Primo Epilogo

Passano i secondi,
veloci come le traversine della ferrata
dal treno in corsa.
Dall’ultimo vagone vedi il mondo scorrere,
veloce.
Meravigliosi panorami,
sempre appena passati.
Ecco le consuete luci,
è quasi timido l’Inverno,
questa sera.
Ecco il dondolio del vagone,
rumori consueti,
quasi dolci.
Ecco la stazione chiassosa,
una somma di solitudini
quasi silenziosa.

(dalla silloge “dalle colline agli scogli di Levante” ed. Galassia Arte, 2013.


Sentiero

Solo il suono dei tuoi passi
in uno di quei sentieri
che vagano per le colline.
Lavorate con geometrica precisione,
fin dove arriva l’occhio
avido di immagini.
Lontano
qualche eco di motore,
ma il silenzio è padre di queste alture:
solo mormorii di vento
o di insetti,
mentre sei solo
e ami questa terra.

(dalla silloge “dalle colline agli scogli di Levante” ed. Galassia Arte, 2013.


Il maestro

Non ricordo da quanto tempo non piovesse, un mese almeno: la terra gialla era solcata dai trattori, sollevavano dense nuvole di polvere, le uniche nuvole perché il cielo era di un blu intenso e continuo e il sole, coricato in esso, era troppo forte per essere sopportato, come un potere assoluto.
La collina sopra la stazione aveva geometrie perfette, senza una casa o una costruzione, solo vigne e tre alberi che, dalla cima, sembravano irridere chi passava nel fondovalle.
Transitavo di lì quando il fischio un po’ stonato del treno mi catturò, mi fermai a guardarne il passaggio e mi sembrò che lo stesse facendo per me facendomi sorridere di quell’irrazionale pensiero.
Il Vasti invece non alzò nemmeno lo sguardo, zappava la sua vigna con l’attenzione di un orologiaio e, se anche fosse passato un esercito, non se ne sarebbe accorto, a meno che non gli avesse invaso i filari. La vigna era bella e perfetta, anche perché se il Vasti avesse dovuto scegliere fra se stesso e la sua vigna avrebbe, senza indugio, scelto la seconda, convinto che nel futuro ne avrebbe guadagnato.
Arrivai da Erminio accaldato, ero andato là per prendere un caffè e bevvi un bianco, pur sapendo che mi avrebbe tolto altra preziosa energia per continua la giornata: il vino al mattino si portava via voglia e forza, ma spesso bevevo comunque, passando il resto della giornata a maledire la mia stupidità.
Non sarebbe stata una giornata impegnativa, dovevo sistemare un trattore del Vasti che si rifiutava di fare il suo dovere e revisionarne un altro che sapevo non avere nulla, era quello nuovo e per non rovinarlo il Vasti non lo usava mai preferendo farsi imprecare dietro, quando percorreva le nostre strade sul vecchio Lamborghini con un rimorchio le cui ruote i Carabinieri facevano sempre finta di non vedere.
Mi piaceva incontrare i Carabinieri, un po’ perché trovavo un vanto non avere nulla da nascondere, un po’ perché avevo ancora bisogno di qualcosa in cui credere e loro erano l’ultimo pezzo di Stato al quale mi sembrava possibile aggrapparsi, non volendo credere che il mondo finisse con il trattore del Vasti o il fischio stonato del treno.
Compiuto il mio lavoro, tornai alla locanda di Erminio, dove dormivo.
Era ormai tardi, sarei voluto andare ad Asti a cercare compagnia, ma non avevo treno per il ritorno e quindi mi rifugiai nella osteria di Fontanile, dalla quale tornai a piedi in tempo per vedere passare il primo treno, con il suo fischio stonato. Non avevo nulla da fare e potevo permettermi di tornare ubriaco noncurante del male ai piedi che le lunghe e inutili camminate mi comportavano.
