Il dado è tratto

Una coppia. Un uomo, una donna.
Sono una coppia clandestina. Amanti da anni. Vivono in una grande città, nella stessa città. Le loro vite hanno raggiunto quella ripetitività che uccide il meglio che gli esseri umani sono in grado di dare. Gli slanci, la voglia di allegria, la condivisione di momenti ludici.
Lentamente la luce iniziale che li aveva illuminati si è affievolita lasciando spazio solo ai problemi. I problemi del quotidiano hanno sottratto loro pezzi di vita che avrebbero potuto riscattare quella clandestinità. Hanno sottratto entrambi tempo ad una famiglia, hanno entrambi un lavoro, altre preoccupazioni, come tutti coloro che si cimentano nella difficile impresa di vivere.
I loro incontri si sono trasformati in una sorta di momento di rivalsa. I loro incontri sono impregnati dei reciproci sfoghi. Ciò che li ha uniti un tempo adesso sembra quasi dividerli.
La gioia di trascorrere del tempo insieme viene regolarmente inficiata dai problemi. I problemi a volte sono piccoli, a volte sono grandi, mai insormontabili. La loro relazione è stata costellata da milioni di momenti in cui i problemi occupavano più spazio del dovuto. Intimamente lo sanno entrambi. Intimamente lo ha accettato solo uno dei due.
L’amarezza che ha avuto il sopravvento su di loro, sulla natura del loro rapporto, turba profondamente l’uomo. La donna lo accusa di non capire abbastanza. Di non capirla abbastanza. L’uomo accusa la donna di non riuscire a liberare mai la mente, nemmeno per un minuto da questa colossale impalcatura di obblighi e doveri. I giorni passano veloci per questo surrogato di coppia che ormai coppia non è.
L’uomo è una persona mite. Anche il lavoro non è fonte di grandi soddisfazioni. È un colletto bianco, in una grande azienda. Un’azienda come tante, quelle piramidi enormi dalla gerarchia esasperata ed esasperante.
Quelle aziende in cui basta essere più in alto solo di un piccolissimo gradino per sentirsi già in dovere di rendere difficile la vita a quelli che occupano i gradini più bassi.
Meschine soddisfazioni, misere ambizioni, crudeli angherie, patetici esercizi di potere. Un’azienda in cui i quadri dirigenti si sentono dei padreterni e sono circondati da un’infinità di lacchè in attesa che gli Dei dei gradini più alti elargiscano una briciola della loro benevolenza. Un’azienda che trova tanti replicanti in aziende simili per dimensioni e struttura.
L’uomo non è nelle grazie di nessuno. E’ un tipo schivo. Svolge le sue mansioni “con la diligenza del buon padre di famiglia”, ma si rende conto che non basta più, è un concetto ormai arcaico, forse è un concetto che è stato rottamato e lui in un momento di distrazione non se n’è accorto.
L’uomo non è felice. Un tempo a tutto questo non faceva caso perchè aveva un angolo morbido tra le stanze della sua esistenza, in quell’angolo c’era lei, in quell’angolo ogni frustrazione spariva, ogni brutta giornata si trasformava.
La donna è una persona volitiva, anche lei lavora in un’azienda, in cui svolge mansioni di coordinamento. Forse la donna un tempo era ambiziosa, ma poi come tante donne è stata travolta dai mille impegni collaterali, la famiglia, i figli, ancora la famiglia.
La donna non è felice. Non sa nemmeno lei quale sia la ragione principale. Un tempo è stata più felice, forse quando si è innamorata dell’uomo, poi non ha avuto più tempo per grandi ragionamenti. Le donne, si sa, hanno sempre una vita complicata, così lei pensa accettando ciò che ne deriva da questa legge non scritta, come si trattasse di un assioma.
L’uomo e la donna spesso litigano, rovinando il poco tempo che riescono a ritagliare alle loro esistenze.
In una giornata piovosa d’autunno, in ufficio, l’uomo viene chiamato da un piccolo, superbo padreterno di passaggio. Un Cesare che tra un anno assumerà altri prestigiosi e ben remunerati incarichi, ricevendo con buone probabilità un nuovo Suv come premio per questo suo essere al confine tra divinità e imperatore.
L’inutile Cesare vomita parole mortificanti all’indirizzo dell’uomo. Non è contento di come viene svolto il lavoro, lo trasferiranno ad altro incarico. Lo scopo di quelle parole è farlo sentire colpevole, farlo sentire una nullità. L’uomo china leggermente il capo sulla destra, prova a guardare quell’essere sgradevole e berciante da un angolo differente. Lo trova grottesco, la maschera di quel volto sprezzente gli fa montare una rabbia trattenuta mille volte in analoghe circostanze. Stringe la mano, che trasforma in un pugno saldo, chiuso, e, come se una forza esterna guidasse il suo braccio, quel pugno si assesta sul volto del dirigente, lasciandolo stupito e sanguinante. Gli ha rotto il setto nasale. L’uomo si volta su sè stesso, passa dal suo ufficio a prendere la sua ventiquattrore e con passo deciso esce in strada all’aria aperta. Alle sue spalle sente delle urla indistinte, sarà il piccolo Cesare che si lamenta, ma una decisione è stata presa…”il dado è tratto”.
L’uomo e la donna si incontrano al solito tavolo di un bar fuori mano. Un posto che ricorda una casa per le bambole, frequentato nel tardo pomeriggio da signore che sorseggiano un tea.
La donna è nervosa, problemi familiari, l’uomo ascolta in silenzio, non le racconta nemmeno che probabilmente verrà denunciato per aggressione. Esprime, muovendo un muscolo del volto, il suo pensiero riguardo l’ultimo problema in ordine di elencazione. Un impercettibile segno di fastidio che la donna prontamente coglie. La donna si scaglia con violenza contro l’uomo. Gli urla che si sente un super uomo, che è un arrogante, che crede di sapere sempre tutto. L’uomo, in silenzio, con un cenno della mano si fa portare il conto, paga e poi lentamente dice “non puoi più trattarmi così”, almeno tu, pensa, dovevi essere qualcosa di diverso, non voglio mai più litigare con te. Si alza e se ne va. Torna a casa, cerca un suo amico notaio. Ha pensato di lasciare la città, ha pensato di andare via. Nei giorni seguenti sbriga le formalità per lasciare tutto ciò che possiede alla sua famiglia, si spoglia di ogni bene. Alle richieste di spiegazioni risponde soltanto con la medesima frase : Sono stanco.
Scrive una lettera di dimissioni che invia all’azienda. Scrive una lettera alla donna, tentando, come meglio riesce, a spiegare le ragioni della sua partenza. Non le scrive che non la ama più, sarebbe una menzogna, le scrive che non ha più senso vivere una vita fatta solo di rabbia da ingoiare, di insoddisfazioni, di tristezza.
La luce si è trasformata in buio, la leggerezza si è trasformata in peso, incontrarsi è solo un problema. Non è più la vita che aveva, questa che ne ha preso il posto è una vita che non vuole vivere.
L’unico bene che tiene per sè è una minuscola casa, lasciatagli in eredità da suo padre, ha un valore ridicolo, ma un immenso valore affettivo. Una casa di pescatori, i suoi nonni vivevano li, senza alcuna pretesa, in un’isola del sud Italia.
Andrà a vivere in quel piccolissimo paese che è poco più di un borgo. Si inventerà qualcosa giorno dopo giorno. Senza più umiliazioni. Senza più rimproveri.Senza dovere più fare dipendere la propria autostima da nessuno. A come fare ci penserà domani.
Il dado è tratto.