AMBROSE

Marciavano, marciavano nella neve. Freddo il vento sui loro visi affranti, gelide le loro ossa e loro andavano avanti, stanchi e patiti. Erano ormai giorni, forse qualche mese che se ne stavano nella steppa, Ambrose non avrebbe saputo dirlo con precisione: i giorni erano tutti uguali e, anche per questo, informi.
Dura la vita del soldato, lo sapeva già da prima di partire, tuttavia mai avrebbe pensato che potesse diventare così noiosa, così lacerante. Ammettiamolo, Ambrose era partito senza grandi e nobili principi: non era il tipo di persona che vuole difendere la patria; era, al contrario, povero in canna, nonché ladro, e la guerra era stata una sorta di pretesto per sfuggire a qualche anonimo creditore. Era un sig. nessuno, il nostro Ambrose e a lui neanche dispiaceva; la sua situazione lo lasciava quasi sempre fuori dagli impicci e nella condizione di essere libero di scegliere che fare e quando farlo: era un selvatico, insomma.
Forse perché cresciuto in un piccolo paese di montagna ai confini nord del paese: in effetti, era sempre stato un bambino vivace, spensierato, di famiglia semplice. Il padre allevava mucche e la madre cuciva toppe sui suoi pantaloni. Sembravano felici.

“Dove sei stato?”
“In giro.”
“Vedi di rispondere a tua madre, Ambrose!” grida suo padre dal fondo della stalla. È sdraiato su un mucchio di fieno, con il cappello a coprire il viso e la bottiglia in mano. Forse ubriaco.
“Allora dove sei stato? Dimmelo.”
Ambrose non risponde, tenendo la testa bassa.
“Con Dick, non è vero?”
Ambrose continua a non rispondere.
Sua madre gli tira uno schiaffo, bello forte.
Ambrose alza finalmente lo sguardo, con le lacrime che cominciano a scendere, e finalmente la vede in viso, la vecchia Liz: ha un’altra macchia blu, stampata circa all’altezza del collo. Ambrose comincia a piangere per davvero.
“E ora piangi? Vuoi davvero farmi incazzare? Dimmi con chi cazzo sei uscito. Dimmelo!”
Ma Ambrose non ci riesce, dalla sua bocca escono solo sordi singhiozzi. Guarda la madre, quasi implorante.
“Ebbene?”
Silenzio.
“Non rispondi a tua madre, Ambrose?” è suo padre a parlare: si è alzato e viene verso di loro, barcollando. Visibilmente ubriaco. Ambrose guarda ancora la madre, impaurito, ma lei abbassa lo sguardo, forse per vergogna, chissà.
“Beh forse tua madre è troppo buona, non credi, Ambrose?” ha in mano un bastone e lo guarda. Fisso.
“No!” urla Ambrose.
“Cosa?”
Ambrose si costringe a non gridare, mordendosi la lingua.
“Tu credi che tua madre sia cattiva?”
Ambrose chiude gli occhi.
“Ora ti faccio vedere io, cosa significa cattivo.”
Le luci sono spente.

Era poi fuggito, da lì, Ambrose, non so più per quale motivo; forse per cercar fortuna, forse perché giovane e annoiato era sceso fino alla capitale: era arrivato, a soli sedici anni, alle porte di Londra.
Londra (che città assurda, che città strana!); Ambrose ne era inconsciamente affascinato. Ne aveva sentito parlare fin da bambino (città di ladri, la chiamavano ogni tanto dalle sue parti) e, fin da quando riusciva a ricordare, aveva sempre desiderato andarci.
Subito dopo il suo arrivo, aveva trovato alloggio in una bettola nel sud-est della città e lavoro come manovale nella grande fabbrica sul Tamigi (di cui, perdonate la scarsa memoria, proprio non ricordo il nome). Viveva così, un po’ con i pochi soldi che guadagnava, un po’ rubacchiando qui e là quel che poteva, sempre spensierato, sempre allegro.
Cosa faceva d’altro? Beh, amava andare al pub, ci stava tutte le sere. Era, credo, un po’ come andare a scuola per lui; i suoi amici gli parlavano di tutto, gli insegnavano di tutto: dal calcio alla politica, dai cambiamenti atmosferici a come dev’essere una birra per definirsi buona.
Tuttavia, nonostante fosse incredibilmente interessato ai vacui discorsi dei suoi compagni di bottiglia era solo uno, in realtà, il motivo vero per cui Ambrose scendeva al pub: le donne. Non se ne vedevano molte, questo è vero, e spesso, quando succedeva, puzzavano di birra e portavano abiti sudici, ma per Ambrose rimanevano comunque affascinanti. Ne era attratto più di qualsiasi altro. Le amava, una ad una.