Tornando all’alba dormii solo qualche ora, anche perché vicino al mio alloggio c’era un legnaiolo che passava la vita a segare e fare pile ordinate di ceppi e di legna da ardere, in quei giorni vendeva poco, per cui segava molto, a scarso beneficio del mio riposo.
Mi domandavo, ogni tanto, perché fossi finito in un borgo aggrappato a una stazione fallita e mi rispondevo che forse assomigliavo a quella stazione, passavano pochi treni, qualcuno non fermava, tutti avevano un breve percorso, come me, e in quel breve percorso non avevo ancora capito che tratti stessi o dovessi percorrere: concluso il Magistero andai via di casa, lasciai la città e decisi di stabilirmi in campagna, non ho mai amato i posti affollati e quel borgo mi piacque abbastanza da fermarmi, poi sapevo fare il meccanico e lì non ce ne era.
Nonostante il cerchio alla testa sembrasse più stretto di un anello al dito, la mia mente vagò in storie possibili e pensai alla casa abbandonata del fabbro. Povero diavolo, un uomo solo e burbero, ma terribilmente bravo nel modellare e giocare, anzi danzare, con il ferro. Avevo scoperto che si chiamava Sergio, come me, un accidente secco se l’era portato via, e avendolo trovato da solo, l’accidente lasciò una casa al Comune che da anni sembrava un monito della sventura. Sembrava dire ai passanti che c’è sempre un modo per finire, sembrava dire che non si è mai pensato a tutto, in particolare quando si è passata la vita a pensare.
La casa dava sulla strada che dal quadrivio portava alla stazione e poi usciva dal paese, verso la Gianola.
Andai a vederla nella tarda mattinata, nonostante il mal di testa, e mi accorsi che c’era poco da fare: c’era ancora la bella insegna in ferro battuto, ma il resto erano quattro muri e una scala in cemento, c’era più da lavorare per renderla una casa che anni per andare in pensione. Tornai indietro e superai il bivio, verso Gamalero e Maranzana.
La strada era bianca, pregai non passasse nessuno perché la polvere fina e asciutta sarebbe volata come una tempesta di sabbia. Proseguivo sotto un sole che sembrava volesse cuocere la terra, sentii il fischio stridulo del treno e il passaggio a livello aprirsi, ma il suono si faceva lontano ed ormai dominavano le cicale, sembrava cantassero e volessero soverchiare il calore con la voce: me le immaginavo sgolarsi all’ombra dei papaveri, cercando anche loro un riparo nel letto del Cervino, dove un rigagnolo testimoniava ancora la sua presenza.
Cominciavano di nuovo le vigne e al bivio, in direzione Maranzana, cominciava anche la salita, di ombra non se ne parlava, di asfalto sulla strada neppure.
Il cielo era di un blu intenso e quel mare verde geometricamente disegnato sulle colline mi dava un senso di appagamento che soverchiò il malessere della sbronza della sera prima. Ad una delle curve mi fermai per voltarmi indietro e riprendere fiato.
Il Monviso scolpito sull’orizzonte e la lunga serie di geometrie dei filari e dei colli erano uno spettacolo sufficiente a farmi sopportare il caldo di quel sole che mi martellava la testa con la regolarità di un orologio. La pianura sembrava lontana, ma la sua calda sonnolenza era, in verità, ben più vicina dell’austero Monviso.
Una chiesa faceva capolino sulla collina, piccola e molto antica: il paese le era cresciuto intorno e lei sembrava non curarsene, appoggiata a quella piccola rocca, a guardare tutti dall’alto. La strada che cominciai a percorrere all’ingresso del paese non vi ci conduceva, era una salita sfiancante che culminava in un bivio. All’inizio, sulla destra, una grossa villa, forse una residenza nobile, da dietro il cancello chiuso si sentiva un vociare di bambini che giocavano, ed erano le uniche voci. Nel corso della salita parlava solo il picchiare del sole e le persiane verdi chiuse sulle case di mattoni, ogni tanto una porta con un numero civico. Prima che arrivassi in cima alla strada mi accorsi che una delle porte si era aperta, qualcuno stava studiando chi fosse quel tipo che camminava solitario quando la gente normale si rifugiava in casa o in cantina a trovare il fresco, e spesso il conforto.
