“Il paiolo bucato”

Riverberi di vite mi scivolano addosso, le vite ipotetiche, la marcia trionfale dei se e dei ma, il controcanto dei forse e dei però, una voragine si apre dentro il pentolone dei ricordi, ci guardo dentro e vedo il foro da cui cola tutta l’esistenza di un uomo qualunque

Avere un paiolo bucato non è un buon viatico a una gustosa polenta, rimango li a veder colare l’impasto delle ore vissute le esperienze, i personaggi e le persone, giacche’ son cose ben diverse, che hanno accompagnato il mio passo incerto, chi ferendomi e chi curandomi ma entrambi utili alla causa, utili ad amalgamare questa pietanza che ora se ne fugge da quel foro.

L’istinto direbbe di chiudere il buco prima che sia troppo tardi ma se poi la toppa fosse peggior soluzione che tenersi il foro?

Allora guardo la mia vita colar via lentamente, forse una volta che avrò visto il paiolo vuoto e quel buco, lì a far bella mostra di se, solo allora forse con i pochi ingredienti rimasti mi rimetterò a cucinare un’altra esistenza per me e per chi vorrà esserci, butterò via quel paiolo bucato o forse lo terrò, si lo appenderò al muro, così, a ricordo di ciò che è stato a memoria di un altro me, colato pure lui da quel foro, con il suo anonimo passato.


 

“La luna, i tuoni e il fante senza cuore”

Sospeso da terra per semplice attitudine a librarsi in direzione della luna

o di una nuvola colorata dal riflesso del sole una sera d’estate, animo sensibile ai propri bisogni, animo generoso di lacrime da vendere e da comprare ed alcune rare volte da regalare, istinto naturale a rotolare verso la complicazione come la polvere rotola in compagnia del vento raccattando suoi simili in una danza senza musica solo puro istinto a seguire una direzione che può cambiare in un istante, come appunto cambia il vento.

 

Piccole perle lungo il cammino che non riesce a distinguere, troppo preso da se, troppo impegnato a urlare allo specchio il suo disappunto, troppo sicuro che non valga la pena nemmeno di contraddire se stesso, figuriamoci le comparse di una commedia di scarso successo.

 

Scende la scala che porta nella cantina dei ricordi e cerca fra le vecchie casse qualche cosa, qualsiasi cosa, che gli possa far ricordare com’è arrivato fino a qui, ma la memoria si è dispersa in mille ruscelli, ognuno ormai destinato ad essiccarsi.

Guarda fuori mentre la pioggia bagna il vetro in una sera un po’ fredda…e la chiamano estate, guarda fuori cercando di non prestare attenzione al riflesso di se, fuori è buio, l’oscurità nasconde i piccoli difetti che ognuno porta in dote ad ognuno e benedice di esser capace di vedere ciò che vede, di poter sentire il disagio che prova mentre incrocia il suo cammino con persone più fortunate all’apparenza e prova un sentimento che non ha nome per chi riesce a sfiorare la sua intima essenza, il suo intimo sentire, quel sentimento non ha nome e non può averlo, perché già dargliene uno vorrebbe dire costruire gabbie di carta destinate a sparire al primo incendio.

Lui vive d’incendi.

 

Si addormenta litigando con il mattino che arriva sempre troppo presto e si addormenta accarezzando dolcemente la notte che lo lascerà sempre troppo presto, lasciandosi librare nell’aria a cercare quella luna impaurita dal rombo del tuono, quella luna che nessun uomo è mai riuscito a conquistare.


 

“La vendemmia dei ricordi”

Ci sono passi che non lasciano orme, come se fossero talmente lievi da non toccare terra, profumi che penetrano a fondo nel nucleo centrale del nostro cervello da diventare già ricordo prima ancora che sensazione olfattiva.

Le dita sfiorano le labbra, more e lamponi e fragole di bosco, sensazioni di tempi passati, corse nei prati o giù per la strada che porta al capanno, la polvere ricopre ancora la vecchia motocicletta e tutti gli attrezzi del nonno, il trattore arrugginito la legna accatastata, la stufa e il suo calore che ti invade il viso lo scoppiettare dei ceppi e li sotto quel gatto disturbato che ti ha graffiato.

Gli occhi si fanno grandi e passano in rassegna le stagioni e cambiano i colori e la neve si scioglie nel tepore di una primavera sfocata e la malinconia che ti prendeva quando veniva sera, i volti scolpiti nel legno segnati dal tempo un odore di tabacco, gli alberi di frutta e ancora il sole violento, il sudore delle partite a pallone su prati scoscesi e l’odore del latte munto che non conosci più e ancora il verde delle foglie infiammarsi di giallo e la vendemmia, le ceste ricolme d’uva, il vino, con un pò d’acqua che sei un bambino.

No, nulla si perde è tutto qui, nella mia mente, negli occhi di un vecchio che muore, di una madre con il volto scolpito con l’accetta, come il mio e in quelli di una figlia con i tratti di famiglia, more e lamponi e fragole di bosco.