Dario Di Nunno

Poesie


È tempo.

 

Voglia di silenzi sconfinati, per sempre
innamorati, lontano dalla gente
inconcludente da chi parla, parla, ma non
sente niente, parole vuote, rumore odioso,
suono aspro e fastidioso.

E’ tempo di tacere,
di ascoltare il suono lento
della pioggia, del mare, del vento
che spettina i capelli ed i pensieri.

E’ tempo di ascoltare,
di lasciare spazio al battito del cuore,
al respiro dell’albero e del fiore.

E’ tempo di cercare ciò che è perso,
di abbracciare con lo sguardo
l’infinito azzurro di un cielo terso.

E’ tempo di tornare ad esser veri
e di sorridere, ricordando ieri.
E di amarsi ancora, teneramente,
rotolando sopra i giorni,
e poi lasciarli andare via,
senza ombra alcuna di malinconia.

 


 

Niobe
Atto unico liberamente tratto da Ovidio,
“Metamorfosi”, Libro VI (adattamento di Dario Di Nunno)

 

Anfione Re di Tebe, nella Frigia
Niobe Sposa di Anfione, Regina
Manto Profetessa, figlia di Tiresia
Latona Dea delle tecnologie, madre di Apollo e Artemide, avuti da Zeus Apollo
Artemide
Figli e Figlie di Niobe Tebane
Aedo

La scena è idealmente divisa in tre parti: la prima ospita un’ara votiva su cui vi è un braciere sotto l’effige di una dea e, poco più in là, un piccolo podio rialzato su due o tre scalini; la seconda rappresenta una piazza di Tebe; la terza un ambiente del Palazzo reale. Se possibile, Latona, Apollo e Artemide, avranno a disposizione un livello più alto del palcoscenico, al alto opposto del Palazzo, lasciando al centro la parte della piazza e del Tempio.

