Passi perduti

 

E se i miei passi

stanchi nella notte 

più non ascolterai

perché la Terra

che mi fu madre

mi ha ripresa in seno

non piangere…

perché il dolore non si addice

al tuo sorriso buono

al tuo sguardo che segna la via

che si perde nel rosso di un tramonto

brillante come fiaccola nel buio…

 

E quando ormai i miei passi

perduti nella notte del mio tempo

risuoneranno brevi al lieve tocco

non piangere…

Quella carezza che ci intrecciò le mani

non sia per te zampillo di dolore

ma respiro lieve

come quello che unì le nostre voci

e dipinse d’infinito la mia vita.


Disegna con dita di carta

 

 

 

Disegna con dita di carta

La sua storia infinita

Il mio albero, in un cielo assoluto.

Vorrei stringere la sua mano lontana

serena e indifferente al mio groviglio di strade

che si dipanano tortuose 

verso l’orizzonte 

rossastro di nubi appese al cielo.

Chi mi darà una mano

Per sciogliere appena la mia solitudine

 nata in tempi lontani e mai svanita

come la nebbia di velo leggero

Che ricopre il mio borgo?

Forse il tuo sorriso

anche lui lontano

ma che riscalda ancora

non come pallida stella 

ma come fuoco vivo,

inestinguibile, immortale.


 

 

Motto: Cangiante è il profumo della notte.

 

Il treno.

 

Ho sempre odiato la stazione dei treni. Tutto ha il sapore di fuliggine, di sudore e di povertà, anche se la cornice è la stazione di Roma o di Milano. La gente correva, quel giorno, indaffarata e compressa, come se il fardello della vita fosse sul punto di schiacciarla. Due ragazzi tatuati mi fissavano, forse colpiti dal mio senso di totale smarrimento, avvolto in un impeccabile cappotto blu dai risvolti di pelliccia. Sudavo e il mio cuore accelerava, a volte, i suoi battiti, come a volermi ammonire:” Vai via da qui”. Un vecchio barbone sdraiato sotto una pensillina di plastica era accartocciato in un cartone sporco e intriso di umidità. Si, volevo scappare da quel posto, ma il mio appuntamento era proprio lì, in quella sperduta stazione di treni che aveva per me il sapore dell’inferno. Guardai l’orologio…ero in notevole anticipo. Mi sedetti quasi rannicchiata nell’ angolo di un vecchio sedile di legno malamente riverniciato, stringendo convulsamente la borsa che tenevo sulle gambe. Fu allora che lo vidi…Era un distinto signore sulla cinquantina, anche se, a dire il vero, la sua età era abbastanza indefinibile. I suoi capelli erano bianchi e composti, il suo sguardo chiaro e aperto. Vestiva in modo sobrio ed elegante, ma privo di ogni affettazione. La sua presenza mi rincuorò. Certo lo fissai a lungo, perché alzò gli occhi e sorrise. Teneva aperto tra le mani un giornale leggermente stropicciato che attirò la mia attenzione. Una forza quasi incontrollabile mi fece alzare e mi guidò verso di lui. Mi sedetti al suo fianco. Mi pentii quasi subito di quel gesto inconsulto, che poteva facilmente essere frainteso. Ma il suo viso era aperto, dallo sguardo chiaro. Rimasi.

“Aspetta qualcuno?” chiese affabile…farfugliai un “si” stentato e quasi incomprensibile. “Questa stazione è …angosciante” Ecco, aveva dato voce ai miei pensieri più oscuri, alle mie paure più profonde e inconfessabili, ai miei terrori più nascosti.

“Se vuole, prendiamo un caffè insieme, mi sembra proprio che ne abbia bisogno”. Nel dire quelle parole piegò il giornale e vidi che portava la data del 15 Novembre 2015.Impossibile.Impossibile.

Perché era il 15 Novembre del 2012.Certo si accorse del mio disagio e mi prese la mano ” Quello che vediamo non sempre è come sembra”, disse e mi guidò verso il piccolo bar della stazione.

Sedemmo. Non parlavamo molto, sorseggiavamo il caffè, assolutamente complici. Mi sentivo protetta.

La vidi arrivare da lontano, con la sua andatura incerta, come di chi deve ancora trovare il suo posto nel mondo, anzi, nell’universo di infiniti mondi. Guidava per mano una bimbetta di non più di due anni, che le trotterellava accanto, con lo sguardo vispo e splendidi capelli rossi, inanellati. Somigliava alla madre, somigliava a me. Si fermò al nostro tavolo, si sedette, tirando su con grazia la bambina, che mi fissava sicura di sè e quasi impertinente.

“Ciao Clara”, dissi alla giovane donna. Mia figlia. Vivevo come in due mondi paralleli, si, era mia figlia, ma con una bambina tutta sua, non più un’adolescente triturata dagli eventi e, nonostante la sua andatura incerta, le traspariva dallo sguardo una indicibile forza che mai le avrei riconosciuto.

Scontata per l’Anziano Signore la presenza di mia figlia e della bambina. Chiusi gli occhi e la scena mi si presentò alla mente in tutta la sua angosciante violenza…Gridavamo e sembravamo odiarci, in quel momento, io e mia figlia…o forse ci odiavamo veramente” Ma sei pazza, pazza, vuoi tenere il bambino? E la scuola? E gli studi? E la tua vita bruciata per nulla?”

