A mio padre

È uscito nella notte più fredda dell’anno,
rincorrendo i suoi ricordi.
Confuso, spaesato, ha camminato nel cuore della notte
per raggiungere la sua casa paterna,
per suonare a quella porta,
e scoprire che solo lui stava vivendo quel tempo,
che il tempo era passato
e in quella casa non c’erano più
suo padre, sua madre, i suoi fratelli,
i suoi nipoti amatissimi,
ma l’unica sorella superstite,
che mi ha chiamato, sconvolta, dicendomi
“Adriana, tuo padre è qui da me,
in pigiama, con la giacca da camera,
senza una scarpa e dice cose incomprensibili”.
Aveva un corpo da ragazzo, mio padre.
Settantotto anni, non un filo di grasso,
muscoli ancora ben definiti,
un passato da sportivo che traspariva ancora.
Aveva un’atrofia cerebrale, mio padre.
Praticamente il cervello a metà,
ma riusciva tenacemente a fare cose.
Usciva da casa. Ritornava a casa.
Comprava le sigarette,
per poi dimenticare di averlo fatto.
Comprava il latte,
per poi accorgersi di averlo già comprato.
Metteva le calze di lana in pieno agosto.
Piantava chiodi, ovunque.
Lui, eccellente ebanista,
che chiodi ne aveva usati veramente pochi.
Dava il bacio della buonanotte a mia madre,
dopo averle rimboccato le coperte.
Immancabilmente, prima di coricarsi.
Faceva e disfaceva la sua valigia,
continuamente.
Per tornare a casa.
“Voglio tornare a casa mia” diceva.
Perché quella casa, in cui aveva vissuto
con me, con mia madre, con mia figlia,
non la riconosceva più.
Rincorreva disperatamente i suoi ricordi, mio padre,
non riconoscendosi più,
non riconoscendo più luoghi noti, persone care.
Improvvisamente.
Si rivedeva in campo di concentramento,
parlava del vicino di branda, che gli aveva rubato qualcosa.
Parlava delle guardie, che lo avevano picchiato.
Parlava del suo amico, scomparso da un giorno all’altro.
Chiedeva dei suoi genitori, morti da tempo.
Chiedeva di amici ormai lontani,
di fratelli che non c’erano più,
ma che danzavano vividi nella sua mente.
Rincorreva pochi, confusi ricordi.
Conservati in quel manipolo di neuroni ammutinati,
che avevano disperso chissà dove gli altri.
Non riconosceva più nessuno di noi, mio padre,
ma, inspiegabilmente, in quella totale confusione,
quando ha visto mia figlia, la sua unica nipote amatissima,
l’ha guardata, le ha sorriso dolcemente e ha sussurrato
“Paola, la beddha mia”.
È morto la mattina dopo.


A mia madre

A mia madre,
che mi ha fatto capire
la madre che volevo essere
e quella che non volevo essere.
A mia madre,
che mi ha dato la vita,
ma che a volte me l’ha tolta.
A mia madre,
mamma bambina,
innamorata del mondo.
A mia madre,
che amo tantissimo,
ma che a volte mi ha fatto sentire
poco amata.
A mia madre,
per quello che mi ha insegnato.
A mia madre,
per quello che non mi ha insegnato.
A mia madre,
che amo tantissimo,
ma che qualche volta mi sembra di odiare.


Sopravvissuta

Ho camminato insieme a te
e tutto mi sembrava facile.
Ho camminato insieme a te
e tutto mi sembrava possibile.
Eravamo uno parte dell’altra.
Insieme.
Invincibili.
Ora.
Senza di te.
Vivo una vita che non mi piace più.
Faccio i conti ogni giorno
con la fortuna
di essere
sopravvissuta,
a un grande Amore.


A Paola

Ti ho messo lunghe ali,
Figlia mia.
Per volare alto
ed essere libera.
Soprattutto da me.


Non ti ama

Lo capisci dal suo sguardo,
spietato, denigrante.
Specchio di Grimilde al contrario
riflette le tue insicurezze.
Non ti ama
Vuole solo impadronirsi di te.


Empatia

Felicità che ti sorprende,
e ti esplode dentro.
Ti fa sorridere
con la morte nel cuore.
Inaspettato raggio di sole,
che invade una stanza
esposta a Nord.
Miracolosamente riflesso
nella finestra di fronte.


Incontrarsi

L’amore non si cerca,
l’amore ti trova.
L’amore non si cerca,
l’amore ti sorprende.
E non puoi resistergli,
e non puoi evitarlo.
E ti rende
immensamente felice.
E ti rimane dentro.
Per sempre.