Entra sola, un foulard rosso le avvolge il capo; è diversa dalle altre. Nel pub si fa immediatamente silenzio. Tutti la guardano, o meglio, tutti se la mangiano con gli occhi: sembrano passati secoli dall’ultima volta che una così disgraziata (e così bella) creatura del Signore è capitata da quelle parti.
“Un bel bocconcino” sussurra Dave ad Ambrose, che fa una smorfia. Ne è quasi impaurito.
“Sì” mormora “incantevole.”
Il pub rimane in silenzio e la ragazza avanza tra i tavoli sporchi, per nulla impaurita benché consapevole di aver tutti gli occhi su di lei; va verso il bancone. È fiera, almeno nel portamento, e senza paura. Ambrose pensa che potrebbe avere la sua età, anno più anno meno; gli batte il cuore a mille, non riesce a toglierle gli occhi di dosso.
“Un bicchiere d’acqua, per favore.”
“La ragazza sì che sa bere!” grida una voce fuori campo, sicuramente un ubriaco. Qualcuno ride, poco convinto, e subito il bar ritorna immerso nel suo innaturale silenzio.
Bevuta la sua acqua, la ragazza chiede un’informazione (probabilmente si è persa): “Page Street” dice o, almeno, questo è quanto che arriva all’orecchio di Ambrose.
“Signorina, ci sono tante vie a Londra, se dovessi ricordarmele una ad una sarei probabilmente miracolato, non le pare?” le risponde Harry, il padrone del locale, forse scherzando.
“Sì” mormora, sorridendo “la ringrazio comunque” ed esce dal pub, che riprende a rumoreggiare come solito.
I due compari si guardano: “Io, una così, non me la sarei fatta scappare!” esclama Dave, ridendo.
“Eh sì, neanche io, ma che le dico?”
“Portala dove deve andare diamine!”
“Ma se non so nemmeno dove si trovi Page Street!”
“Hai una sola possibilità, mio piccolo cupido: o esci subito, o la perderai per sempre. La scelta è solo tua.”
“Dimmi tu, che faccio?”
“Per questa volta la birra te la offre la casa, ragazzo” interviene Harry, che intanto ha ascoltato tutto “ma solo se ti muovi e vai a prendertela.”
Ambrose non ha bisogno di sentire altro: si catapulta fuori. La ragazza ha appena girato l’angolo, lui la rincorre.
“Signorina!” grida.
Lei si volta. I due si guardano e si sorridono. Si sorridono per la prima volta.
Le luci si accendono.

Avevano entrambi ventitré anni, il giorno in cui si sposarono, Ambrose ed Elen. Erano giovani, due bimbi sperduti, senza un soldo in tasca e con un paio di debiti alle spalle, ma erano felici, dopo tutto, e pazzi d’amore l’uno per l’altra. Ambrose aveva cambiato casa e lavoro: ora abitavano in Burnaby Street, al 53, e lui faceva il cuoco in un ristorante piuttosto grande della zona.
Dopo due anni di matrimonio, venne il primo figlio: Ambrose lo volle chiamare Stephen, come suo padre. Quanta gente venne a trovarli: i genitori di lei (che non ho mai conosciuto), gli amici del pub, le vecchie compagne di collegio di Elen. Scese anche, dalla Scozia, Lizbeth, la madre di Ambrose (il padre era morto di cirrosi epatica due anni prima): era contenta di vederlo sistemato e le si illuminarono letteralmente gli occhi quando vide Stephen. “Ti somiglia” disse, con un sorriso che Ambrose non le aveva mai visto addosso.
Passarono i giorni, passarono gli anni e la vita, per i due sposi, si fece più dura. Il paese entrò in guerra per contrastare la Germania che ormai dilagava in tutta l’Europa continentale: il cibo scarseggiava.
Quando Ambrose venne licenziato, due mesi dopo il 12 ottobre, lui ed Elen decisero di mandare Stephen, che aveva ormai quattro anni, in Scozia, da Lizbeth: al sicuro. Erano preoccupati. Intanto, Ambrose, si riempì di debiti: con Dave, con Harry, tutti per avere un tozzo di pane.
Era il 1940 quando decise di partire. La notte del 19 marzo del 1940.