Scena vuota. All’apertura, una musica. Sfuma durante il
PROLOGO
Aedo Narrami, o Musa, di quel regno, prosperoso e sacro fin dai giorni che a quella terra venne Cadmo di Tiro, a cui l’oracolo preannunciò la nascita di Tebe, sua patria per decreto divino. Grande la sua discendenza, fino al saggio Anfione, che di Tebe le possenti mura innalzò al suono della cetra, e alla sua splendida sposa, Niobe, figlia di Tantalo, che madre fra tutte le madri, nessuna conobbe fortuna più grande di tanta numerosa progenie e, madre fra tutte le madri, nessuna patì così tragica sorte per la sua smisurata superbia.
Chi tra i mortali ritiene che gli dei non degnino occuparsi di mortali cose quando ad esser corrotta è la maestà di ciò che è intoccabile? Empio colui che così pensa, perché, inevitabile, lo sguardo degli dei si posa su chi inorgoglisce più del giusto, quando le case traboccano di ricchezza oltre quel che è bene e ciò non basti a frenare impeti sacrileghi.
(Entrano Latona e Apollo)
Apollo: Cosa turba il tuo cuore, madre?
Latona Abbondanza di messi, prosperità e pace, saggezza di governo: quale mai terra più benigna di questa dovrebbe abbondare in incensi ed onori? Ahimé, Opulenza che sposa Arroganza, genera Superbia.
Apollo Che l’ira non innalzi ostacoli allo scorrere della tua benevolenza. Ai Cadmei concedi rimedio. Tebe è nave governata da nocchiero esperto. Anfione saprà ricondurla in porto.
Latona Anfione opera con giusta riconoscenza. Non così la sua sposa, che del germe di Tantalo portò con sé la sua superbia. Al fine, ascolterò la tua preghiera figlio. Ma le Moire sono all’opera e già svolgono per i Tebani i fili del fato.
(Escono Latona e Apollo)
(Entrano le tebane in processione: portano delle lucerne accese che depongono ai piedi dell’altare. Avranno con loro le bende dei supplici – che metteranno intorno al capo di Manto al momento dell’invocazione – e alcuni rami d’ulivo. La musica sfuma. Entrano Manto e Anfione)
Anfione: Azioni opportune e giuste deve compiere chi governa le sorti di una città, chi ne regge il timone senza chiudere le palpebre al sonno. Perché se tutto va bene il merito è degli dei, ma se sciagura si abbattesse su di noi, un solo nome, Anfione, risuonerà per le strade di Tebe, proemio di grida e lamentazioni sulle bocche dei Cadmei.
Manto: Aggiungerò incenso alle mie suppliche per ottenerti favori, Signore di Tebe.
Anfione: Non da altre labbra ascolterò le cose. Giunge dalla vicina Lidia l’eco dell’ira degli dei: Aracne, la filatrice figlia di Idmeo, perse la misura e, per smodato orgoglio, osò filare meravigliosi arazzi in sfida ad Atena.
Manto Troppo oltre si spinse la superbia di Aracne: ora pende da un albero condannata a filare per l’eternità.
Anfione Dunque, profetessa, per me e per Tebe, attingi alle fonti della benevolenza divina gli auspici per questa città perché gli dei infondano saggezza e prudenza per dissipare ogni orgoglio e superbia.
Manto: Invocherò gli dei e otterrò per Tebe ciò che essi vorranno concedere.
(esce Anfione)
(la profetessa alza le braccia in segno di invocazione – le tebane le pongono intorno al capo le bende cerimoniali, le cingono la testa con l’alloro e le porgono ramoscelli di ulivo)
Aedo Innalza al cielo le braccia la profetessa e ai divini sale la sua invocazione. Opera consueta per chi onora gli altari, indossa le bende dei supplici e tiene ramoscelli nelle sue mani. Ignara dell’ira divina che s’addensa come nubi funeste, s’appresta all’orazione che permette rivelazioni.
Manto: Prima fra gli dei onoro Gea, iniziatrice di profezie. Poi Temi, che per seconda si assise su questo seggio profetico. Per terza vi salì Febe, figlia di Gea, e costei lo trasmise come dono natale ad Apollo, figlio di sua figlia Latona e di Zeus.
A queste divinità salga il preludio delle mie suppliche. Onori e venerazione, io seggo su questo trono, profetessa, perché costoro me lo concedono e vaticinerò, se lo vorranno, come dettano in me.