Al bivio decisi di salire, una strada faceva un gomito e andava su, l’altra in falso piano proseguiva dritta. Non avendo mai scelto la via più semplice in nessuna delle occasioni della mia vita, anche allora presi a salire.
Un odore pungente di verdure al sole mi prese subito il naso, infatti, il gomito della strada era su un cortile e un ortolano là aveva le sue casse. Una tenda verde, che impediva la vista del negozio, calava sulle casse di coste che cedevano il loro vigore al sole.
Le pesche erano ormai vecchie, ma mi attrassero e ne comprai un paio: il vecchio ortolano pronunciò solo quanto gli dovevo, non mi salutò quando mi fermai, né quando ripresi a camminare dopo averlo pagato. Non era maleducato o cattivo, ma timido e abituato a bestemmiare da solo nei campi, poco avvezzo alla compagnia: me ne accorsi quando ricambiò il mio sorriso, abbassando lo sguardo, prima che riprendessi la via.
Un cammino non certo lungo, una freccia indicava il Comune, all’interno di un cortile di terra battuta c’era un carro, l’insegna della Repubblica e la porta di qualcuno. Non entrai e raggiunsi la piazza della chiesa, superai dei bambini vocianti, alcuni con accento forestiero, venivano dalla Liguria, si vedeva da come erano vestiti. I loro erano abiti di città, non ricchi, ma ben diversi dalle maglie e dalle brache contadine usate da due o tre generazioni di fratelli, oltre che dalla cadenza. Giocavano con i figli dei contadini e canzonavano un bue che tirava un carretto con sopra erba da bestie, tagliata e ammucchiata. Il carretto era condotto da una donna che sembrava non avere età, non era vecchia, ma non era una ragazza. Un viso largo e un sorriso gioviale e rugoso, consumato dal sole e dalla fatica, ma inebriato di vita. Era chiaro che quella donna conosceva solo quella vita, e solo quella vita amava. Diede uno strillo acuto all’aria, non per velocizzare il bue, ma per scostare i ragazzini. Passò salutandomi con voce aperta ed io sorrisi contraccambiando il saluto.
La Chiesa era nuova, non era bella, dava su una piazza dove una strada girava su un ponte intorno a una vecchia torre, fu allora che mi accorsi del Castello, misterioso e schivo, come la gente di quelle parti.
Andai a cercare l’ingresso, ma non trovandolo mi fermai nel bar che c’era all’angolo della piazza, di fronte alla torre, all’ingresso della via dove il bue aveva lasciato segno del suo passaggio, meticolosamente raccolto dalla donna gioviale, non per il decoro della strada, ma per il bene dell’orto.
Nel bar c’erano due uomini, uno dallo sguardo triste mi sbirciò appena, finendo in un sorso il suo bicchiere e andando via, l’altro con i riccioli neri, due occhi buoni e scuri che mi invogliarono a parlare, ma appena ordinai, mi salutò con un cenno. Il barista andò a sintonizzare una vecchia radio mentre io, rimasto solo, davo un’occhiata alle pareti, senza un quadro, con qualche tela di ragno, bianche. Pochi tavoli in formica sparsi nella sala troppo grossa, su uno di questi un mazzo di carte sparso, segno di una partita recente, dei bicchieri con un fondo di vino rosso e qualche tazza di caffè.
Il silenzio era interrotto solo dal rumore di un orologio che, insistente, aveva sostituito le cicale.