“O mio Dio, Ambrose!”
“Non farne una tragedia. Non possiamo permetterci tragedie. Ho dovuto farlo.”
“Hai dovuto farlo? Ah sì? E per cosa? Almeno questo potrai permetterti di spiegarmelo” è quasi isterica, Elen, guarda fissa negli occhi il marito, il quale, invece, tiene basso lo sguardo.
“Non abbiamo più da mangiare…” mormora.
“E questo che significa?” cominciando a singhiozzare.
“Beh, che in qualche modo dovevo pur cercare di arrangiarmi: l’ho fatto per te, per noi!”
“Ah sì? Bel modo di aiutare, Ambrose, andare a farti ammazzare. Davvero, sono stupita della tua scelta ponderata.”
“Elen, non mi pagano in prigione.”
“Ambrose, non mi interessa averti in prigione o fuori: mi interessa averti vivo. E saperti vivo. Non mi interessa nient’altro, Ambrose. Nient’altro.”
A questo punto Elen si siede a terra e si copre il volto con le mani. Ambrose la guarda con occhi impotenti. Partirà, ormai è deciso, ma come fare con lei? Come può cavarsela, Elen, abbandonata in quella schiera di miserabili?
“Potrei trovare lavoro. Potrei pagare i nostri debiti.”
“Elen, non c’è lavoro. Non c’è lavoro da nessuna parte.”
“Ma potrei…”
“No. Non puoi fare nulla.”
Una pausa: i due contendenti si guardano.
“Vai a togliere il tuo nome da quella lista” sussurra lei, quasi impercettibile.
“Non posso…”
“VACCI!” grida.
“Elen: non posso” fermo.
“E allora ammazzati, MUORI!” lei non può più contenersi, ora.
“Elen, non far così. Non adesso.”
“Non andare.”
Ambrose rimane in silenzio. Lei è lì, sempre seduta sul pavimento, che lo guarda: ha gli occhi pieni di lacrime.
“Ti scriverò tutte le settimane. Non ne mancherò una.”
“Non andare.” mormora, senza voce.
“Tornerò.”
“Non andare.”
Le luci si spengono.

Era partito e aveva combattuto per quasi un anno: era un soldato valoroso, nonostante fosse in guerra per sfuggire ai creditori, non sbagliava mai un colpo.
Si distingueva, Ambrose, non solo perché era bravo a sparare, ma soprattutto perché era l’unico, in quell’inferno, che riusciva ad essere ancora allegro: fosse la sua indole, fosse il pensiero che sua moglie era sana e salva, rideva e non perdeva occasione di raccontare qualche aneddoto su di sé. Riusciva a rallegrare gli altri. Riusciva a essere allegro e spensierato, come una volta.
Era gennaio, forse il 15, quando arrivò la posta, quel maledetto carico di posta; mentre loro marciavano attraverso le province settentrionali dell’Europa, le notizie che arrivavano da Londra erano terribili (la Luftwaffe continuava a bombardare e sempre più violenta) ed erano tutti inquieti, Ambrose in particolare.

“Non andare, Ambrose.”

Prese in mano la lettera: notò che la carta era diversa, un po’ più pregiata, ma non diede molto peso a questo particolare.

“Lavorerò. Pagherò io i nostri debiti.”

L’aprì e vide che era battuta a macchina: non era stata Elen a spedirla.

“Ambrose, non mi interessa averti in prigione o fuori: mi interessa averti vivo. E saperti vivo. Non mi interessa nient’altro, Ambrose. Nient’altro.”

Ambrose iniziò a piangere, entrando nella sua tenda: com’era possibile? La lettera gli tremava fra le dita. Non riusciva a reggerne il peso.

“E allora ammazzati, MUORI!”

Si stese sulla branda e rimase fisso a guardare il vuoto. Non poteva crederci, non poteva essere vero. Lui, carne da macello, vivo e lei, il suo splendido fiore, morta.

“Hai dovuto farlo? Ah sì? E per cosa? Almeno questo potrai permetterti di spiegarmelo.”

Guardava la sua pistola: stava assumendo ora un aspetto invitante, molto invitante. Non aveva mai sbagliato un colpo, fino ad allora; con quella aveva scritto gli ultimi capitoli della sua storia: ne mancava solo uno, un ultimo atto di coraggio.

“Non andare.”

