, identiche, vestite di un tailleur amaranto perfetto, coi capelli alla Louise Brooks color mogano, gli occhi di ghiaccio, chiarissimi e lievemente allungati. “Le tipiche donne dell’est” dicesti tu, invitandomi ad osservare la magrezza tremenda delle loro gambe velate da un collant nero.
Mi fissavano, insistentemente, io volevo andare con loro, mi avevano teso la mano, entrambe, sorridendo. “Vieni con noi, ti puoi fidare, diventeremo ottime amiche” sussurrava arcigna quella alla mia destra. Tu le guardavi, non smettevi di farlo, lo so, è come se lo stessi rivivendo ora, e mi dicesti con tono severo: “Non guardarle negli occhi. Non lo fare”.
Io non potevo fare a meno di fissarle quelle gemelle, di distruggermi penetrando il loro sguardo diafano, la loro magrezza mortuaria, le loro gambe affilatissime come coltelli, e il loro volto rugoso ma perfetto.
Nel frattempo erano diventate ancora più alte, come un ombra sulla strada, finissima, asciutta.
Continuai a fissare anche la mano che mi avevano dato, mentre mi ero sdraiata in terra sconvolta. Non volevo prendere quella mano venosa e ricoperta di anelli pacchiani e macchie.
Forse però la afferrai, anche perché in un momento smisi di sentire la tua voce e il tuo respiro, probabilmente ero andata con loro, non lo so, non ricordo, ero in uno spazio di buio denso come la pece fusa.
Quando ricominciai a vedere non riuscivo a scorgere il tuo volto, ma solo le tue spalle dalle quali spuntava quel gatto rinsecchito come una mummia che miagolava in continuazione, quasi piangeva, gridava, come un neonato disperato per la fame. Accanto a te, sedute su un divano, loro, le gemelle. Splendide ringiovanite di almeno 30 anni, che scuriosavano tranquillamente nella mia borsa e nel mio portafoglio. Mi sentivo pedinata, derubata, profanata, più nel mio essere che nella mia proprietà, e infatti era così, loro si prendevano gioco di me perché sorridevano beffarde e parlottavano tra loro in una lingua incomprensibile che dava l’idea di un idioma sloveno.
Allora ti chiamai piano con lo sguardo, come una spia per non farmi notare. “Mi stanno seguendo, vogliono qualcosa. Vieni andiamo a nasconderci ora che sono distratte a giocare col gatto”.
Che visione orribile che ebbi davanti agli occhi. Giocavano con quell’animale, che saltellava come un mucchietto d’ossa ballerine, e loro come due fanciulle innocenti, lo accarezzavano riempiendolo di coccole vezzose, di carezze mentre le loro mani si affusolavano e ringiovanivano in una freschezza nordica e infantile.
Aumentai il passo, approfittando della loro divertente distrazione e mi avviai con te nel corridoio piastrellato di quella casa. Assomigliava alla mia vecchia casa, quella dove ero cresciuta da bambina, ma questo pensiero mi abbandonò subito quando arrivata alla porta in fondo entrai per nascondermi e per fuggire alla presenza delle due donne che si faceva, ad ogni passo, sempre più soffocante. Le sentivo dietro di me. Le sentivo.
Tu eri sparito, ti avevo visto, affacciata alla fessura della porta, tu ti eri allontanato da me, sorridendo con sicurezza. Io ero terrorizzata, tenevo il viso incollato a quel piccolo spiraglio tra lo stipite e la porta per vedere cosa stesse succedendo. Ogni tanto inquieta, mi giravo per dare un’occhiata alla stanza in cui mi trovavo e poi subito tornavo alla fessura.
C’era un letto singolo in vimini lì dentro, un armadio bianco enorme e una luce claustrofobica da ripostiglio disordinato, un tappeto persiano, qualche soprammobile zoomorfo datato, qualche vestito gettato in terra, un comodino bianco accanto a me e dei quadri di gatti alle pareti.
Tornai alla fessura. Ancora niente, solo luce giallastra e battiscopa in legno scuro, a frammenti. Stanca ma impaurita abbassai lo sguardo e mi fissai le scarpe. Sentivo delle voci in giro, tu non eri ancora tornato e io ti attendevo, perché avevo paura. Mi staccai ancora una volta, e mi misi a girare per la stanza a scuriosare tra i cassetti del comò in fondo alla parete. C’erano magliette, biancheria femminile, e oggetti infantili, giocattoli. Infilai le mani in quella robaccia che odorava di plastica e borotalco e infreddolita tirai fuori una copertina in pile. Tastai il termosifone accanto a me, era gelato.
Mi sedetti su letto allora continuando a pensare cosa potesse accadere da un momento all’altro. Le tapparelle della finestra erano completamente tirate giù, non c’era altro che luce artificiale e il senso di trappola cresceva. Sentii un rumore metallico.
“Hei? Sei tu?” Mi tremavano le gambe, ma mi alzai lo stesso per andare alla porta e per riprendere il mio rituale della fessura.
Stavolta era lievemente più larga. Vi appoggiai il viso, con gli occhi chiusi, strizzati dalla paura. Mi parve di sentire la tua voce, li aprii.
In quel momento di scatto una mano entrò dalla fessura e mi afferrò il braccio infilandomi unghie affilatissime nella carne, mentre incollati al mio viso due occhiacci bianchi mi fissavano.
Mi dimenavo gridando, piangevo, le unghie mi facevano malissimo, non riuscivo a liberarmi da quella presa, le gemelle mi avevano trovata.
Urlavo di dolore, volevo scappare ma la presa mi tirava sempre di più addosso alla porta.
“Lasciami andare!! Lasciami!! Aiuto!!!” Continuavo ad urlare cercando di vedere tra le ferite sanguinati del mio braccio destro cosa vi era in fondo al corridoio. Cercavo la salvezza. Tu eri sparito.
Ad un tratto un ombra dalla vaga forma maschile comparve là dove stavo guardando. Dentro di me sapevo che era venuta a salvarmi. Ne ero certa.

Vedevo una luce in fondo alla stanza.
Vedevo i miei piedi spuntare dalla coperta verde con le unghie smaltate di rosso, la luce della abat-jour illuminava gelida un lato della camera come un faro in una notte invernale, tagliente, dentro una casa vuota e appena imbiancata.