“Non è NULLA, mamma…è un bambino, il mio bambino”. Ma che bambino e bambino, è…un problema che ti bloccherà la vita!”. Mentre parlavo mi cresceva dentro l’orrore delle mie stesse parole, ma non potevo farci nulla. Se avesse tenuto il bambino mia figlia avrebbe finito di vivere.

La scena scomparve come dentro un‘esplosione caleidoscopica di luci, mentre emerse dal buio l’immagine sfocata della camera di mia figlia…un trolley bordeaux era aperto sul letto, mentre Clara, con ordine quasi maniacale, riponeva della biancheria in valigia, mentre girava distrattamente gli occhi all’interno della stanza, soffermando il suo sguardo su una foto che la ritraeva, sorridente e spensierata, insieme a Corrado, il suo squinternato ragazzo, pieno di brufoli e di irrisolti problemi.

Ricordo di aver urlato tanto, quel giorno, mentre le pareti sembravano richiudersi sopra di me, con il loro improbabile colore viola…Mia figlia incinta, mia figlia con quell’inutile ragazzo che sembrava quasi chiedere scusa di esistere…Gli artigli acuminati della rabbia e del rimorso per quello che avevo suggerito di fare mi sconvolsero a tal punto che allungai la mano verso mia figlia che sembrava quasi sorridermi. Ritrassi la mano. Alzando gli occhi intercettai lo sguardo attento e assorto dello Strano Signore, che accennò un sorriso imperscrutabile. Richiusi gli occhi e l’immagine della stanza di chiara si ricompose ai miei occhi…Clara stava chiudendo la sua valigia e piangeva.

“Va bene, mamma”, farò come tu dici”. Il suo sguardo rassegnato, indifeso e ferito mi sradicò totalmente…ma resistetti.” Dormi adesso, dissi”, domani sarà una lunga giornata per noi.

Il suono di uno strano campanellino con cui sembrava giocherellare quello Strano Signore mi riportò a quella surreale realtà…Mia figlia accarezzava con gli occhi il viso di quella bellissima bambina che chiedeva sottovoce” Mamma, chi è questa signora?”

“La nonna” rispose semplicemente Clara. La bambina sorrise incerta, mentre farfugliava a bassa voce che quella signora aveva un viso triste e arrabbiato. Era così evidente anche per una bimba di pochi anni?

Mi appoggiai allo schienale della sedia, mentre i miei pensieri andavano lontano…Ricordi terribili e dolorosi riaffiorarono prepotentemente e mi artigliavano l’anima…Avevo cresciuto mia figlia praticamente da sola, poiché Giulio, mio marito, era sempre fuori per affari, diceva lui. Altre donne, sicuramente, nella sua vita, soprattutto dopo i suoi terribili cinquant’anni, che si era rifiutato di festeggiare per il terrore del tempo che impietosamente trascorreva. Fu così che cominciarono i suoi mezzi sorrisi, i suoi mezzi tradimenti, le sue mezze verità. Lo tradì il telefonino e i messaggi a fior di labbra sussurrati nella camera accanto per non farmi sentire. Patetico. La fragilità di Clara mi spinse ad un accordo tacito…restare un’inutile e vuota coppia che rimane insieme per non sconvolgere la vita di una figlia adolescente già complicata. Scelta civile e dolorosa. Non so se lo rifarei, ma in quel momento mia figlia aveva bisogno di entrambi.

Il rumore di una sedia smossa mi riportò alla presenza di quegli strani ospiti, mentre un ragazzo dall’andatura dinoccolata , dopo aver accarezzato la bambina, si sedette di fronte a me. Sembrava il suo squinternato ragazzo, ma aveva un’espressione più matura e responsabile e chiacchierava amabilmente con lo Strano Signore, parlando di laurea, master e altro che al momento mi sfuggiva, perché Clara lo abbracciava stretto e lo guardava con aria complice. Erano una coppia. Vera.

Un cameriere si avvicinò come a prendere altre ordinazioni o a portare il conto e, inavvertitamente, inciampò nella borsa che io avevo poggiato maldestramente a terra. Il tavolinetto traballò e un bicchiere cadde rovinosamente a terra, facendo più fracasso del dovuto.

Mi svegliai di botto, madida di sudore. Ero sdraiata nel mio letto, mi ero appisolata. Avevo certamente sognato. Guardai l’orologio, erano le tre di notte. Mi alzai piano e mi diressi in cucina, dove mia figlia, perfettamente vestita e con il trolley al guinzaglio, stava prendendo una bottiglietta.

“Vado via, mamma”, disse, e mi parve ad un tratto adulta e decisa. L’abbracciai stretta, mentre

 lei, rigida, lasciava fare.

“Togli il giubbotto, disfa la valigia…Non serve più. Mi meravigliavo io stessa delle mie inaspettate parole, pronunciate tra il riso e il pianto, tra la cascata riccia e rossa dei capelli di mia figlia. La presi per mano e la condusse nel mio lettone, come fosse porto sicuro. Forse ci eravamo salvate entrambe.

L’abbracciai stretta, carezzandole i capelli. Quando mi sembrò addormentata, allungai la mano per spegnere la luce. Sentii uno stano scampanellio mentre cadeva  dal comodino un delicato campanellino d’argento.