Premette il dito su quel maledetto grilletto e sentì la pallottola penetrargli il cranio, riducendolo in miseri brandelli senza senso. Fu solo un flash, che, per quanto fosse luminoso, spense la luce fredda di gennaio, spense il calore della sua tenda, sparì, in quel singolo colpo, anche l’immagine di lei.
Senza rimorso, senza più tristezza, morì, Ambrose: un sig. nessuno perso in una schiera di disperati.

E cala il sipario.


PETALI ROSSI

Caro diario,
Tutti sbagliamo: sarebbe un’assurdità dire il contrario, o, quantomeno, una menzogna. Il problema, secondo il mio modestissimo parere, è riconoscere ciò in cui sbagliamo nelle azioni che ci portano un immenso piacere. Prova a ricordare quante volte hai pensato di non sbagliare pur sapendo di essere assolutamente nel torto. Avanti, pensaci! Ci può stare di tutto: dal muovere avances alle bambinette a cui insegni, al far impazzire tua moglie, al dimenticarti assolutamente di tuo figlio. Lo so, caro Diario, il mio orizzonte di tutto rimane compreso nel campo visivo di una povera ipovedente. Io con tutto posso pensare solo a mio marito. E solo ai suoi errori. E solo alle sue bugie. Soltanto che, maledizione, non posso fare a meno di ricordare, neanche ora, nonostante sia tutto finito. Lui era la mia vita, capisci?
Tutto è iniziato il cinque gennaio di quest’anno; vedi, caro diario, io e Louis J. King eravamo sposati da molto tempo ormai, dieci anni, e il nostro matrimonio era, o almeno sembrava, un matrimonio perfetto. Ci eravamo conosciuti all’università, lui studiava letteratura: mi era sembrato da subito l’uomo da sposare (sai come si dice, no?) e dopo pochi mesi, giusto il tempo perché finisse i suoi studi, il signor King mi aveva portato all’altare. Ero diventata così la signora Elen King, ragazza giovane incinta, senza possibilità di lavoro e completamente dipendente dal marito professore, e ti giuro su mia madre, diario, che se ci fosse anche solo una possibilità di tornare indietro da quello che ho appena fatto, la prenderei.
Sì, perché sai Louis era davvero perfetto, era davvero l’unico uomo con cui avrei potuto costruire una famiglia, la mia famiglia; tuttavia questo non conta più, anzi è assolutamente irrilevante ormai. Perché l’ho ammazzato, caro diario, l’ho ammazzato ed è ancora qui, steso a terra, davanti ai miei occhi.
Ehi, Elen, che stai facendo?
Che vuoi?
Perché ti sei chiusa dentro a chiave?
Beh, forse perché volevo che tu finissi.
Finissi di fare che? Hey, ma che ti prende?
Credi davvero che non lo sappia, Louis? Mi credi davvero così stupida? Mio Dio.
Ma di che cosa stai parlando?
Di Jane. Di Jane si sta parlando.
Jane? Ma è una mia alunna.
Lo so.
E come conosci Jane?
(Silenzio.)
Elen?
(Silenzio.)
Mi apriresti la porta?
No.
Aprimi.
No.
Signora King?
Stronzo.
Apri questa cazzo di porta.
No.
(Silenzio.)
(Silenzio.)
Che vuoi? Vuoi davvero parlare di Jane? D’accordo, parliamone.
(Silenzio.)
E allora vaffanculo.
(Silenzio).
(Passi che si allontanano).
