Non è un gioco da ragazzi
con mani gonfie d’attesa svezzare il pianto,
adagio imbarcarsi verso un avverso destino
& celebrare la voce venata di azzurro
in mezzo ai rantoli della carne confusa.
Non è affatto facile
farsi trovare come soldati disarmati
alla carica delittuosa del cielo
in ginocchio sull’ultimo sospiro.

Voi non potete rendere inutile
il segno della croce,
mandare in frantumi cieli interi
con sproloqui vhe fanno odissee di stelle
& nei sommi deliqui nei quali cadono i brividi
non potete manipolare
i punti cardinali, piegare l’Ovest
& cementarvi nella gloria raminga.

Voi non avete
il sale benedetto nelle ferite
gli spregiudicati doni,
in bocca il fischio del delinquente
negli sguardi, preghiere a serramanico.
Non sapete scrivere parole
che scavino più di un sogno deglutito,
strapparvi le corde vocali
& passarci sopra l’archetto
composto d’infelice stridio,
la lama affilata dei sospinti amori
come un vandalo in un aureola in tempesta.

Io conservo dentro di me
Un teppismo di dimensioni bibliche.
Sputai inchiostro sui severi bavagli,
una saliva di marmoreo odio
sulle mani di mia madre.
Io ebbi vent’anni mille volte,
mi presi la lingua più discola
sonaglio d’alloro nella bocca,
mi cucì sotto scapole di scirocco
un anima scomposta,
mi strappai il chiodo celestiale
dalla testa incoronata di tremori

Io sfido
con tutta la mia scandalosa povertà
gli arcobaleni d’acciaio,
questi tempi di denti serrati
lacerati di pioggia,
i quaderni del vostro Dio.

Io vendo le vene, i capillari al cielo
sulle sue pupille
spinate come gambi di rose
passo radente le dita
per sopportare una donna
che non muore di me sulla terra.
Io, puerile pitocco,
meravigliosamente malato
ho il viso mostruosamente contristato
che vale tanto quello di Esenin, un giorno
senza casa a casa, alticcio di Universo
sarò pateticamente brutto
come un Cristo.


 

Nei miei occhi minorenni
ci fu lo sfarfallio convulso
di ogni molecola,
un amore imboscato tra amare occhiaie
a tendermi agguati esilaranti.

Innamorarsi di me è scontato,
tu, invece, amata
scavalca il Paradiso con un balzo,
io scomodo le tue avvenenti vene
a pompare onde pericolanti
sulle opere del tuo corpo
per attingere a pieni polmoni
al patrimonio dei tuoi sorrisi
mentre tu, garbata attendi
di partorire un aurato incendio.

Scrivimi un balletto
che io possa recitare
con piedi torridi e voce copiosa,
mi innalzerò sulle punte
con clangore militare, scalerò
a mani nude le tue danze.
Ogni tuo respiro è una candela per l’alba,
il rossastro mare massiccio del cielo
in te si orienta, si staglia un ugola di stelle
nella tua gola, oro scompigliato, disciolto
sul giallo costato del sole.
Fammi una corona
Di nuvole in fin di vita.

Se mi ami, dimmi
quanta morte
mi è rimasta da vivere,
bendami con un limpido sorriso
fosse anche l’ultimo che mi concedi
i nauseati palmi delle mani
che frantumai disennato
colpendo le efferate porte del mondo.


 

Lune rapprese sui miei polsi
attorno a quale viso orbitate?
Chi possedette il mio midollo
così saggiamente
da renderlo un poeta scalzo?

Ho così tanta vita dentro di me
che l’intera notte s’intreccia
nelle bocche svuotate di sonno.
Io, violentato di lampi,
mi anniento in un dimenarmi
di incontri coi miei occhi
indorati di impossibile sollievo.
Ah, quanto sono bello!
Ah, quanto sono sconosciuto
ai più che chiamano luna
un foro di proiettile sparato dritto
alla tempia imbrividita del cielo
per aprire l’anima rossa come un ruggito,
stupendamete confusa
come un vagito di un neonato.

A quale mia maschera
apostrofata dal pianto parlavi
quando io non mi ravvedevo
di rabbrividire in sanscrito?
Dove sono i presuntuosi amici
di quei dannati anni?
Dove trovare i brividi di madreperla
che mi redarguirono sulla tremenda
beltà della vita? Dove ritrovare i malati
che ebbero bisogno dei nostri aliti sul cielo
per registrarci nei loro cataloghi di stelle
& delle nostre vibranti glottidi
per mormorare tra il fogliame del pianto?
Dove sono le spontanee schiene
che si stesero su travestine di ghiaccio
& infinito? Chi appose il calco del suo morso
sugli irremeabili venti?

Adesso le pareti della mia stanza
si gettano nel buio del cielo,
il mio respiro impregnato di stelle
seppellisce il vino del linguaggio,
attizza le nuvole ascoltando
il solido passo del vento,
ma poi ci sei tu, in alto,
dove traballa il sogno
dove manca il sostegno,
occhi rossi di tempo, nei baci
lungo le traballanti scale del collo
dove manca il corrimano,
ci sei tu, Danila, montagna di neve mossa,
raggio inchiodato ai polsi dell’alba,
Campania di irrecuperabile bellezza.

Anche Dio mi si getterebbe tra le braccia
nonostante questo urlo non disseta il cielo
ma gli dona una vertigine insostenibile
& da questa bocca solinga sorta dal mare
non emerge che delusa nausea,
l’amor mio che diventa specie.

Io verso le mie parole
in una cascata di cristalli astemi,
getto un brandello di notte
sul cuore, in fiamme piango
fino all’ultima cera.
Io scardino poesie da mura di sillabe.
Sono il dono di chi esagera,
un infarto di baci
mi si posa sulle tempie.