Ci sia propizio Zeus che protegge i supplici, perché Latona, signora di questo Tempio, sia propizia a questa città. Volga su di noi il suo sguardo e sia sguardo benevolo che porti saggezza e ripari le offese.
(Latona parla, fuori campo)
Latona Le tue invocazioni non cadranno nel vuoto: resterà sospeso il giudizio sui Cadmei, ma non oltre quest’ultimo tempo. Io, Latona, renderò palese, a te sola Manto, ciò che è sorte imminente. Per i tuoi occhi ho guardato e veduto la tracotanza di chi per ricchezza e nobile
lignaggio si eleva sugli altari della superbia. Non saranno sufficienti le nobili origini a porre rimedio all’arroganza che serpeggia proprio dove maggiori sono ricchezza e abbondanza.
Manto: Non sono forse le ricchezze di questa città la più grande testimonianza della tua benevolenza verso i Cadmei?
Latona Che la ricchezza resti sempre nella misura che non reca danno, e sia sufficiente a chi, felicemente, ebbe in sorte saggezza. Specchiarsi troppo a lungo nella propria fortuna accende brame che offuscano il senno.
Manto: Per volontà di Zeus, Tebe è governata in saggezza. Non è la saggezza giusto riparo dalla superbia?
Latona Non esiste riparo per chi, nella sazietà che nasce da ricchezza, calpesta gli altari. Non si osi negare oltre i sacri riti e recedano l’orgoglio e la superbia dinanzi alla sacralità degli altari. Questo non sarà vano esercizio di saggezza.
Manto:
(un lungo e doloroso lamento)
Cose terribili, terribili a dirsi e terribili a vedersi… Presagi di sventura affollano la mente. E’ il pianto dei Cadmei che odo incessante? Sono le acque dell’Ismeno quelle che scorrono rosse di sangue? Triste e terribile è il compito che mi affidi, Latona…
(si accascia. Le tebane l’aiutano. Escono)
Aedo: Tutta la Lidia freme e per le città della Frigia si spande la notizia della sorte di Aracne. L’ira di Atena ha colpito la superba filatrice e diventa oggetto dei discorsi di tutto il mondo. Prima delle sue nozze Niobe aveva conosciuto Aracne, allorché giovinetta abitava nella Meonia e presso il monte Sìpilo.
Una breve musica introduce l’ingresso di Anfione e Niobe. Sono a Palazzo.
(Entrano Anfione e Niobe. Con loro, la più piccola delle figlie che le sarà accanto in ogni movimento)
Anfione: Triste è il destino di Aracne. Il suo talento e la sua porpora la resero tanto famosa che da ogni parte del mondo venivano a renderle omaggio. Chi mai potrà filare ancora la sua porpora?
Niobe: Non saranno le tele di Aracne a distoglierti dalla tua grandezza e dalla grandezza del tuo regno, della tua sposa e della tua numerosa progenie, mio amato sposo.
Anfione: Persino la grandezza di un regno deve sottostare al volere degli Dei.
Niobe: Non devi temere i capricci degli dei, mio Re e mio amato. Può la sorte di Aracne renderti meno nobili e divine le origini che rendono questa Casa pari a quella dei nostri divini avi?
Anfione (severo) Gli avi e la benevolenza degli dei non ti inducano a dimenticare il ruolo che a noi è riservato: Re e Regina, amati e temuti sulla terra, eredi di un Regno le cui origini si perdono nel tempo, genitori di sette splendidi figli e di altrettante figlie, custodi di Tebe. Ciò ti basti.
Niobe: Sagge sono le parole del mio Signore. Tuttavia, non posso tacere le umili origini di Aracne. Idmone di Colofone, suo padre, era solo un tintore.
Anfione: Il miglior tintore di porpora che si ricordi. Tu stessa, Regina, hai indossato la sua porpora.
Niobe: Pur sempre solo un tintore. E Aracne, la miglior filatrice di arazzi, migliore della stessa Atena, è pur sempre una filatrice.
Anfione: Frena la tua lingua, figlia di Tantalo.
Niobe: Perdonami, mio Re. Ma è la stessa Atena che ha riconosciuto il suo talento.
Anfione: Ciò non ne ha frenato l’ira, perché Aracne non ha saputo frenare l’orgoglio per le sue tele, che volle dovuto solo a sé stessa. La superbia è invisa agli dei.
(con tono imperativo)
Che la punizione di Aracne sia monito per la città di Tebe: così stabilisce il Re.
(poi, con tono più conciliante)
Mia amata, frena il tuo orgoglio: così ti implora il tuo sposo.
(escono)
Siamo in una piazza di Tebe.