Era considerato un uomo d’oro, il signor King, specialmente da mia madre: lo venerava, sembrava un dio per lei. I primi tempi era come se addirittura si dimenticasse di papà, quando vedeva Louis. Si perdeva in elogi di ogni tipo: “Dev’essere un ragazzo di buona famiglia”, “Sicuramente verrà ben retribuito in futuro”, “Mi sembra proprio un gran lavoratore”, “Saprà esaudire tutti i tuoi desideri”. Saprà esaudire tutti i tuoi desideri, non so quante volte le ho sentito dire questa frase. In effetti Louis ci aveva provato, aveva provato a esaudire quelli che erano i miei desideri: aveva preso la casa in montagna che desideravamo, avevamo due macchine per lasciarmi più libertà (naturalmente la mia era stata scelta da lui, cosa volevo capirne io!), non si dimenticava mai di un compleanno né di un anniversario e, sinceramente, non avevo molto su cui lamentarmi. Era autoritario, questo sì, era il classico pater familias e io il suo angelo della casa, la sua donnina. Mi voleva in casa. Sempre in casa. Chiusa.
Sai, caro Diario, io ho comunque sempre accettato questo aspetto in lui: cazzo, lui sì che era perfetto! Lo dicevano tutti e lo era davvero! Cosa costava a me stirare un paio di camicie in più? Invece, con il passare del tempo e degli anni aveva cominciato a costarmi pure quello.
Pazza. Ecco, ora lo riconosco: dovevo saperlo già da prima, mi pare che me l’abbiano già detto (forse mia madre, non ricordo).
Esaudirà tutti i tuoi desideri, ma a te, povera bastarda pretenziosa, non bastava? No tu volevi di più. Volevi che fosse sempre di più. E l’hai ucciso. L’hai ucciso per le camicie. L’hai ucciso per l’auto. L’hai ucciso per Jane.
La cosa divertente che te l’aveva pure detto, quel cinque di gennaio, che era
solo una scappatella, amore. Nulla più: un attimo di debolezza. Ora apri questa porta.
Per cosa, Louis? Mi vuoi scopare? Mi vuoi usare un’altra volta? O vuoi che chiuda gli occhi e ti lasci fare? No, non ci sto, chiedo il divorzio cazzo. Non mi puoi trattare così.
Elen apri questa cazzo di porta o la sfondo io.
(Elen piange.)
Perché devi rendere le cose difficili, eh, piccola stronzetta? Manco l’avessi messa incinta la puttanella!
Noi abbiamo un figlio! Tu hai un figlio Louis! Per te questo non conta davvero nulla? Non credi anche tu che dovresti avere un minimo di fedeltà verso la madre di tuo figlio?
(Louis quasi sussurra.) È stata solo una scappatella.
Louis, una scappatella può bastare.
(Sempre sussurrando.) Non può bastare.
Questa volta sì.
(Gridando e sbattendo forte la mano sulla porta) Lo decido io quando basta. (e con un calcio apre la porta.)
(Elen grida.)
Taci. TACI. Ora ti faccio vedere io chi comanda. Ora ti faccio vedere io cosa vuol dire vivere in coppia. (Borbotta, come pazzo, sfilandosi la cintura.)
(Elen geme.)
Ora si passa alle maniere forti, amore. Non lo capisci con le buone? Bene, ci metto un minuto a passare alle cattive. Decido io quando basta. Io. (E tira una prima cinghiata.)
(Elen grida) Okey basta, ho capito, ti prego. No, mi fai male! Perché lo fai? PERCHÈ LO FAI? Ti prego smettila.
No tu non hai capito. Tu non capisci mai. (Mettendo via la cinghia, si avvicina come un lupo, spogliandosi)
(Elen si schiaccia contro il muro chiudendo gli occhi, impaurita) Che vuoi fare? Louis, che vuoi fare?
Ti voglio insegnare che se io voglio qualcosa, non devo fare altro che prenderla. Se adesso io voglio la tua vagina, non devo far altro che prenderla. Mi hai capito?
(Elen comincia a sentir dolore, annuisce piangendo)
Bene. (Sospiri di piacere.)
(Gemiti di dolore.)
Devi essere proprio pazza a non volermi. Proprio pazza.