Casa mia

Questa casa,
troppo grande
per me e i miei tre gatti,
un tempo risuonava
di rumori festosi,
delle grida di bimbi,
di giochi natalizi,
di amici che si ritrovavano,
di cene improvvisate,
di chiacchiere a notte fonda.
Era una casa felice di accogliere.
Poi gli amori finiscono,
i figli crescono,
la vita ti allontana,
si prendono altre strade,
si rompono amicizie,
cessano frequentazioni,
cambiano gli scenari,
Poi arriva l’Amore,
poi la Morte te lo porta via.
E ti ritrovi sola.
In una grande casa.
Ma questa casa mi conosce.
mi ha visto bambina,
mi ha visto adolescente,
mi ha ritrovato donna,
mi ha visto andar via,
mi ha visto tornare.
Conserva gelosamente
la mia vita.
Questa casa sa tutto di me,
Mi comprende.
Mi avvolge di rassicurante silenzio.
Mi accarezza di dolci ricordi.
Mi abbraccia di complici assenze.
E mi vedrà morire.


Genova 2001, io non dimentico (Giugno 2006)

Son passati cinque anni e sembra ieri, sembra ieri… “Sai mamma vado a Genova con i miei amici, ci vediamo su a Bologna e poi andiamo insieme”.
Così mi dice Paola, 23 anni, disposta a interrompere le vacanze nel suo Salento per esserci, per poterlo raccontare…e che cosa posso risponderle… “va bene”.
Sono fiera di lei, ormai vicina alla laurea, sta attraversando una fase che mi inorgoglisce, la fase dell’impegno, della contestazione, della presa di coscienza.
“Sai mamma, io vado a Genova”. Me lo dice sommessamente, temendo un rifiuto che sa che non può arrivare.
È giusto che abbia voglia di andarci. È normale per me preoccuparmi, ma non posso opporle un rifiuto, non posso e, soprattutto, non voglio.
Piuttosto vorrei andarci anch’io, ma ho una bambina di 79 anni a cui badare, mentre la mia bambina, quella vera, ormai può volare da sola.

Ha voglia di esserci, Paola, ed è giusto che ci sia.
Per protestare contro un mondo che dimentica gli ultimi, un mondo che ha perso di vista i veri ideali, un mondo che persegue macabramente le logiche perverse del profitto.

Ha voglia di esserci, Paola, ed è giusto che ci sia.
La lascio andare non senza preoccupazione. La seguo da lontano, come ho fatto ogni volta che, bambina, mi ha chiesto di poter andare in bici. Da sola. A giocare a tennis. Da sola. Di fare finalmente “qualcosa”. Da sola.
Per guadagnare una tappa nella sua crescita, un evento che la rendesse orgogliosa di aver fatto un altro passo avanti.

È il 19 di luglio. È la Festa dei Popoli. Paola mi chiama raggiante e mi dice che è bellissimo che è un trionfo di colori e di allegria, “mamma qui è bellissimo, stai tranquilla, va tutto bene”…

Va tutto bene, ma io non sono proprio tranquilla, in verità c’è qualcosa che mi preoccupa. Sono preoccupata per la macabra danza di morte che ho visto in tv: Black bloc che danzano la loro marcia di morte. Ce l’hanno scritto in faccia chi sono e cosa rappresentano, ma, chissà perché, arrivano indisturbati e nessuno se ne preoccupa.

È il 20 luglio, Paola, mi dice che è tutto tranquillo. “Lanceremo palloncini colorati oltre la zona rossa…”
E io seguo tutto spasmodicamente in televisione, soprattutto sulla Sette, l ’unica tv che dà la diretta. Vedo cose che non mi piacciono, vedo le Forze dell’Ordine, la cui imponente presenza mi aveva addirittura rassicurata, che stranamente cominciano a lanciare fumogeni e lacrimogeni contro i manifestanti, davanti a una Giovanna Botteri meravigliata e spaesata che li segue dicendo “ma scusate, perché, che cosa state facendo”.
C’è qualcosa che non va, qualcosa che non torna.
Forze dell’Ordine che non fanno il servizio d’ordine e che, invece di proteggere, cominciano a caricare i pacifisti. Vedo scene di una violenza inaudita, riportate in tv senza alcun commento, come se fosse normale inseguire una ragazza che scappa impaurita, fosse normale picchiarla violentemente dietro la nuca lasciandola tramortita. O morta. Per terra.
Poteva essere mia figlia, inaudito, tutto ciò che vedo in tv è sconvolgente, a quel punto ho paura.
Per tutti quei ragazzi, per mia figlia, che non riesco più a sentire.
Poi verso le quindici o le sedici, non ricordo, arriva una notizia: “è morta una ragazza, non abbiamo dati precisi, ma sappiamo che è morta una ragazza”.
Sono sconvolta, non so cosa fare, chiamo Paola al cellulare, ma non risponde.
Mi sento soffocare dal terrore. Poi, dalla tv una voce “Non si tratta di una ragazza, è morto un ragazzo”. E’ morto un ragazzo, mi sento sollevata, improvvisamente mi vergogno del mio sollievo.
Mi vergogno del mio sollievo ancora oggi.
Non potrò mai dimenticare Carlo che aveva 23 anni, esattamente come mia figlia Paola.

