sprezzatura

a Cristina Campo

con lievi mani
e con lieve cuore…
quella nostra ricerca quieta
del sommo bene
di quel replicare tra gli umani
il moto assoluto e compiuto
della cosmogonia degli astri
in equilibrio sottile e pervicace
di quello sforzo d’armonia
per un destino di pace
anche nei toni dissonanti
del nostro pigolio
d’anime singolari
rotte ad ogni scandalo

in: Sandro Gros Pietro ( a cura di), “Trent’anni della Genesi. Antologia di poesia”, Genesi editrice, Torino 2010, p. 101


dei salti

tu
che mi osservi
dall’alto
o micia mia
ha senso
e quale
il totale
rivisto
da lassù
dai piani
di mobili
di mensole
e scaffali
dai ripiani
di pensili
e armadi
e librerie
che tu invadi
e conquisti
con salti
imprevedibili
e imprevisti?
cosa vedi
di noi
del nostro mondo
laggiù
sul fondo
dalla tua postazione?
la tua postura
è misura
d’ ogni futura
acrobatica
mossa
e i tuoi balzi
agili e snelli
sono “tua maestà”
fatta persona
perdona
di me
la piccolezza
umana
o gatta

in: “Gatta Donata e i suoi fratelli”, Genesi editore, Torino 2010, p. 43


la Gelotti

la nostra è una tragedia di sole
(David Maria Turoldo)

Si allontana.
Un sagoma blu notte. Velata la testa. Informi strati di stracci gli uni sugli altri. Pepli di una dea greca – se non fosse che è lei. E lei non è una dea. E’ la Gelotti. Mio fratello ed io – ancora bambini in età d’asilo – ne eravamo fascinati. Oggi avremmo il nome esatto per descriverla: una barbona. Ma forse era meglio allora quando non era risolta tutta lì. Si portava intorno un’aura di mistero. E non era spiegabile. Non era definita con una parola. Un concetto che è vuoto di vita. La Gelotti – invece – l’esistenza l’aveva avuta piena. Di dolore. Un dolore più grande di quello che si può sopportare. Anche solo capire. Accettare. Non era stata come la santa vergine ai piedi della croce e dopo al sepolcro. Lei non aveva retto la morte del figlio. Un bambino bianco che è scivolato dentro la bialera senza far rumore ed è venuto su gonfio d’acqua. Senza un lamento. Senza un rumore. E lei era lì. In quella mattina di novembre attutita di vapori. Un piccolo sole grigio e freddo. Freddo come l’acqua. Avrà avuto freddo nell’acqua il suo bambino bianco? Lei sì. Era lì intirizzita quel lunedì mattina. Sentiva le fitte nelle mani. Sulle lastre di pietra del lavatoio vicino ai mulini. Ha i geloni. Gnocche gonfie e bluastre striate di viola. Eppure è il suo mestiere. Non sa fare altro: la lavandaia. E non può smettere. Deve continuare. Si è fermata solo un momento e si passa la mano sulla fronte per tirare su un ricciolo fastidioso. Si allontanata dalle vasche per raccogliere un raggio di sole e scaldarsi i piedi. Vogliosa di carezze tiepide.
Poi non ricorda altro.
Poi è in ogni luogo.
Poi è la Gelotti.
Una sagoma informe.
E si allontana sempre.
Con gi occhi della mente la rivedo di spalle. Che si allontana. Da che cosa – lo sapevamo anche noi più piccoli. Cammina e cammina. Avanti e avanti striscia le falde dei suoi stracci sul marciapiede. Sulla polvere in piazza del mercato. Sulla ghiaia che ricopre il viale della Lea verso la stazione. Sul sentiero che porta al castello.Va e va. In ogni luogo. Senza fermarsi. Senza soste. Senza requie. Requiem aeternam dona eis domine. Non ai morti. Ma ai vivi. A quelli che restano.
Passava la Gelotti. Con un baracchino in mano. Dondolante. Di latta bianca. Lo smalto – con l’uso – si era graffiato. L’alluminio era ammaccato e corroso. Lì raccoglie la minestra di riso e fagioli con la fetta di pane che le danno per carità le monache dell’ospizio. Una barbona. Che non voleva fermarsi da loro che l’avrebbero ripulita – cialana come s’era ridotta. Ma lei non resta. Ormai è senza un’anima. Le suore non possono accogliere chi è senza l’anima. Chi è dannato. Già sulla terra. E lei era dannata da quel mattino di novembre. Da quando si diceva che non avesse più sentito le voci delle altre lavandaie. Che la chiamavano. Che urlavano. Che coprivano con un telo di lino – ancora da insaponare- un bambino bianco disteso sul prato. Dicevano che lei si fosse avventata contro di loro urlando: A l‘an nin fréit. A l’a nin da manca perché corrono e saltano sempre di qua e di là come capretti i bambini di quell’età. Si accalorano. Sudano. Non sta mai fermo. Quante volte ha dovuto sculacciarlo perché si desse una calmata e non disturbasse il loro lavoro lì al lavatoio.
Voragine.
Lei non ricorda.
E’ in ogni luogo.
La Gelotti passa.Come un vento.
Chi non sa – la evita. Un’appestata. Una lebbrosa. Urta. Dà fastidio al decoro. Puzza. Quelli che sanno – scantonano ugualmente. Perché la follia non vogliamo vederla. E’ uno specchio in cui temiamo di riconoscerci. Di caderci dentro per qualche fatale contagio.
Invece mio fratello ed io restiamo fermi. A guardarla passare. Mentre lentamente taglia su per il vicolo ripido – che odora di noci mescolate a piscio di gatto – tra la salumeria di mio nonno e il giornalaio affianco. Quello che vende anche le maschere di carnevale e oggi ne espone una da lupo accanto a quella di seta rosa con i lustrini e il cappello da fata. Passo dopo passo. Dal fondo la osserviamo. Immobili. Ha il suo pentolino cigolante nella mano destra. E Va. Sembra scivolare senza piedi. Senza toccare terra E’ un corpo etereo. Senza peso.
Noi la guardiamo. Di spalle. Ci avviciniamo ogni volta un po’ di più. Ammaliati.
Fintanto che – un giorno- le avevamo detto: ciao Gelotti. Chi aveva preso l’iniziativa? Io oppure Giuseppe? Ho dimenticato. Ma da allora non abbiamo più smesso. Compulsivamente. Come un rito sacrale. Facevamo a gara nell’andarle vicino solo per salutarla. E per vedere – finalmente – il suo viso uscire da sotto la montagna di velature. Da sotto quel fagotto di panni lunghi fino ai piedi.
Ora so che lì dentro. In mezzo a quelle pieghe di stracci. E ancora più in fondo. Cercavamo di capire.
Di capire cos’ è il dolore.

bialera = canale
cialana = malandata, trascurata
l‘an nin fréit. A l’a nin da manca = non ha freddo . Non ne ha bisogno

in: “Paese dell’anima. Racconti brevi”, edizioni Giancarlo Zedde, Torino 2009, p. 18