E così via. È stata una continua routine, un continuo susseguirsi di violenze dal cinque gennaio e ora è maggio: ho il sole caldo che mi batte in fronte. Non so per quanto ancora potrò rivederlo, caro diario, il sole, ma vorrei potessi farlo ancora per tanto tempo. Perché sono ancora qui a guardarlo e non splendeva tanto da troppo, troppo tempo.
Sì, ho ucciso mio marito, ma, in fondo, che mi importa? Era davvero così perfetto? No; l’ho ucciso conficcandogli ripetutamente la penna con cui sto scrivendo nella giugulare e mi sono macchiata le mani di sangue, del suo sangue: ho la faccia sporca del sangue di quell’uomo che mi tradiva, che mi picchiava. Dell’uomo che da cinque mesi ormai mi stuprava senza il minimo rimorso. Devo forse rimproverarmi? O sono forse pazza? No, so quel che ho fatto.
Finché non verranno a prendermi starò qui, seduta in mezzo al giardino, sporcando i petali che mi avvolgono nel loro cadere, a scrivere la mia storia, a scrivere l’ultima pagina di questo diario che prima non avevo mai tenuto. Respiro, caro diario, e non ci vedo nulla di male: respiro aria nuova, aria diversa. Aria di redenzione.


FILASTROCCA

Quello che John sogna non è vero. Quello che John sogna è tutto un’orrenda menzogna. John non è altro che un bambino viziato, solo e coccolato da quella strega della madre. John è cresciuto in una spirale di menzogne. John è un mostro.
John sta giocando a palla nella strada davanti casa. È un piccolo bimbo di quattro anni: i capelli biondi, a caschetto, ha il fascino del tipico angioletto americano. È uno come tanti insomma, almeno esteriormente. Ha solamente una cosa che lo distingue davvero: è dotato di un’intelligenza fuori dal comune. Nella sua testa si affollano, come formiche, numeri e lettere di tutti i tipi, insieme ad immagini, suoni, voci. Tuttavia, ciò che lo distingue in maniera definitiva da un altro comunissimo angioletto del mid-west è probabilmente il fatto che John non ha ancora pronunciato nemmeno una miserrima parola. È infatti considerato quasi da tutti come stupido. Confusi vero?
Quello che John pensa è tutto una bugia. È meglio che John non parli altrimenti potrebbe solo fare del male a qualcuno. John sicuramente crescerà come un delinquente. John è troppo influenzato da sua madre. John è un mostro.
Proverò a spiegarmi: John era senza dubbio capace di parlare, probabilmente avrebbe fatto meno errori sintattici di un adolescente qualsiasi, ma (credetemi, non sono pazzo) non si era mai mostrato a nessuno nel farlo. Perché? Molti potrebbero dire che era un bambino timido, che si vergognava per un nonsoqualemotivo. La spiegazione invece, a parer mio, è un’altra. John era geloso, geloso del suo immenso intelletto. John non avrebbe mai rivelato a nessuno il suo segreto e si sarebbe sempre nascosto all’ombra di quel grande aggettivo che la gente comune gli aveva affibbiato: ritardato. Per lui non c’era assolutamente differenza nell’essere odiato o amato. I suoi amici li aveva già nella sua testa: si chiamavano tutti John.
John parla con amici che non esistono. John vive in un mondo che non esiste. John sogna di sangue. John è sangue, è morte, è sua madre. John è un mostro.
Certo, c’era pur sempre sua madre. Solo davanti a lei John provava un certo rimorso nel mostrarsi un inetto. Sapeva che gli voleva molto bene, e lui ricambiava. Ogni tanto, quatto quatto, le si avvicinava mentre stava leggendo un libro seduta sul divano e l’abbracciava forte. Amava sentire la stretta docile della madre e adorava il calore del seno di lei. C’erano delle volte che, quando lui le gettava le braccia al collo, la madre piangeva. Era un pianto sommesso, non si voleva fare vedere dal bambino. John provava sempre una certa fitta al cuore nel nascondersi anche in quei momenti. Sempre, quando succedeva, alzava gli occhi verso quelli della madre, lucidi sebbene lei stesse sorridendo nel guardarlo, e capiva tutto. Capiva che anche lei era come lui: anche lei si nascondeva e capiva perfettamente che ogni sforzo fatto per nascondersi anche da lei era inutile. Benché non si mostrasse, sua madre vedeva dentro di lui come poteva vedere attraverso un bicchier d’acqua.
Quello che pensava John di sua madre è tutto falso. La madre di John è una falsa. John è un bugiardo. John è un puttaniere. John sogna cose malvagie. John è un mostro. John sta morendo.
Sono passati solo pochi secondi. John sta ancora giocando a palla in strada. Ha sentito solo uno schianto. Un fortissimo schianto. Purtroppo c’è anche chi si ubriaca alle sei del pomeriggio, purtroppo, John, non lo sa. Rimane pietrificato ed immobile davanti a quell’orrendo bisonte di ingranaggi e lamiere che gli si sta progressivamente avvicinando. Le voci nella sua testa, i diversi John che abitano lì dentro, sono diventate stranamente cattive: lo insultano, insultano lui e sua madre, dicono che John è una persona cattiva, gli danno del mostro. Gli dicono che sta morendo.
L’unica cosa che sente prima dello schianto è un grido: il grido di una donna. L’unica cosa che gli viene in mente di fare è gridare di rimando per la prima volta; incapace di nascondersi ancora, grida il nome dell’unica persona che ama: Lizbeth. Sua madre.
L’unica cosa cui pensa in quegli ultimi strazianti secondi, con la mente finalmente libera dalle voci e dalle parole e dai numeri, sono occhi lucidi, eppure sorridenti, di una donna che lo amava.