Aedo: Tuttavia, niente può diminuire i fremiti che scuotono la Regina di Tebe. Né l’editto del Re, né le preghiere dell’amato, né la punizione della conterranea per opera di Atena la induce a sottomettersi agli Dei e a usare parole più misurate. Molte cose la rendono superba: e non le arti del marito o la stirpe di entrambi e la potenza del gran regno la rendono orgogliosa tanto quanto la sua numerosa figliolanza. E Niobe sarebbe stata proclamata la più fortunata delle madri, tale come lei stessa sentiva di esserlo.
(entra Manto, seguita dalle tebane. Si portano nei pressi dell’altare – portano delle piccole fascine di foglie di alloro e felci. Si recano all’ara e depongono le fronde, preparando l’altare.)
Ma lo spirito degli dei ferve in Manto, profetessa figlia di Tiresia, e suscita in lei il vaticinio che per le strade di Tebe risuona…
Manto: O Ismenidi, alle sacre are! In massa andate e offrite pio incenso a Latona e ai divini due figli della dea, Apollo e Artemide. Di alloro ornate i capelli, offrite sacrifici al fuoco della dea ed elevate preghiere ai divini altari: culmina l’ora di abbracciare le sacre effigi! Per bocca mia lo ordina Latona.
Aedo: L’ira della dea temono le tebane. E tutte ornano le tempie con le fronde prescritte e si preparano ad offrire incenso e preghiere alle sacre fiamme.
Ma ecco venire con gran corteggio di compagne Niobe, ammirata per le vesti frigie intessute d’oro;
(le tebane si inginocchiano e abbassano il capo al passaggio di Niobe)
Splendida, per quanto lo permette l’ira che scuote il popolo dagli altari della dea, altera e sfrontata, volge alle tebane i superbi occhi e dice:
Niobe: Quale follia è la vostra? Anteponete dei di cui solo si parla a quelli che innanzi a voi vedete? Perché si venera Latona sugli altari mentre la mia divinità è ancora senza incenso?
Tebana (1): (abbassando lo sguardo) Latona stessa ce lo ordina, per bocca di Manto, la profetessa…
Niobe: Stolte! Mio padre è Tantalo, il solo al quale fu concesso di sedere alla mensa degli Dei! Dione, sorella delle Pleiadi, è mia madre; mio avo è il grandissimo Atlante, che sul collo regge la volta celeste, Giove è l’altro mio avo e mi glorio di quello anche come suocero.
Manto: O superba regina, degna sposa di Anfione, re di Tebe, orgogliosa madre e splendida sposa, la dea stessa mosse le mie labbra perché chiamassi alla preghiera e all’incenso davanti ai suoi altari…
Niobe: Le popolazioni della Frigia mi temono; la reggia di Cadmo è sotto il mio dominio e le mura, innalzate al suono della cetra di Anfione, mio regale marito, sono rette da me e dal mio consorte.
Dunque, io dispongo dell’incenso e degli allori…
Manto: (grave) Non mi è concesso impedire a Latona, genitrice dei divini figli di Giove, di guardare con i miei occhi e di ascoltare con le mie orecchie, mia Regina! Ciò che la mia bocca non può tacerti è il suo sdegno e la sua ira per quanti si sottrarranno agli onori che una dea pretende. Essa mi indusse visioni che non oso narrare… E qui, ora, placa il tuo orgoglio e accetta il vaticinio, ché l’ira della dea non si abbatta sulle meraviglie di cui godi e su quelle del tuo popolo…
Niobe: Parli bene, profetessa: in qualunque parte della casa volgo lo sguardo, non vedo che immense ricchezze; vi si somma poi una bellezza degna di una dea e sette figlie e altrettanti figli e tra poco tanti generi e tante nuore…
(rivolta a tutti i presenti)
Chiedetevi ora se il mio orgoglio non abbia giustificazione e motivo d’essere! Con ciò, osate pure preferire a me Latona?
Tebana (2): Mia Signora! Come possiamo sfuggire alle ire degli Dei? Terribile sorte ci attende ove mancassero onori a Latona… lascia che i sacri riti siano compiuti!
Niobe: (ironica) Volete onorare Latona? Latona, figlia di Ceo, un qualunque Titano, alla quale, in procinto di partorire, anche la terra vastissima negò una piccola dimora? Latona che né in cielo né in terra né sulle acque fu accolta? Latona, che era esule dal mondo, finché, avendo compassione di quella donna errante, Delo le concesse un malfermo approdo e solo così poté diventare madre? Latona, madre di due figli, ovvero la settima parte di quelli che io ho partorito?
