Una mattina

La mattina era fredda come spesso accade a fine di settembre. Avvolta nel maglione di lana m’incamminai verso la spiaggia. Erano anni che ogni mattina prima di iniziare la giornata venivo fin qui. Sentire il concerto marino mi rilassava e mi dava carica. Non smetterò mai di ringraziarti per questo magnifico regalo. Ricordi, era autunno come adesso, il giorno del nostro anniversario, quando mi facesti questa sorpresa. Ero appena rincasata, dopo una lunga giornata di lavoro, e tu mi chiedesti di seguirti. Salii sulla macchina a malavoglia, quel giorno avrei cenato volentieri in casa davanti al camino ancora spento, come facevamo spesso la sera. Non volevi lasciar trasparire nulla sulla meta di quel viaggio, inutile le mie insistenze. Continuavi ad insistere che doveva rimanere una sorpresa fino alla fine. Oh, si, la testardaggine era il tuo “punto forte” tanto da catalogarlo come merito. Fu veramente una sorpresa dall’inizio alla fine. All’entrata nel paese fui colta dallo stupore. Quel paesino sembrava fatto apposta per noi. Tutte casettine ordinate lungo il gran viale e in fondo il mare. Fu come passeggiare nel paese delle meraviglie. Ma la sorpresa non finì qui. Ricordo che mi facesti chiudere gli occhi, mi prendesti la mano e mi accompagnasti vicino agli scogli. E’ stato lì che abbiamo consumato la nostra cena, ascoltando come adesso il concerto marino. Dopo abbiamo fatto l’amore sotto le stelle, cullati nella braccia del vento. “Vieni, ti faccio vedere una cosa” mi sussurrasti.
“Credevo di aver già visto il paradiso!” dissi. “Meriti di più” fu la tua risposta. E mi portasti alla casettina magica. Già, perché quella casetta diventò magica molto presto. In quella casetta ci siamo trasferiti la settimana successiva. Furono gli anni più belli.
Abbandonai le scarpe, per godere della freschezza marina. La sabbia era morbida, accogliente. A piedi nudi mi sentivo come un albero radicato nella sabbia, insicura della mia posizione, sostenuta dal desiderio di continuità ma a rischio dei venti turbolenti. A modo di tempesta consumavamo il nostro amore. La passione era tanto intensa da portarci all’esaurimento. Dovevamo approfittare di ogni attimo che ci rimaneva alla fine della giornata.
Ricordi come ci aiutò il nostro amore quando io rimasi incinta. Quel desiderio di avere un figlio, di diventare genitori. La tristezza, quando ho dovuto rinunciare, perché capi che non potevo portare a termine quella gravidanza. Avevamo saputo sostenerci a vicenda. Io avevo te che mi davi coraggio e continuavi ad esortami a riprovare. Restava una vita intera davanti, quindi potevamo ancora fare di tutto. Solo per amarci non dovevamo aspettare. Ritornavamo sulla spiaggia a fare l’amore, testimone le stelle.
A volte non basta l’amore a vincere il dolore. Insieme alla notizia della tua malattia di dolore ne arrivò parecchio. Tu che per la tua testardaggine rifiutavi qualsiasi cura. Io che fino ad ora avevo creduto nell’eternità capivo che mi ero ingannata da sola. Stava finendo tutto. Mi stavi abbandonando ed io mi sentivo confusa.
Ora non provo più rammarico. Ho smesso di sentirmi tradita. Ho fatto pace con me stessa ma soprattutto sono riuscita a perdonare un Dio che ti ha portato via molto presto, lasciandomi sola. Ho capito che non c’è nessun amore che vince la morte. Sto invecchiando vicino al mare, guardando gli scogli che sembrano più piccoli d’allora. Neanche loro non hanno vinto la battaglia contro il vento. Ma non mi sento sconfitta, l’importante è non sentirsi mai sconfitti perché è meraviglioso vivere in questo paradiso terrestre.


