Viaggio in Ladda

I cani tibetani sono liberi.

Durante la stagione estiva vivono nei paesi,
accompagnano gli uomini alle porte dei ristoranti e
aspettano, rovistano nei rifiuti lungo le strade e
mangiano anche i cartoni delle scatole insieme alle
vacche, mangiano i topi; si accoccolano stretti in loro
stessi sulle scale, sotto le macchine, sui tetti, dietro
agli alberi.

Di notte litigano tra loro, girano in branchi piccoli,
vanno a caccia.

Durante la stagione invernale si spostano sulle
montagne.

Raramente l’uomo si prende cura di loro, convivono,
niente di più.

Chi sopravvive alla stagione fredda rientra in paese in
primavera.

Alcuni sono marroni, altri gialli e grigi di polvere, le
orecchie in giù, morbide, i musi gentili, il pelo medio
lungo oppure lanugginoso come i cani da pastore, chi ha
lo sguardo paziente e sopporta il vento che consuma  i
sassi, chi guarda solo all’altezza del naso senza
incrociare altro che un orizzonte preciso, hanno un
portamento sicuro che incute una certa riverenza a chi si
accosta.

Come fanno questi cani ad ascoltare il silenzio delle
montagne d’inverno?

Avrei forse voluto dissolvermi in un’aria rarefatta che
tentava di comprimere le parti vuote del corpo, ma non
c’è niente da fare, l’idea di agire in un qualsiasi modo
implode e sono rimasta quasi persa, attraversando forme
arse e scavate, gigantesche, io non sapevo se amarle
queste montagne, chiedendomi come si fossero create e per
chi aspettavo il mio corpo alla soglia di questa
confessione, come fanno i cani  ascoltando il silenzio.

Ma cosa fanno gli uomini?

Gli uomini costruiscono strade.

La strada che congiunge Manali a Lhe, nel Ladak, è fatta
da uomini e donne che spostano i sassi con le mani e li
spaccano con i martelli o uno sull’altro, uno dopo
l’altro, spaccano sassi in mezzo ai sassi, migliaia di
sassi,  sulle montagne Himalayane, poi i camion che
passano correndo e rombando coprono di polvere e fumo
queste persone, accampate con le tende sui bordi delle
strade. La strada incredibilmente esiste e va avanti, si
apre solo tre mesi all’anno, il resto del tempo la
montagna se la riprende e la distrugge un po’.

Gli uomini che lavorano sulle strde di queste montagne
sono liberi?

Quando le ho viste così, di porpora fredda, imbrunire
nell’ocra e sbriciolarsi sotto la spinta del vento fino
ai fasci verdi e brillanti di striscioline erbose
sull’altopiano, e i radi ciuffi gialli che nascono,
quelli  si sà per chi, nascono per gli yak, che sono
neri.

Alcuni uomini abitano in quei luoghi, spostano le
mandrie di yak e vivono in tende, sono le etnie più
antiche, nessuna religione ben strutturata forse li tocca
veramente, un qualsiasi Buddah cosa avrebbe potuto mai
raccontare a questi umani partoriti dalle montagne
stesse, quale teoria del dolore e quale strategia per non
rivivere nei triboli, quale benedetta parola pronunciata
da voce umana nel cuore di questa esistenza fatta di
materia tanto pesante quanto inarrivabile, impalpabile?

Avrei forse voluto accarezzare quella terra come si
accarezza una mano umana e ancora aspettare risposta, ma
non ci sono ricordi troppo familiari dove riconoscere
quelle immagini, quelle immagini non sono immagini di
uomini, e io ero qualcuno che con tutta la somma dei suoi
tempi rimaneva a fondo valle a sospirare.

Avrei forse voluto fare un sogno, di notte, per
viaggiare ancora dentro a quelle montagne.

I miei sogni sono ancora fatti di uomini e sono confusi,
si attardano nel quotidiano e non risolvono enigmi.

Qest’aria scontanta di bassa quota che ci rende facile
la vita, quell’altra che asseta e affama avvicina
all’alucinazione e mostra solo la dura facciata di un
fascino inesauribile, forse indifferente.


Sposarti, separarsi e risposarsi

Liberata, uccisa, evaporata
bianca Sposa ondeggiante
al bordo dell’imbarcazione,
impavida perchè ignara.

Rossa donna, capovolta, rediviva, incandescente,
la veste leggera si alza, ridi e mordi rose di fine velluto
in ritardo appena per scandire il tempo.
Prova ora, con lo sguardo, a dare senso e sequenza.

Puella nero carbone
a lavare e lavare via
tinta che non si stempera,
affonda la lama che taglia.

Rinasci a due code
lucertola rovente
al solo calore di maggio,
ritorna innamorata, sensibilmente, di ogni cosa lieve.


La Confessione e il suo confessionale

Come lo vede il mondo Mario, è diagonale con la nebbia e
i pini, come lo sente è senza sgarbo e se è un abisso è
luce.

Mario si scava una fossa nella terra e si mette dentro,
non teme la madre che piange.

Mio fratello che era serio appena nato e portava quella
piegolina delle labbra che spezzava la guancia paffutella
e per il resto rideva dentro, stretto stretto.

“Quanto somiglia allo zio!”, dice mia madre ricordando
suo fratello che a ventun anni si è chiuso nel garage e ha
acceso la fiat uno.

Per anni mi indussero a credere che fosse morto in un
incidente stradale, poi quando qualcuno si contraddisse
parlando di un incidente su di una pista da sci cominciai
a capire.
Mio fratello che ha fatto del distacco un vizio, sembra
un pianista assorto, ieratico assolo, virtuosismo un po’
insistito.

In coda al casello sul’autostrada To-Mi si parla, si
chiacchera…

“Devo dirti una cosa che mi pesa”, Mario.

“Dimmi tutto..”,io.

Mi dice, dunque, che è stato con una prostituta, per la
prima volta, una ragazza di colore, non si sono baciati.

Fisso il cruscotto della macchina, sento che sorrido,
sento che dico delle cose, fisso i volti di quelli dentro
le macchine che sfilano lenti, ma chi sono questi?

Le ragazze.

Gli amici che non ci sono.

La psicologa delle elementari e la mamma.

Costruire rapporti è così complesso, così rischiso
forse, meglio consumare qualcosa, di piacevole magari,
con qualcuno che non si rivedrà mai più.
Ma cosa ho detto a mio fratello? Nulla, ho accolto la
sua confessione come una deposizione, poi una risposta
semplice poichè scopare è anche una cosa semplice.

Qualcosa dentro mi lascia strana. Preoccupata?

 

Solitudine.