Mi decisi ad aspettare che il barista dicesse qualcosa ma non lo fece, mi arresi in fretta, pagai e me ne andai. Al ritorno la strada era quasi tutta in discesa per cui decisi di attraversare il paese e proseguii. Dalla piazza passai sotto il ponte e dopo un altro gomito ero su quella in piano che avevo scartato prima, passai lungo la strada fino a che non si allargò in una discesa imponente che finiva in un trivio; prima che iniziasse la discesa c’era una casa bella e di fronte una grossa casa di tre piani, con un cortile pieno di carri e tanti bambini. Nella bella casa invece sentii parlare e riconobbi prima il bue, poi la voce della donna alla quale rispose una voce calma, ma quasi baritonale.
L’uomo mi guardò con simpatia e io, per la prima volta, non mi sentii un forestiero.
Parlammo prima sul cancello aperto, discorsi banali di gente che ancora non si conosce, poi capimmo che la pensavamo uguale anche su altre cose e il discorso si fece lungo abbastanza da meritare due sedie, un tavolo e due bicchieri.
La donna sempre sorridente spari’ in cucina, mentre il tramonto cominciava a regalarci frescura e splendidi colori.
Il mio ospite si chiamava Lorenzo, era un uomo grosso e dalla voce tonante, mi raccontò delle sue vigne e si lamentò della vita dei campi, senza però, conoscerne un’altra.
Mi invitarono a cena e parlammo a lungo, discutemmo con la confidenza di un’amicizia di anni, la donna poco interessata alla nostra conversazione diede una carezza a un gatto che da una sedia fece capolino e ci salutò stanca.
Dopo poco lasciai la loro casa , ma era già notte e, per fortuna, la strada per la stazione era tutta in discesa.
La notte è spesso foriera di cattivi pensieri, ma quella sera la vivevo con simpatia, una luna a metà illuminava il mio incerto cammino; sollevavo piccole nuvole di polvere quando, involontariamente, trascinavo un piede, cominciava a ripetersi quando ero in pianura, un po’ perché vedevo poco, un po’ perché ero stanco, un po’ perché il vino non è fatto per dare sicurezza alla marcia.
Mi fermai a contemplare quella mezza luna piantata là, nel cielo; la sua luce oscurava tante delle stelle che incuriosivano le notti insonni di scienziati e poeti, per questo mi fermai e cominciai a osservarla, concentrato: volevo carpirne i profili, immaginarmi le valli, era bello rendersi conto che si osservava un altro mondo; quanto era lontano però, era bello osservarla, ma anche brutto rendersi conto che la Luna è un meraviglioso esempio di quello che non vedremo mai davvero, un esempio di chimera, un esempio della superiorità delle cose che non faremo rispetto a quelle che faremo, in fondo era un esempio triste per cui chinai il capo, affrontai quel pezzo di strada che mi mancava e raggiunsi la mia stanza; il sonno mi rapì e non ricordo nemmeno se mi spogliai o, com’ero, mi buttai sul letto.
L’indomani qualche nube faceva capolino, forse avrebbe piovuto, l’aria era bassa e il caldo era appiccicoso, i genovesi che avevo conosciuto a Maranzana la chiamavano macaja. Genova, già Genova, qualche volta che vedevo il treno mi veniva voglia di andarci, poi non lo facevo perchè avevo un impegno e quando non l’avevo lo inventavo come se quel piccolo mondo descritto dai cartelli del quadrivio fosse il mio confine naturale.
Ragionavo proprio sui miei confini quando mi si parò davanti Gianni a bordo di una bicicletta, si fermò quasi all’improvviso e mi guardò senza dire una parola: era il suo modo di salutare e chiedere se c’erano novità, lui non ne aveva mai.
Gli dissi che ero stato a Maranzana e avevo conosciuto Lorenzo, lui annuì, mi fece un cenno e si infilò al bar.