Non potrò mai dimenticare quella violenza sconsiderata, che non trova ragioni se non nella volontà di criminalizzare un intero movimento e il legittimo e non violento dissenso da questi espresso.
Doveva passare un messaggio chiaro e forte, un messaggio volto a scoraggiare ogni forma di protesta e, soprattutto, c’era la volontà precisa di dare una visione distorta della realtà.
Ma qualcosa, per fortuna, non ha funzionato.

I malvagi, voglio chiamarli banalmente così, non hanno fatto i conti con le migliaia di telecamere presenti a Genova, con i cento, mille e mille occhi elettronici che hanno filmato la verità e hanno impedito che si costruissero infami menzogne, hanno impedito che si creassero i presupposti per giustificare repressioni violente di qualsiasi forma di protesta civile, hanno impedito che
si arrivasse a stigmatizzare come terrorismo qualsiasi forma di protesta civile.

Genova luglio 2001, sono passati cinque anni, ma il ricordo è vivo dentro di me.
E non solo il ricordo. Genova mi ha cambiato la vita, ha cambiato la vita di mia figlia, che da Genova è tornata senza un graffio, ma con ferite profonde.

Genova mi ha fatto capire che non smetterò mai di indignarmi, dovessi campare cent’anni non arriverò mai al punto di farmi saggiamente i fatti miei. Mi porto dentro quella vergogna, la vergogna di aver provato un sentimento del quale non si può andar fieri. Il sollievo dettato dalla consapevolezza che non toccava a me soffrire, ma a qualcun altro.

È proprio su questo che dovremmo lavorare, dovremmo imparare a soffrire anche quando il dolore non ci appartiene. Soffrire, indignarci anche per qualcosa che non ci riguarda da vicino.
Si chiama empatia, il più bello dei sentimenti, quello che potrebbe salvare il mondo.
Ormai raro in un mondo in cui, come cantava De Andrè, il dolore degli altri è un dolore a metà.

A Carlo Giuliani, ad Haidi Giuliani, a tutti i ragazzi che erano a Genova. A Paola


Entropia

Non cambierei nulla

della mia vita.

I tradimenti,

le delusioni,

le scelte amare,

le difficoltà,

la sofferenza.

Nulla cambierei.

Potrei perdere,

con il dolore,

tutto ciò che mi ha  reso felice.


Conseguenze

Lutti che non si possono elaborare.

Vuoti che non si possono colmare.

Assenze che incatenano,

come prepotenti presenze.

Conseguenze

di una

trascorsa

completa

Felicità.


Innamorati

Li ho incontrati una sera d’estate,

camminavano davanti a me,

a braccetto, sostenendosi.

Bellissimi nel loro incedere lento.

Chiacchieravano, serenamente.

Li ho fotografati, a loro insaputa.

Come una ladra ho rubato

quel momento di tenerezza infinita,

emblematico di una vita

vissuta insieme, in perfetta armonia.

Superandoli li ho guardati. Con benevola invidia.

Hanno colto il mio sguardo, ho sorriso loro.

Ho sorriso al futuro che era nei  miei desideri.

Che mai vivrò.


21 gennaio 2015

Un anno fa te ne sei andata,

Lasciandomi orfana del tuo dolce sorriso.

Sorriso che non si è mai spento,

nemmeno negli ultimi anni,

quando la dialisi e la cecità

sono entrate, drammaticamente, nella tua vita.

Hai pagato un prezzo altissimo alla vita,

ma sei stata migliore di tutti noi.

Incapace di provare oscuri sentimenti.

Sorridente e innamorata del mondo.

Sempre.

Hai vissuto i tuoi ultimi anni serenamente

Raccontandoci la storia della tua  non facile vita.

Tu, soprano mancato.

Tu, che avevi conosciuto Tito Schipa.

Tu, con l’immancabile sigaretta tra le dita.

Tu, in compagnia della tua adorata musica.

Tu, che fino all’ultimo giorno

hai cantato le tue romanze preferite.

E’ stato il tuo modo di esorcizzare

la malattia, la cecità e il pensiero della morte.

Mi manchi tanto mamma mia.

Banale dirlo.

Non sono più figlia.

A cinquantanove anni mi sento orfana,

spaesata e sola senza di te,

che sei stata, realmente,

la colonna sonora della mia vita.