(superbamente)
Io sono Niobe, e non solo le mie nobili origini mi rendono degna di allori. Chi potrebbe dubitarne? Sono felice, chi mai potrebbe negarlo? E felice resterò; anche di ciò, chi potrebbe dubitare? L’abbondanza di figli mi rese sicura. Sono troppo in alto perché la Fortuna mi possa nuocere:
(con aria di aperta sfida, quasi delirante)
che mi porti via molto, molto di più me ne lascerà! La mia prosperità allontana ogni timore. Immaginate che si sottragga qualche parte a questa moltitudine dei miei figli: benché privata, non mi ridurrò tuttavia al numero di due, che è la prole di Latona. Nessuna differenza tra lei e chi è priva di prole!
Allontanatevi, dunque, togliete l’alloro dai capelli e mettete fine a questa cerimonia.
(Niobe col seguito e Manto si allontanano – restano le tebane)
Aedo: Tolgono gli allori e lasciano incompiuti i sacri riti. Resta in loro il timore per il vaticinio e per quello che la dea promette: venereranno la divinità con sommessa e privata preghiera.
(escono le tebane)
A tutto ciò, la Dea più non può frenare la sua indignazione: guai al mortale che osa sfidare gli dei! Dalla sommità del Cinto, chiama a sé i suoi due amatissimi figli e a loro si rivolge con tali parole:
(entrano Latona, Apollo e Artemide)
Latona: Io, Latona, vostra genitrice, orgogliosa di avervi dato la vita, che non cederei a nessuna delle dee se non a Giunone, ecco che vengo schernita e fatta oggetto di dubbio circa la mia divinità. Vengo allontanata dagli altari, per secoli sempre onorati! E sempre più lontana da essi sarò se voi, o miei adorati figli, non verrete in mio soccorso.
Apollo: Il tuo dolore è il nostro dolore, madre. Non permetteremo che perduri oltre.
Latona: E non è il solo dolore, questo! La figlia di Tantalo aggiunse offese all’empia azione ed osò posporre voi ai suoi figli! Capite? Mi chiamò priva di figli, che possa questa sventura ricadere su di lei stessa! E tutto ciò la scellerata, facendo sfoggio della stessa insolente lingua del padre.
Apollo: Basta, madre, non aggiungere altre preghiere. La lunga lamentela altro non porta che ritardo alla giusta punizione.
Artemide: Noi, luna e sole insieme, non lasceremo altro tempo all’onta subita, o madre. Celeri come l’aria e coperti da nubi raggiungeremo la rocca di Cadmo, e al pari delle folgori di Zeus, nostro padre, attingeremo alle nostre faretre il sacro ferro vendicatore… e non cervi né altre prede cadranno questa volta sotto gli infallibili dardi, ma la carne dei Niobeidi, dalla superbia della loro stessa madre condannati al sacrificio alla tua divinità!
(esce Latona – Apollo e Artemide tendono gli archi, incoccano le frecce))
Aedo: Un campo pianeggiante e assai spazioso era presso le mura, battuto continuamente dai cavalli, dove la moltitudine dei cocchi e i duri zoccoli avevano reso molle il terreno sottostante. Qui, erano soliti i figli di Anfione montare forti cavalli, ricoperti di porpora tiria e con briglie
cariche d’oro. L’ira del dio arciero su di loro si abbatté e rapidi giunsero su di loro i dardi vendicatori dell’offesa dea.
(freccia) Ismeno, il primo peso che la madre aveva portato in grembo, primigenio fu anche nella morte.
(freccia) Quindi, Sìpilo, il più vicino a lui, cadde colpito in mezzo al petto dal dardo letale. L’infelice Redimo, e Tantalo, erede del nome del nonno, unti d’olio lottavano nella palestra; e già allacciati strettamente petto contro petto, un dardo li trapassò entrambi, così stretti com’erano. (freccia) insieme gemettero, insieme deposero a terra le membra incurvate dal dolore, insieme volsero al cielo l’ultimo sguardo, insieme esalarono l’anima.
Alfenore li vide e accorse per sollevare, abbracciandole, le gelide membra: e lì, il dio di Delo gli trapassò il cuore col ferro mortale. (freccia)
E infine caddero colpiti dagli apollinei dardi Damasictone, (freccia)
e l’ultimo, Ilioneo, mentre levava al cielo in preghiera le braccia per invocare i celesti…

