Sogno di una sera d’inizio estate

Fuochi fatui che si rincorrono tra le silvane fronde
La danza di ninfe scarmigliate e dai tintinnanti pendenti
Risuona cristallina pregna di umori spumeggianti
Nel mezzo di un baccanale le cui cadenze richiamano
un onirico rituale
Ecco Ariel,
fa capolino tra i grumi boschivi!
La selva oscura s’apre, si dipana un lussureggiante tappeto
Di primule selvagge e orchidee lascive
Ammicca egli sornione,
rimira con sguardo estatico la bionda chioma
Lei, ignara, legge divorata dall’affanno
Un dispaccio tecnologico
Un poco gratificante “bip”
Dal suono… quasi sinistro
Ha sognato,
accarezzato con gli occhi dell’anima
l’icona di una gentile capanna
una nicchia di amabile frescura e primitive delizie
Dove l’avvicendarsi della stagione avversa
Non reca nocumento, ma solo un gemito di fremente attesa
Ha aperto il libro del suo cuore stropicciato
Ne ha sfogliato una ad una le pagine lacerate
Distrutte – oh, ma non del tutto – da un tumultuoso incendio
O da un cataclisma da Santa Inquisizione
Fino a comporre un improbabile Indice
Dei giochi proibiti…
Sorride astuto il folletto,
forse impudico la sbeffeggia,
scarta subitaneo di lato
e lo stropiccìo delle foglie vibranti
la risvegliano d’un sol colpo
all’alba livida di disillusione
Ripone il quaderno con la verde copertina
E il lapis intinto di un violaceo succo
Rinserra la chiave:
non scricchiola, era ancora appesa
al lacciuolo delle sue intollerabili chimere.


La Gabbia

Una tela di ragno
Che s’avvolge diafana, scabra, geometrica
Nella sua schematica inesorabilità
Che tesse le trame fitte e imperscrutabili
di un necessario accadere
Io lo chiamo destino, o Fato se vuoi
Tu la chiami “gabbia”
E con tale semplice parola
distruggi, con un colpo di pietra,
Quel che ancora resta intatto dell’edificio del mio cuore
Il veleno che stilla goccia a goccia
Dalle tue labbra pure e delicate
È entrato nelle arterie della mia sensibilità
fino a contaminarne il flusso vitale,
ma non ad anestetizzare il dolore
“Ci siamo ingabbiati – mi dicesti –
Maledico il giorno che ti ho conosciuta”
Avrei voluto risponderti “Anch’io”
E non ho osato
Quel legame che per te rappresenta ceppi e catene
Per me ha un solo nome: si chiama Amore
Non l’ho cercato, non l’ho voluto, l’ho solo accettato
In quella piccola cella dove potrebbe stare rinchiuso graziosamente un cardellino
Lezioso intento ad intonare un trillo e tutt’intorno a zampettare
Sta tutta la differenza
tra l’Amare e il Non amare.


Sole

Benevolo affabile gradevole
Suona il tono della tua voce amata
Con quell’incedere morbido a tratti quasi infantile
Che risveglia in me la tenerezza
Ed evoca l’immagine di verdi distese, corolle ondeggianti
Un brandello di muschio
Eccolo, è languido come i tuoi occhi scuri di cerbiatto
Indifeso disarmato sguarnito
…pronto a trasformarsi in predatore.
Ma non voglio pensarci oggi
Non voglio ricordare
Stimolare quel ricettore doloroso
Souvenir di troppe offese, tradimenti, umiliazioni
Alzo gli occhi, grata, vedo il sole:
m’illumina e riscalda,
mi stringe fra due raggi il cuore
E non è che una grigia giornata d’inverno.