Black velvet

Sono giorni che piove, sono giorni che il cielo si è rabbuiato, oltre la finestra c’è solo catrame che perde acqua, e la getta su altro catrame. È un ciclo continuo, catrame acqua catrame catrame acqua catrame acqua acqua è una mistura indefinita di fango e cemento. Le iridi sono appannate di fumo, benzina, gocce inquinate, vedono tutto dietro una patina polverosa, patina grigia, atmosfera metropolitana, il respiro è affannoso, prova a inglobare aria ma spilla solo degrado, nuvole gonfie di delusione, quaranta chili di rancore rassegnazione impotenza.
Guardo davanti, solo sporcizia nel cielo. Guardo di lato, palazzi agghindati di tristezza. Guardo in alto, una muraglia di catene mi chiude, mi soffoca, mi fa guardare più veloce, a destra, sinistra in alto dietro davanti sinistra destra sono bloccata. Ferraglia ingombrante di nero vestita, fredda cancelliera di una città ormai troppo piccola, vuole legarmi a questa desolazione, mi maneggia come un burattino rotto e inerte, burattino di latta, pronto a piegarsi al minimo tocco, lei mi chiude in un pugno, mi rigetta nella palude e mi volta gli occhi verso una luce che non c’è, sudo freddo, cammino in un labirinto senza uscita, piove anche là dentro, sono rinchiusa in angoli tutti uguali, sono in una gabbia.
Sbarre incrinate, arrugginite dall’abitudine, dall’insofferenza, non c’è una serratura, ho perso la chiave, sbarre che si insinuano in me, un carcere monotono, lo guardo afferrarmi e fare di me una matrioska, catene dentro catene fuori. Il ferro è freddo, violento, impassibile, muovo le gambe ma giro a vuoto, le costole sono guardiani severi di un desiderio represso, soffocato, il grigio lo calpesta con i suoi pesanti scarponi, cammino a fatica, gli occhi pieni di lacrime la testa che ruota senza posa di qua di là avanti forse c’è un’uscita, niente. Mi accascio debole, il viso fra le gambe, il cappuccio sui capelli, mi rinchiudo come un riccio senza aculei, sono affogata in un pozzo di sconforto e sottomissione, tremo più forte per farmi calore ma ormai è tutto così distante, freddo, cupo, implacabile.
Sono grigia come il cielo, polverosa come l’aria, riesco solo a vomitare secchiate di pece e caos
dalle mie labbra una sola parola: Perché?


White velvet

Voi ridete, voi, laggiù. Provate a essere bloccate sempre qui, voi, laggiù, provateci a trascinarvi nella coda una scia indelebile. Provateci. Voi.
Mi stancai della monotonia elegante della Sera, dell’invito costante del Cielo, accettavo ogni volta il valzer del Firmamento. Indossavo sempre lo stesso vestito bianco, avevo un diadema sul capo. Mi stancai del palazzo. Così scappai. Mi nascosi alla linea estrema dell’orizzonte, un giorno, all’improvviso. Confusi le scarpette di cristallo vicino la Stella polare, presi una cometa, mi velai il volto, e mostrando sempre la stessa faccia uscii dalla reggia, piano, scivolando all’indietro. Le Galassie volteggiavano nelle loro gonne, avevano nelle acconciature il luccichio di Pianeti nani, io ero a piedi scalzi sulle scale fredde, gelide di novità, le scesi adagio tirando su il vestito, sempre lo stesso, bianco. Cominciai a camminare nella distesa senza nome, fino in fondo al cielo, dritta, era sempre più scuro, le Stelle sempre più fiammelle flebili spente dal respiro della Notte. Guardavo in alto, ma la distesa bianca sotto i miei passi non era neve. Erano solo sassi appuntiti. Continuai a sfiorare leggera il sentiero, serravo le labbra ad ogni tocco, mi ferii i piedi, il mio sangue aveva lasciato impronte luminose su quel tappeto ruvido. Mi sedetti accoccolandomi nelle pieghe di diamante del tessuto, piansi di nascosto lacrime di titanio, coperta dalla cometa leggera sul volto. Abbracciai le ginocchia con le braccia pallide come il latte, dovevo fuggire. A capo chino ripercorsi gli stessi sassi, tornai indietro, verso il palazzo, non potevo affrontare il mondo a piedi nudi. Risalii la scalinata marmorea, il valzer mostrava tutta semplicità nobile del Firmamento. Recuperai le scarpette vicino alla Stella Madre, scostai le tende e proseguii a guardare la bianca distesa dai balconi regali.
Il Cielo mi tende sempre la sua mano, io l’accolgo. Eppure riscenderei ancora su quei sassi, fedele della mia cometa. Qualcuno deve pur averli percorsi, quei sassi, senza lasciare tracce luminose sul suo cammino magari, ma deve averlo fatto. Ma io sono la Luna. Non posso affrontare il mondo a piedi nudi. Rimango a spiarlo dall’alto.


Pale blue velvet

Quando il vecchio cowboy aveva preso in mano la sua chitarra florealmente ornata ne aveva visto all’intero una bottiglia di whiskey vicino a un povero sgabello dondolante, e aveva visto una terrazza bianca nel deserto parcheggiata vicino a una Cadillac rossa, un po’ impolverata. Allora aveva iniziato a suonare, perché lui ci sarebbe stato davvero nel West con le Air Force, avrebbe bevuto l’Orzata, e al tramonto sarebbe stato in compagnia della più grande donna della sua vita. Avrebbe calato il cappello sugli occhi, e sulle gambe stese sopra la staccionata bianca avrebbe cullato la sua chitarra al ritmo di Pale blue eyes. Il suo sogno sapeva vagamente di cuoio usato e di alcool in boccette all’interno della camicia, anche le sue corde erano consumate dall’idea di assaporare le notti afose fra i cactus e le rocce, sotto una tettoia luminosa a cui dedicare quella sua bambina ricca di fiori. A volte era felice, a volte era triste, ma diventava semplicemente pazzo all’idea di baciare la vita al ritmo rilassato dei Velvet Underground, avrebbe messo loro nella sua chitarra e avrebbe finalmente osservato il mondo da uno specchio nuovo. Si sarebbe soffermato per un attimo a domandarsi perché, davvero, siamo così soli da essere poveri in spirito, saltando di rimpiazzo in rimpiazzo per riempire a vuoto un caotico pomeriggio. Perché, a pensarci bene, la noia morde il nostro cuore senza dargli tempo di battere ancora. Avrebbe sorriso, scrollato le spalle, e avrebbe finalmente scosso la polvere dal suo sorriso soffermandosi negli occhi blu pallido di una canzone.