Ilioneo: O dèi tutti! Vi supplico, risparmiatemi! (freccia) (si accascia)
Aedo: Così gridava, ignorando che non tutti gli dei dovevano essere implorati.
(entra Anfione)
Anfione: O Giove! O Terra! O Numi della Patria! (atterrisce di fronte alla scena, resta senza parole, con gli occhi sbarrati, poi in preda ad una gelida calma) Già il primo sibilo dei mortali dardi mi risuonò come annuncio di sciagura, e come tale si manifesta ai miei occhi! Il sole del giorno più funesto è sorto sul mio regno!
(cade in ginocchio, si dispera)
Figli, adorata progenie, tornate a me, tornate da questo vecchio, stanco, misero uomo! Dunque più non ascolterò le vostre voci? E i vostri nomi più non risuoneranno tra le mura di Cadmo? (incalzante) Ismeno, Ilioneo, Damasictone, Sìpilo… Il vostro sangue bagna il sacro suolo di Tebe: assai gravoso è il tributo che il fato pretende dal Re e dal padre…
Ecco, i tristi presagi hanno preso corpo. Velati di lacrime i miei occhi, il mio cuore in tumulto è campo di battaglia. Tutto è trasformato, delle cose e delle persone solo le ombre appaiono ai miei stanchi occhi. Il regno è ora una luttuosa palude e il padre di questi splendidi fanciulli è ora un misero mendicante sulla porta dell’ade…
(è folle dalla disperazione)
In un solo momento, il fato mi ha privato di ciò che mi era più caro e di ciò che avrebbe tutelato la stirpe e il regno e la ricchezza degli Ismenidi… Tutto è come è, adesso, e Tebe è dunque senza trono. Il Re segue la sorte del regno, il padre segue la sorte dei figli…
(estrae una freccia dal corpo di uno dei figli)
Questi dardi vi hanno portato via, questi dardi ci ricongiungeranno.
(Si trafigge. Muore) (Entrano due tebane)
Tebana (3): O sacre divinità dell’Olimpo! Quanto annunciato si compie, alfine! Il Re, amato sposo e sovrano e sette figli caduti sotto i colpi dell’ira di Latona.
Tebana (4): Sventura e rovina su di noi! Non ci sarà adeguato conforto alla sofferenza di Niobe!
Tebana (3): Misere noi! Nostro è l’angoscioso compito di portare luttuosa ambasciata… Presto, che la Regina sappia…
(escono)
Aedo: La fama si spande e serpeggia fulminea per le strade del regno, raggiunge il palazzo e le remote stanze, risuonano alte le grida ed il pianto sale fino al cielo ululando, dolore e lacrime, orrore ed abisso d’angoscia!
Niobe: (entra, scossa e adirata) O dei! O sventura e tragedia che giungi come folgore inattesa! (rabbia) Dolore di ferita inguaribile, mordi come belva affamata le carni di questa donna e divori il cuore di una madre… dimmi perché ancora non mi vince il pianto? Dovresti spezzare ogni mio respiro, dovresti abbattermi come albero nella tempesta, eppure dirompe in me l’ira, ira che arde e divampa nel petto della Signora di Cadmo!
Come si è resa possibile tanta crudeltà nei confronti della Regina di Frigia? Come e chi ha potuto osare tanto?
Rispondimi, o padre, e tu o madre, progenitori attraverso di me di siffatta stirpe, onorati avi di questi figli, come avete potuto permettere che tutto ciò accadesse? Forse che la vostra potenza nulla poteva contro l’ira di una sola?
(il dolore comincia a prendere il sopravvento)
Abbandonata come nave senza nocchiero che vaga nella tempesta, in preda ai flutti e alle folgori precipito nell’abisso della disperazione! Me misera! Miei adorati, sangue innocente rinnovate ad ogni sguardo lo strazio come lama rovente che acceca e trafigge: come vi piangerò? Miei lacrimati germogli, recisi prima ancora di vederne i fiori, questo dolore mi inchioda alla rovina…
E tu Anfione Re, mio Re, mio adorato sposo, perché hai lacerato ancor di più il mio cuore, configgendoti col ferro quel petto a cui tante volte ho donato appassionati baci?