Sara

Sentivo un forte desiderio di guardare le mie foto. Mi ero alzata la mattina pensando a questo. Ho preso il grosso album in cuoio ereditato da mia madre, e ho iniziato a guardare. Avevo lì davanti a me la mia vita da bambina, di me sola, accompagnata dalla mamma nel primo giorno di scuola, con gli amici. Le ho guardate tutte, dedicando ad ognuna tanto del mio tempo. Avevo in mente mia madre. Forse l’avevo sognata, oppure era soltanto l’effetto dei dolci pensieri che nutro per lei. Ho riguardato anche le foto del mio matrimonio, col pancione che appena s’intravedeva dall’abito bianco. Ho sposato una brava persona, s’è dimostrato un buon compagno e un ottimo padre per mia figlia. Ora mia figlia Sara è una bellissima bimba di tre anni. Sono soddisfatta di tutto ciò.
Ho anche un buon lavoro in fabbrica, peccato che con i turni debba lavorare anche di notte. Questa sera c’è tanta nebbia. Fa freddo, sarei voluta rimanere vicino a mia figlia, invece indosso il giaccone, i guanti, la cuffia ed esco in fretta per non fare tardi. Prendo la mia Punto che parte appena, promettendomi che la settimana prossima la porterò dal meccanico. Imbocco la statale e accelero, si vede poco, ma tanto la strada, la conosco benissimo. Una forte, accecante luce. Poi buio, un rumore terribile e silenzio. Ricordi. Sono stata investita da un camion. C’era troppa confusione per guardarmi bene intorno, stavano arrivando tante macchine, la polizia, i pompieri. Ho deciso che era meglio tornare dalla mia figlia. Sara stava dormendo, vicino a lei, nel poltrone accanto, dormiva una signora anziana, penso una vicina di casa. Non c’era mio marito, per correre da lui e raccontargli l’accaduto. Sono rimasta a guardare mia figlia che dormiva. Più tardi ho sentito mio marito entrare in casa. Aveva il viso sconvolto e gli occhi in lacrime. Camminò fino al tavolino dove avevo dimenticato aperto il mio album. Chinò la testa sopra e prese a piangere disperatamente. Andai ad assicurarlo che sono vicino, a chiamarlo, tutto inutilmente, perché la mia voce non si sentiva e le mie braccia non potevano accarezzarlo. Ero come chiusa in una cupola di vetro, da cui non potevo uscire. Andò a svegliare Sara e a mandare a casa la signora anziana. La prese sulle ginocchia, e iniziò a raccontarle una storia molto triste, dicendole che sua madre non tornerà mai a casa, che è andata lontano. Ero tanto vicino, ma quanto mi sentivo lontano nella mia cupola di vetro. Continuavo ad urlare a tutti e due quanto gli volevo bene, ma loro non mi sentivano, non riuscivo a fargli asciugare le lacrime, raccontare che era tutto un errore, che io ero lì vicino a loro. C’è mia figlia che mi guardo negli occhi e dice “ciao mammina, ti voglio tanto bene”. “Ti voglio tanto bene anche io, tesoro mio” ma lei non mi guardava gia più. Loro non mi vedevano, non mi sentivano, piangevano la mia scomparsa, ed io avvolta nel dolore iniziavo un eterno inferno, chiusa nella mia cupola di vetro.


Transizione

E’ lugubre intorno e si gela,
Vorrei sedermi su una pietra, ma è fredda;
Ritratti incastrati nella roccia,
Mi guardano crudeli, con ferocia.
Cerco di ripararmi, di scapare,
Ma più in là, ahimè, non posso andare.
<<Sei nuovo?>> me lo chiese il primo.
<<Credo di si, e che io sappia sono vivo!>>
<<Vieni con noi>> disse un’altra voce
<<Ti insegneremmo tutto ciò che noce>>
<<No, nella bolgia non entrare,
Sei ancora in tempo, te ne puoi andare>>
E così, le voci, tutte quante
Mi urlavano addosso… irritante.
Non erano solo le voci, ma ombre degli spettri
Che, riflettevano intorno a me come dei vetri.
A questo punto quel che io voglia è scapare,
E queste tombe alle spalle vorrei lasciare.
Guardo le porte, sono alte e serrate,
Da guardie oscure molto controllate.
<<Potrei uscire?>> azzardo a chiedere gentilmente
<<No, non si può, sei qui per sempre>>
Quindi capii infine il mistero,
Sono morto, e sono finito al cimitero!