Roberto Pagliai

Poesie e Racconti


88 metri

 

La sera precedente camminavo sotto il cielo stellato coperto dai portici di Bologna che improvvisamente mi appariva ancora più bella del solito con le sue torri e le osterie, con l’Università e le librerie, gli indiani metropolitani e Radio Alice, con Guccini e Dalla e Maifredi che legge il Carlino. Quanti anni erano passati da quello scorcio finale degli ottanta, quando il servizio militare mi prese nel bel mezzo dell’Università, facendomi fare mille acrobazie per sostenere un esame di Statistica o Storia della Sociologia tra garitte e guardie di piantone all’armeria della caserma, Reparto Trasmissioni della Brigata Meccanizzata Trieste?
Finalmente ero tornato. Mi ero molto allenato per questa prima maratona di Bologna ed ora che la partenza si avvicinava minuto dopo minuto, l’emozione mi faceva tremare il cuore in attesa dello starter che in lontananza intravedevo là, vicino a San Petronio, sotto la statua maestosa del Nettuno. Chi è questo signore di mezza età che mi spinge accalcandosi alla partenza tra odori di deodoranti neutri e puzzi di sudore da iper riscaldamento pre-gara? Ma sì, lo riconosco! È proprio lui, Linardi Mario, ottantanovesimo battaglione Fanteria Salerno, primo scaglione 1988. Il mitico Linardi Mario da Reggio Emilia, produttore di parmigiano, amico di battaglione che mi faceva la testa come un pallone, decantando ininterrottamente le gesta di un promettente giovane politico locale, di nome Pierferdinando Casini. Il colpo di cannone della partenza me lo fece immediatamente perdere di vista, lui che in vita sua non aveva mai corso per più di duecento metri di seguito, me lo ritrovavo ora alla Maratona di Bologna.
Quanti eravamo cinque-diecimila, tutti podisti amatoriali con tempi appena sotto le sei ore, giusto per essere omologati e non andare fuori tempo massimo. Del resto nelle retrovie c’era un po’ di tutto, dall’anziano in canotta e calzoncini, alla giovane mamma alla prima maratona della sua vita, alla squadra podistica del Dopolavoro ferroviario di Chiusi- Chianciano Terme.
San Luca però non mi permetteva più di salutare e parlare con i miei vicini di corsa. Ansimante mi gustavo il paesaggio che portava ripido al Santuario, come quell’anno del militare dove spesso mi ci recavo la domenica proprio per riposare.
Difficile quantificare quanti podisti mi passarono avanti in quella salita, incuranti del mio soffrire.
Forse mi ero illuso di essermi ben preparato ed ora ne pagavo il prezzo in termini di acido lattico e gambe pesanti.
In via Paolo Fabbri al numero 43, cercai di reagire con tutte le mie residue forze atletiche. Non mi potevo permettere di arrendermi proprio ora, in zona San Vitale, davanti all’osteria da Vito, luogo mitico di abbuffate, vino e sonate. Feci appena in tempo a vedere la stazza notevole del maestrone che mi salutava con un dolce sorriso, a rifornirmi di salsicce e tortellini in brodo, al punto di ristoro da Vito, con l’immancabile tovaglia a quadri delle classiche osterie di fuori Porta bolognesi, che una voce per me familiare, mi corse dietro con un enorme fiascone di rosso dei colli modenesi. Ce lo passammo come la borraccia di Coppi a Bartali o viceversa. Feci appena in tempo a ringraziarlo che mi salutò intonando “Attenti al lupo”.
Mancavano ancora quindici chilometri all’arrivo e passando per la zona universitaria ebbi la tentazione di arrendermi.
Ma fu a questo punto che accadde un fatto strano, molto strano…
La signora del piano di sopra mi sbraitò qualcosa di vagamente offensivo, invitandomi a restare in casa, il vigile urbano mi guardava spazientito con aria minacciosa. Ero sotto casa e non potevo mollare proprio ora.
La mascherina però mi appannava la vista e gli occhiali, mentre scarseggiavano i rifornimenti. Non vedevo punti di ristoro, ma soltanto 88 metri di strada chiusa. Contavo i passi, uno per volta, ogni passo sembrava un chilometro, non ce la potevo fare.
Fu allora che vidi il traguardo in lontananza, passando sotto la torre degli Asinelli, davanti al Roxi Bar, lungo la via principale. Eccomi arrivato a poche centinaia di metri da Piazza Maggiore sotto due ali di folla che m’incitava, invitandomi a non mollare.
Ottantotto, ottantasette, ottantasei…quarantadue, trentacinque…dieci, nove, otto…tre, due…
ad un tratto mi ritrovai davanti alla mia Fiat Cinquecento parcheggiata sotto casa, con mia moglie che mi chiamava dalla finestra dicendomi che la cena era pronta e dovevo ancora fare la doccia.
Guardai le stelle, salutami Piazza Maggiore dissi al mio amico Mario che nel frattempo avevo nuovamente ritrovato.
Tolsi la mascherina, mi lavai le mani e mi sdraiai sul divano. C’era Borrelli al telegiornale