(in preda al pianto)
Tragica l’ora in cui una madre seppellirà i propri figli! Ancor più tragica dell’ora della morte stessa!
Figlia (1): Madre, il popolo tutto dirompe nel pianto! Il dolore per le strade imperversa, si insinua, s’impenna e dai tetti trabocca ormai… o Dei! O potenti numi, sperdete alfine quest’alba di male (si accoscia accanto alla madre)
Aedo: Ahi! Quanto questa Niobe distava da quella Niobe che poco prima aveva allontanato la folla dagli altari di Latona e che avanzava per la città con testa eretta, invidiata dai suoi, ma ora oggetto di pietà anche per un nemico!
Si getta sui gelidi corpi e a caso dispensa gli ultimi baci a tutti i figli. Staccando da questi le braccia illividite per levarle verso il cielo:
Niobe: Pasciti, o crudele Latona, del mio dolore, pasciti e sazia il tuo cuore con il mio pianto; son portata alla tomba a causa di queste sette morti innocenti e di quella del mio adorato sposo;
(con rabbia, ma sempre in preda al dolore)
la tua malvagità, la tua spietata malvagità, ancor più invisa ti rende ai miei occhi!
(sopraggiungono intanto le figlie che le si fanno intorno)
Figlia (2): Angoscia mi invade, e terrore! Cosa sarà di noi? Fuggire, andare vagando? A quali lidi lontani possiamo aspirare per restare nascoste all’ira degli dei? Ogni rimedio è vano e l’orrore governa la casa, ormai.
Figlia (3): Madre! Allontana da noi queste urla di strazio, il rito funebre incombe. Per le anime dei nostri fratelli si compiano i riti che propiziano il viaggio verso le porte dell’Ade.
(con aria assente, pensierosa, ritrovando un minimo di contegno)
Niobe: Sia. Mio cuore, placa il tormento che ti divora. Ora è tempo di rendere il giusto tributo che spetta al Re ed ai suoi principi. (con apparente distacco, descrive quello che immagina debba accadere) Si chiamino dunque le donne per il compianto e i suonatori di flauto. Addobbi funebri siano approntati: corone di mirto e di alloro addobberanno le stanze. Poi, acqua ed essenze: io stessa laverò i loro corpi e li cospargerò di oli profumati. In candidi sudari di lino li avvolgerò e per tre giorni e per tre notti li veglierò. Infine, li abbraccerò e li bacerò ancora, per un’ultima volta prima che siano consegnati all’ultima dimora.
(Entra Manto)
Manto: (turbata) Regina, mia signora! Frena il tumulto del cuore e cedi al tempo di adorare, prostrata, i celesti Patroni di Tebe. E’ giunta l’ora di intrecciare ghirlande di suppliche: concedi a Latona i giusti onori!
Niobe: (uno sguardo alle figlie che sono con lei. Poi con gesto altero, si asciuga le lacrime, si pone in piedi, sale sul podio e alzando il mento in gesto di sfida)
Dimmi, profetessa, cosa vedono i tuoi occhi. Descrivilo a me, e a queste fanciulle appena private del padre e dei loro fratelli, che ora gemono in preda alla più cieca disperazione. (Con rabbia) Nell’oscurità più buia è precipitata la tua anima e alcuna luce ne trapassa il nero: vieni a chiedere suppliche ed onori dinanzi a tanta crudeltà ed orrore? Può forse il sangue del mio sangue essere lavato da concessioni e celebrazioni?
Ah… capisco! (si porta verso gli altari, in un ideale dialogo con Latona)
Esulti e trionfi, nemica vittoriosa? Perché vittoriosa? A me infelice ne restano più che a te infelice; anche dopo tante morti ti son superiore! Molto mi porti via, molto di più me ne resterà…
Aedo: non ha finito di parlare ed ecco che risuona dall’arco teso la corda che tutti atterrì eccetto Niobe; quella è temeraria anche nella sventura. Le figlie stanno davanti ai corpi immoti dei fratelli, quand’ecco…
