La casa del melograno

Mio melograno che ancor mi guardi

ogni volta che varco il cancello.

Perfino più forte, fiorito e bello,

mi aspetti sempre anche se faccio tardi.

Vivi in quel passo di pietre lucenti

che, quando ancora parlar non sapevo,

il mio amato padre, che sempre osservavo,

nemmeno le avea nei suoi propri intenti.

In fondo a quel  viale, di fianco a una viola,

ricordo che v’era un grande loggiato.

Oh, che immenso peccato,

quando un giorno tornando da scuola

non c’era già più quel timido amico,

gigante di pietra, mattoni e cemento.

Ho sempre pensato che fosse contento

di vedere al suo posto quel fico

che cedette a sua volta il suo spazio

all’ulivo massiccio e possente

che tutt’ora sta li allegramente

sotto un manto che pare topazio.

So bene che non puoi vederlo

poiché sta là dietro, nascosto da un bordo

ma credo proprio che andreste d’accordo

perché su di esso si posa un bel merlo.

Somiglia a quello che tempo addietro

sfiorava i tuoi rami e sembrava parlasse.

Volava spesso sulle rose rosse

che con la rugiada parevan di vetro.

Dinnanzi a te le maestose sorelle.

Due palme che quando ero solo un bambino

Non eran più alte di un rosmarino.

Ma guardale ora! Che grandi e che belle!

Chissà quanti pianti che ti sarai fatto

quando quel giorno si sono ammalate.

La morte era certa e le avrebbe abbracciate

per colpa di un vile e meschino insetto

che altro non fece che dar da mangiare

alla famiglia e alla propria prole.

Come biasimare un simile amore,

cos’altro avrebbe potuto fare?

Ma tu melograno sei ancora il più forte.

Hai visto crescere me e mio fratello

e ora mio figlio in questo castello

che è la mia casa dalle tante porte.

Io più di tutte avrei voluto aprire,

per te che perenne dormi là fuori,

la porta che dietro nasconde i colori

di quello che ora è il mio focolare.

Prima era solo la vecchia mansarda

in cui io conservo i più dolci ricordi,

in cui la mente compone gli accordi

di una musica audace e gagliarda.

Ma è la mia casa e lo sarà in eterno

e solo tu che vedrai la mia ora

saprai di chi altri sarà la dimora.

Tu che stai lì d’estate e d’inverno,

col vento, la pioggia, l’afa o la neve,

coi rami intrecciati, le foglie e i tuoi frutti.

Sappi mio caro e che lo sappiano tutti!

La casa è anche tua, il mio cuor te lo deve.


Lettera di un uomo innocente

Bianche pareti di questa prigione,

che avete ascoltato le mie preghiere.

Quanto vorrei esser come l’airone

e volarmene via con le ali leggere.

 

Sono innocente e voi lo sapete.

Ma siete le sole e nessuno mi crede.

L’ho confessato più volte anche al prete

ma a lui non importa la mia buona fede.

 

“Dio ti perdona!” mi dice ogni volta

e da quello capisco che forse mi ignora

o che non mi crede o nemmeno mi ascolta.

E mentre vi scrivo una mano vi sfiora.

 

La mano è la mia, non abbiate paura.

Quelle del boia sono assai più scortesi.

Graffiano e scavano senza aver cura

di voi o di me che ormai siamo arresi.

 

Avevo una moglie ma è morta di stenti

pagando avvocati che come sciacalli

le han preso persino i suoi sentimenti.

Ricordo ancora quei biondi capelli.

 

Mia madre e mio padre me li hanno ammazzati

e incolpano me esattamente di questo.

L’unico figlio di due disperati

che mi hanno cresciuto perbene ed onesto.

 

Fui il primo a trovarli nell’ampio salone.

Mia madre era morta, mio padre ansimava.

Io senza un attimo di esitazione

provai ad estrarre, dal corpo, la lama.

 

Quello è stato il mio unico errore.

Aver toccato il dannato coltello

che diede comunque la morte a mio padre

e a me la galera senza volerlo.

 

“Pena di morte” fu la condanna.

Ma credo che quello fu un giorno stupendo.

Perché senza loro, la mia anima affanna

e il senso di esistere ormai si era spento.

 

Cosi mi ritrovo tra queste mura

che siete voi. Amiche sincere.

Provando a descrivere quella paura

che ho avuto di vivere e non di morire.

 

Piango mio padre, mia madre e mia moglie

ma tanto tra poco li incontrerò ancora.

Ciò che la vita a volte ti toglie,

sovente, lo rende la morte austera.


L’uomo pazzo

Mente che vaghi oltre il vero dolore

di questa futile e umana esistenza,

ch’io non riesco a dire al mio cuore

ciò che il pensiero trasforma in essenza.

Vattene presto che non so continuare

a vivere quieto, a bere, a mangiare.

 

Sembra che questa sia pura follia

ma se io ci penso, non posso esser pazzo.

Pazzo è colui che non sa cosa sia

l’insano momento di cui paga il prezzo.

Ride, poi piange, riflette e si perde

ma è la reazione di un essere inerme.

 

Eppure alle volte la mente divaga

e neanche un pianto riesce a salvarmi.

Ritorno a casa e il mio spirito prega.

A dire il vero non so interrogarmi.

Non so nemmeno se un Dio ci sia?

Ma in fondo ci spero per l’anima mia.

 

Un gesto estremo non lo compirei.

Sarò anche un pazzo ma non egoista.

Chissà quanti amati che deluderei!

Proprio per loro la mente sta desta.

Per quei pensieri e i loro ricordi,

meglio ascoltarla che sembrare sordi.

 

Adesso ho capito! Un matto non sono.

Credo di essere un folle sognante

che pensa troppo e sa di esser sano,

non sente il cuore e ascolta la mente

ma vuol che di quella apparente bugia

rimanga un pizzico di mera follia.