Il barista non lo salutò e gli preparò un caffè, Gianni non ringraziò, lo bevve e si sedette a un tavolo fissando le persone che entravano nel bar fino a che queste non se ne accorgevano e lui cominciava a guardava altrove; aveva un modo strano di stare al mondo, certo volte quando lo osservavo mi convincevo che fosse un genio latente che nel contesto in cui era non poteva far altro che involvere quasi nell’autismo, delle altre, ed erano più frequenti, pensavo fosse un goffo di paese che aveva fatto della stranezza la sua personalità.
Molti dicevano che se Gianni c’era o non c’era in paese non se ne accorgeva nessuno, secondo me si sbagliavano, nessuno lo considerava, ma era normale che ci fosse, il suo modo di destare attenzione, paradossalmente, era quello di non esserci.
Fu uno dei giorni che stavo per andare alla stazione che arrivò la lettera. Il Ministero si ricordò di me e della mia domanda e mi assegnò una classe seconda a Mombaruzzo; avrei smesso i panni di meccanico che avevo improvvisati per fare il maestro: sarebbe stata la mia prima classe per un anno intero! Ero emozionato e felice e cominciai a non vedere l’ora che finisse quell’estate perché il primo ottobre del 1960 avrei insegnato in IIA.
Era l’ultimo giorno di agosto e per festeggiare andai a cercare Lorenzo, a Maranzana. Feci la strada senza sentire la fatica, Lorenzo era nella sua vigna alle Giare, quella scoscesa all’inizio della strada delle Rocche. Era un posto che mi piaceva, mi rattristava non vendemmiare quell’anno, ma sarebbe stato un settembre importante quello e cominciai a passare più tempo nella mia stanza, alla stazione, per preparare le lezioni a quei ragazzi.
Fu durante una pausa di un caldo pomeriggio di settembre che incontrai il Vasti al bar della stazione, mi guardò in cagnesco e mi apostrofò in dialetto, non capivo bene, penso che canzonasse il mio inserimento nella scuola locale come se avessi appeso il cappello al chiodo sposandomi una ricca. Per un momento volli reagire, poi mi resi conto che non aveva senso, l’assenza di argomenti dell’interlocutore avrebbero reso mute le mie rivendicazioni. Sorrisi, finii il bicchiere e tornai sui miei libri, in stanza.
Camminare con meta incerta era uno dei miei modi di rilassarmi, di parlarmi: difficilmente mi annoiavo perché la mia mente assecondava i tortuosi pensieri e quasi non mi accorgevo delle persone che incontravo. Quella volta presi la strada che dalla casa del fabbro saliva al paese alto.
Attraversai vigne che conoscevo e arrivai alle prime mura. Sulla piazza rombava la corriera per Alessandria, la porta davanti aperta presentava la corta scaletta e lasciava intravedere gli stretti sedili in finta pelle e le reti dei portabagagli sopra le teste dei passeggeri. L’autista comparve all’improvviso, uscendo dalla fabbrica di amaretti con un sacchetto, incurante del dazio, sproloquiò qualcosa, si tirò dietro la porta e con quella che pensavo una prima partì, sparendo presto dietro alle case della discesa per la città.
Quando arrivai nella vera piazza, dopo una strada stretta e in curva, dopo la SOMS, mi fiondai nel bar chiedendo una birra. Si fece il silenzio, ero un viso nuovo per cui oggetto di studio meticoloso, lo sguardo più interessante fu quello del macellaio: indossava un grembiule bianco, misteriosamente pulito dato il mestiere, aveva occhi neri, profondi e malinconici, aspirò con forza la sigaretta, mi salutò e uscì.
Bevvi la birra con calma e la mia indifferenza giovò alla ripresa del brusio, poco dopo tutto riprese come se non fossi mai arrivato, la cosa mi fece sorridere, ma solo all’inizio, perché riflettendoci comprendevo che era, probabilmente, la base del mio problema.
Uscii e presi a scendere verso la stazione, fu di nuovo il Monviso a ricordarmi quanto potesse essere bello un tramonto.