(freccia)
Figlia: Madre! Un dardo mi trapassa… (si accascia)
Niobe spalanca gli occhi, e si avvicina alle figlie. Man mano che queste sono colpite, cerca di reggerle, per poi subito adagiandole a terra e correre dall’altre…
Aedo: …un’altra, che tentava di consolare l’infelice genitrice, (freccia) tace all’improvviso e si piega in due colpita a morte. Una, mentre fugge invano, (freccia) stramazza; (freccia) l’altra muore sul corpo della sorella; una senza effetto si nasconde (freccia), e l’altra, tremante, (freccia) nulla può opporre alla mortale cuspide. Cresce lo sgomento nel cuore e negli occhi della Regina…
Dopo che sei erano state uccise, non restava che l’ultima…
Niobe: (gettandosi sulla superstite, ricoprendola con tutto il corpo e con tutta la veste, grida disperata) Una sola, ti scongiuro, la più piccola, lasciamene! Poni fine ora alla tua crudeltà…, di molte ti chiedo la più piccola, una e una sola. (freccia) (la figlia, colpita a morte, resta aggrappata alla madre)
Aedo: …ma il dardo è già stato scoccato, e Artemide, pur mossa a pietà per quell’ultima vita, non ne può arrestare la mortale corsa…
Niobe: (urla e dirompe in pianto) O malvagità suprema che mi privi della famiglia! Quelli che erano abbondanza e ricchezza e orgoglio e progenie regale mi togli… Sventura! Nella sventura resto sola nel dolore e nel pianto. Come potrò io, sola, come potrò ora reggere il peso di tale sciagura?
(il capo tra le mani – in preda alla follia) Il senno mi abbandona… tenebre intorno a me si parano, come mura insormontabili! Trova compimento il vaticinio: sangue, non vedo che sangue, sangue che sgorga dalle mie stesse labbra, che inonda il palazzo e mi ricopre e mi soffoca… Padre! Soccorrimi, a te tendo la mano, eccola! Afferrala! Conducimi a rive sicure…
O incubo cupo, o follia che dilegui la ragione, toglimi la vista, oscura i miei occhi, che più non veda questo delirio, che più non senta questo gemito incessante che offusca il senno…
Terra di Frigia, perché mi sei ora nemica? Abbracciami ancora amata terra, tu che hai visto risplendere la meraviglia di una stirpe gloriosa, attendi ad un ultimo compassionevole compito: accogli l’estremo giaciglio della carne della mia carne, e raccogli le mie lacrime: sgorgheranno copiose e laveranno il sangue dei miei figli… O suolo a me caro, che nel tuo grembo custodirai ciò che ebbi di più caro… mai sazio sarai delle mie lacrime: sgorgheranno da me come fonte perenne perché eterno sarà il mio pianto e la mia disperazione…
(si siede ai piedi del podio e vi si adagia sopra)
Aedo: Cedono le sue membra, cede il suo spirito, alla sventura cede, infine, la sua superbia. Sta con i figli e le figlie e il marito, e si adagia e più non muove.
L’aria più non muove i capelli, esangue è il volto, gli occhi stanno immoti nel mesto viso, niente di vivo è nel suo aspetto. E i polsi cessano di battere; né il collo può piegarsi né le braccia muoversi né i piedi camminare e anche nelle viscere c’è l’immobilità del marmo.
(musica)
(due tebane, pietosamente, la ricoprono con un ampio velo e si allontanano)
E quel che fu carne, pietra divenne. Piange tuttavia, e si strugge e si stempera in pianto per l’eternità…
(si abbassano le luci)
Giorni, e anni, pietra e pianto, ed ancora, come fonte dal Sipilo, stillano lacrime quegli occhi dal marmo.
Tela

 


 

Un tramonto

 

Lento dispiegarsi del rosso che infiamma il cielo
suo rimbalzare di nuvola in nuvola
ad abitare lo spazio.
Bisogno di guardare
con gli occhi il lento sparire.
Silenzioso rito,
sperando,
lo portò con sé.