P.S Racconto scritto durante i mesi della pandemia

 


 

A sud del mondo

 

L’isola a sud della Sicilia, lungo le coste assolate del Maghreb che già s’intravedevano nei pomeriggi sognati di giovani pescatori d’oriente e d’occidente, appariva rigogliosa in tutta la sua vivacità e multiculturalità.
Il pescatore tunisino era già pronto per salpare quando davanti a lui si presentò un uomo intorno alla settantina che gli chiese se poteva imbarcarsi.
“Dove vai?” Gli chiese il pescatore
“A sud del mondo!” – Gli rispose l’uomo dall’apparente accento siciliano, alto, asciutto, con capelli bianchi ricci e folti e una barba incolta da anni.
“Sali”. – Gli rispose il pescatore tunisino. – “Andiamo a pescare lungo le coste della Libia”.
È pericoloso…c’è la guerra. Te la senti di imbarcarti?”
“La guerra l’abbiamo persa tanti anni fa. La guerra è finita nel maggio del 1978 e l’abbiamo persa. Da allora viaggio senza una meta che non sia quella del mio cuore alla ricerca di pace e di amore. Ho chiesto perdono tante volte, non sempre ho avuto risposte. Sono le stesse domande che si è posta la mia generazione tradita da cattivi maestri”.
“Sali. Come ti chiami?”
“Angelo è il mio nome, Angelo il pescatore. Martina è stato il mio primo e unico amore”.
La rete era rimessa nella stiva della barca da pesca.
Il timone diretto a sud pronto alla partenza.
Angelo già sognava una volta arrivato a destinazione, una stupenda frittura di paranza mista con tante fette di limone.
“Quanti siamo?” Chiese Angelo. “Quanti siamo nella barca?”
“Siamo in tre”, gli rispose Ayed, il pescatore tunisino diretto a sud del mondo.
“Vuoi un caffè?” – Chiese Ayed.
“Il Mediterraneo è meraviglioso” – rispose Angelo. “Se soltanto l’uomo sapesse che in questo grande lago di Tiberiade c’è la ricetta vincente dell’umanità. Ogni popolo col suo Dio che accompagna tutti i marinai”.
“Vuoi un caffè?” – Disse ancora Ayed il tunisino
Il professore intanto rassettava le reti da pesca incurante del dialogo intercorso tra i due, fingendo di non sentire i loro discorsi.
Una ferita antica sul ginocchio destro denotava un colpo d’arma da fuoco andato a vuoto, memoria di un tempo passato dove la violenza aveva preso il sopravvento sui cuori e i pensieri dei giovani. Una piccola medaglia miracolosa dorata usciva dalla camicia bianca strappata e sudata dell’anziano professore poco avvezzo con le mani al deciso e rude compito dei marinai.
“Ho sbagliato” – disse Angelo ad Ayed. “La mia generazione voleva cambiare il mondo con la violenza e il rancore. Ho viaggiato molto andando in tutti i sud del mondo che poi alla fine si confondono. Sono stato tanti anni con le missioni comboniane in Africa, prima in Tanzania e poi in Somalia. Ho visto bambini contendersi quattro stracci di vestiti in discariche abusive, mangiare granchi inquinati alla foce di fiumi invasi di scarichi fognari. Ho visto occhi scuri di miniere dove si preleva il minerale per i nostri telefonini. Ho visto però anche tanti bambini poveri, ma felici. Ho visto giovani donne danzare sfuggendo alla miseria con la musica e il sorriso. In tutte quelle tragedie ho visto l’abisso della disperazione, l’ingiustizia del male ma anche nell’abisso più profondo, ho visto l’arcobaleno e il sorriso di Dio. Lo scorso anno poi, sono tornato nella mia città. Non la riconosco più…allora ho deciso: riparto e rivado sempre più a sud”.
Il vento soffiava piano, la brezza marina muoveva la vela. Una ciocca riccia di capelli bianchi cadeva sul viso…era ormai sera.
“Angelo vuoi un caffè”, disse sussurrando il professore. “Sono io, Alfonso Ferrari. Ti ricordi, mi seguisti in piazza Duomo a Milano. Era dicembre, la vigilia di Natale. Mi seguisti fino a Piazza Fontana da dove tutto quell’odio è partito. 12 dicembre 1969. La pallottola la conservo gelosamente. Il libro di Jean Guitton è sempre sul mio comodino. Oggi sono qui in questa barca fragile che sfida le onde del mare. Mi voglio riposare. Ho quasi ottanta anni, da tempo sono in pensione, allora ho deciso di andare sempre più a sud a sfidare le onde del mare. Lo capisci Angelo, mi voglio riposare”.
Immobile Angelo fissava il professore. Ripercorreva vorticosamente quelle ore. La pistola inceppata, la pallottola deviata, la caduta rovinosa e poi la fuga. Fuggire…fuggire…e fuggire ancora. Ma poi da chi e per che cosa?
“Abbiamo perso ripeteva alla maestra Martina. Lo capisci, abbiamo perso! È tutto finito. Ci hanno deluso, ci hanno tradito…”.
E Angelo partì e nessuno ne seppe più niente, fino a quando Angelo si fermò sempre più a sud del proprio cuore alla ricerca di perdono e di amore.
“Angelo…” – lo abbracciò il professore, “il viaggio più grande è perdonare se stesso. Io l’ho capito da tanto tempo”.
“Stringimi forte professore”, – sussurrò Angelo il pescatore, “che mi sento ancora un bambino, come quando il mio babbo a Palermo mi portava ai giardini ed io cadevo dalla bici e mi sbucciavo i ginocchi e piangevo…e lui mi abbracciava forte e mi comprava il gelato, e io mi sentivo protetto e amato”.
“Volete un caffè?” disse il pescatore sia ad Angelo che al professore.
L’aroma dell’ibrik dal manico d’avorio invadeva le vele e gli ormeggi. Il sapore era forte, di miscela arabica e di robusta tostata.
Il vento si era calmato oppure chissà forse non si era veramente mai alzato.
Il caffè scendeva caldo nella gola arsa dal sale.
Il vento ora soffiava più forte, il rumore del mare ondeggiava la prua verso la riva.
La notte era bellissima, il cielo stellato.
Angelo, Alfonso e Ayed attesero insieme l’alba e poi, aperte le vele, i tre uomini salparono.
P.s. brano tratto dal romanzo inedito “L’anno che diventammo grandi”.
Due uomini, un ex terrorista, Angelo e un professore universitario in pensione, si ritrovano tanti anni dopo su una barca a vela in partenza per le coste africane. Angelo il terrorista e il prof. Alfonso Ferrari, vittima di un attentato proprio per mano di Angelo. Era il 1978…

