Il Dio corsa.

La corsa mangia rapace il tempo, lo rapisce, lo nutre, lo sporca di criniera e denti aguzzi, irreparabili mezzi di distruzione, e una volta piegato al volere del collare, prostrato, divenuto insignificante come deludente é il vedere un leone inchinarsi al passaggio di un uomo, esso scompare. Il tempo in quanto tale, bolla sognante di passati e presenti, futuri interconnessi, forse stabiliti, forse infiniti, forse riscritti ad ogni nuovo respiro, forse intangibilmente esistenti, inaudita canzone di cinguetti e ticchettii, di conteggi matematici per acciuffarne un fervore, di cognitive organizzazioni per dargli una forma, eccolo sparire.
Sparisce come schiuma Marina, si disperde come il blu del fuoco divampante, si logora come l’eco in una catena montuosa, si scioglie come zucchero in una cioccolata calda: Prima elegiaco, immenso, tiranno, Dio, ora solubile umana sorte di sol pensieri.
Essa, la corsa, tumore del tempo, sa farlo respirare a fatica. É l’unica in grado di farlo sentir vecchio.
E corriamo, convincendo il tempo che esista una fine, rendendogli genetica la stessa nostra sofferenza: l’arrivo, l’arrivo inesistente.
Così l’ora è già passato e il futuro sembra essere il presente, tanto potente che senza poterlo vedere ci rende putrefatta la mente. Dove mai vorremmo andare?
Alla fine come il tempo, al tempo, ci pieghiamo, come in un gioco di re e sudditi ove intercambiabile è la sofferenza ed è essa a discernere il primo ruolo dal secondo e viceversa. Neanche il primo Dio, Crono, più sa spaventarci con i suoi ruggiti, ora miagolii sotto il cospetto della corsa.


Il tuo abbraccio.

Il tuo abbraccio che mi pervade e il silenzio del mondo che curioso cerca di sentire il contatto della tua pelle sui miei vestiti, ma non si sente, non si sente nulla. E’ come il poggiarsi di una libellula su di una foglia, come il tocco confuso di una coccinella sulla cresta del lago ghiacciato del Nord: non si sente, non sembra. Perché nel silenzio assoluto di quel secondo, mentre tutto fa rumore ma niente fa musica, a parte le tue dita sulla mia maglietta, nulla riesce a definire un vero spartito, ha raccontare di alcune vere note. E lì, mentre in quei pieni secondi, in quei lunghi momenti, mi abbracci, sento uno strano tremar cutaneo. I tuoi capelli si sciolgono sulla mia spalla, si lasciano cadere, e le tue gambe si attorcigliano sulle mie.
O ingrato! Ingrato Dio, ingrata la Natura, ingrato il Destino, che limita la mia gioia, che blocca le mie passioni, che non riesce a farle pienamente piangere dai pori di questi miei arti così pieni di energia, che raziona i miei baci, rallenta i miei abbracci, intimidisce le mie carezze che, in quel momento, in quell’alba, acciufferebbero l’incantevole volo della tua chimera leggiadra, che spicca sull’orizzonte verso le terre della bellezza, della perfezione, verso la tua terra natia. E il tuo abbraccio, continua a pervadermi, continua ad esserci e tutto continua a spegnersi.
Finisce il film, finisce l’abbraccio, finisce il luogo che dona solo un assaggio di quella perfezione senza tempo in cui il tuo sguardo non è manipolato, è così intenso, e non mi vede, mentre di soppiatto scorgo i tuoi lineamenti, annuso tutti i tuoi odori e riempio d’immagini la mia mente vuota della tua essenza, vuota, perché piena, e nulla è più pieno del vuoto.
Resterei ancora e ancora in quella morsa, in quella stretta, tra quelle braccia e ancora ti stringerei e ancora vorrei sentirti strapparmi via le mani per il bisogno di me e ancora vorrei assaporare la tua lingua sulla mia mentre la Vita prosegue e noi nasciamo, come accade di rado, nell’Eden che ci era stato negato.


Or Bella, si alternano stati bipolari.

Di tante forme,
or bella,
la tua indole m’assale
e in essa lieve,
ferma dose di massai in regal festa,
la tua opera mi dona virtù e leggerezza,
qui nel limbo della casata mia
ove il cuore veste gesta di racconti e doveri,
sorrisi finti seppur così veri,
per mancanza di una solitudine piena
che in nessun altro a volte mi è concessa.

Il tuo unico sguardo regale echeggia,
nella siesta notturna di un intero incubo annerito,
dal pasto più velenoso che la corsa sa donare:
La stanchezza.
E mentre tengo con forza la guancia mia,
sporco del dolore di un dente nuovo in uscita,
mi nascondo,
come quel famoso gobbo,
nella più alta delle torri,
perché tu non possa vedermi,
perché tu non possa amarmi.

Son composto da petali
la qual linfa
oggi non scorre
e non parlo di quel che l’occhio vede,
ubriaco d’amore sa distrarsi,
parlo del sussurrar tra cuori che non parlino la stessa lingua
perché uno in richiesta
e l’altro in vuota donazione.

Abbracciami per come sono
e spogliami di tutte le vesti che gli altri adorano vedermi in dosso
perché son eccelso angelo di piombo ora,
senza volo alcuno,
eppur mi sciolgo,
nel fuoco erutto,
libero me e il lascito,
al tuo passeggiar acre,
sgambettando come una Venere,
scappando in stanze vuote,
lasciando socchiuso al mio muscolo venoso.

Aprir d’amore la fessura: il desiderio.
Bacio la fortuna, distruggo la sventura.

Amami ora in nudità,
dimenticando i miei timori.
Strappami i peli in eccesso di tutta quella bugia che molti mi raccontano.
Accoltellami il dente di questo supplizio, fallo smettere.
Ti prego.

Si alternano stati bipolari
anche se ti amo sempre.
Mi schiaffeggia prima le pelle ma poi riesce ad arrivare ai polmoni.