Calma

Vaga la mente, cullata dal silenzio.

Lontana risuona l’eco dei pensieri.

Muta, la voce, riposa dentro il petto.

E gustano le orecchie versi armonici

di bestie alate e che tastano la terra

e dei soffi del vento che sfronda i rami.

Placido poggia supino in terra il corpo

E gli occhi mirano, fissi, il cielo azzurro,

a sprazzi tinto del bianco delle nuvole,

regno di uccelli, senza confine alcuno.

E il cuore, che, infaticabile viandante,

a lungo muovesi tra premure e affanni,

s’acquieta ora, e il pulsare cadenzato

risuona come i rintocchi di campana

messaggeri del riposo meridiano.

E passano i minuti e trascorre il tempo

serenamente come un fiume nel letto.

Vaga la mente, cullata dal silenzio.


Elogio della scrittura

Leggero aratro che corre veloce

solcando bianchi i campi cartacei

e nero tracciando solco non retto

ma sì articolato in svolazzi isolati,

che eccelsi pensieri, immagini, suoni

di mente degna di tale ars narrandi

incarnano all’occhio di un sano intelletto

che non sprezza l’opera di calamo e inchiostro,

ma anzi rimira qual opera d’arte

su tela impressa d’artista ispirato.

Danzano insieme il pennello e la penna

Su bianchi spazi e da mano guidati.

Colori, contorni, figure sfumate;

nero di seppia, eloquenti tracciati.

Continua, aratro, a solcare altri campi,

e ancora, ancora senza mai arrestarti,

e non curarti di chi il seme tuo

non sa apprezzare e disdegna i tuoi solchi

con la beltà che chi ara riversa!

Voce dell’anima in luogo silente,

negri viandanti in pallor di deserto,

parole che parlano su un foglio che è muto.

Immortale aratura, sdegnata o apprezzata,

sed tu, aratrum, obstinata mente obdura.


Corpus domini

Per quei vicoletti della città vecchia

Quanta la gente che si affaccia ai balconi!

Tutti i fedeli per le anguste stradine,

dove ogni pietra è una voce di storia,

fiancheggiano i vicoli in trepida attesa

che austera campana annunci l’uscita

di Colui che è racchiuso in un corpo di pane.

Davanti la Chiesa freschi petali sparsi

son pronti a essere variopinto tappeto,

come i mantelli a Gerusalemme

stesi al passaggio del Re dei re.

Annuncia la voce dell’araldo severo

l’uscita imminente di quel Corpo trafitto

per i peccati e risorto glorioso,

vivo in un cibo quotidiano e umile.

Si apre la folla come fece il Mar Rosso,

ed il cristoforo avanza recando

a mani giunte l’elevato ostensorio,

dal quale, candido, il Pane del Cielo

risalta ai tenui raggi del sole,

tiepidi al volgere del giorno al tramonto.

Profondi inchini in regal riverenza

per rialzarsi a seguire il Dio fatto cibo.

Risuonano i vicoli della città vecchia

delle voci oranti del popol fedele

e canti devoti accompagnano il passo

vestito o scalzo che cammina in preghiera.

Dai terrazzi senza intonaco

degli aviti casolari

petali d’ogni colore

piovono all’austero incedere

dell’Ostia Divina in mezzo a quei sassi

di borgo antico e tra i muri di calce

che recano i segni di un tempo passato,

come le rughe sul volto di un vecchio,

segni di anni vissuti e fatica,

voce di antica saggezza di vita.

Passa il Santissimo e saluta quei luoghi

Dove si abbracciano passato e presente,

storia e leggenda, fede e magia.

Dove un tutt’uno son materia e spirito,

dove ogni crepa è un’opera d’arte

del Tempo, artista eccellente e imbattuto,

ed ogni muro, scrostato e cadente,

tela di quadro senza cornice

che canta storie e ricordi lontani.

Passa il Santissimo per le ruvide vie

corrose dal correre dei secoli andati.

Passa Colui che la vita ispira

nel vile fango della terra inerte.