 


 

L’ultimo Partigiano

 

Odo ancora i passi scarni e tristi di militi ignoti
di teschi e scritte vestiti
la fuga in montagna coi compagni fuggiti
i freddi inverni la neve e la danza
di chi ancora crede in un futuro migliore
da guardare negli occhi di figli lontani.
Credo
nonostante tutto il tempo passato
credo all’amore all’erba del prato
al campo dorato di grano
alla mia sposa feconda di vita
ancora in attesa…
Vorrei cantarti coi miei occhi bagnati le speranze lontane
quando raffiche di mitra scaldavan i polsi e le mani
morire a vent’anni per degli ideali
bandiera rossa e Bella Ciao alla riscossa
ma non eravamo tutti uguali
c’erano giovani, preti, operai
c’era chi sognava un mondo migliore
e diceva domani saremo tutti uguali
E il domani arrivò ma fu un mangiarsi le mani
dove siete oggi miei cari amici?
come fare per essere ricordati?
Tu Tina staffetta partigiana
diciott’anni di giovinezza e bellezza donata
Sono l’ultimo partigiano
fiero, fedele
ho pianto amato lottato
oggi non sogno più la libertà
la Resistenza tradita in oscena volgarità
in video di tette e sederi senza dignità
di ballerine e veline di calciatori di finti politici attori
di concorsi truccati e immoralità
ho riso ho amato
ho pianto
ma non perderò la mia dignità
a tutti voi piccoli amici che un giorno sarete cittadini
vi chiedo di non dimenticare chi un giorno lottò e morì anche per la vostra
LIBERTA’!

p.s. Poesia tratta dal libro “L’ultimo Partigiano, storie di resistenza e resa in Valdichiana e Valdorcia”, 2013, Ali&No Editrice