Senza cera

La polvere sulle cose è la testimonianza dell’inesorabile passaggio del tempo.La ruggine è la testimonianza dell’implacabile logorio a cui il tempo ci consegna. Siamo passeggeri paganti di un tempo che ci imbarca vivi. Tutti malamente destri a volerlo trattenere, capire, rallentare o allontanare. Poi il coraggio di pochi che scelgono di scendere prima dell’arrivo e di camminare, di non farsi trasportare, ma di viaggiare un percorso parallelo in cui del tempo resta solo la direzione del viaggio, ma non la qualità.

Solo lontano dal tempo si viaggia in prima classe. Mi succede di pensarti spesso. E di pensare al tuo tempo. E di pensare al mio tempo, quello che impiego a pensare al tuo. Conrad diceva: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”. È plausibile che il tempo trascorso a guardare lontano dalla percezione più prossima della mia visuale verso un punto che non c’è

– il punto in cui ti vedo – sia un tempo trascorso a lavorare? Non è forse un lavoro quello di spingersi verso la comprensione dell’essere indagando l’essere più bello? Ed è plausibile che nel mio oggi il bello sia tu? E perché poi? Cosa so io di te se non quello che percepisco? E sono forse infallibile nelle mie percezioni? Ciò a cui la mente non sa dare una spiegazione si chiama magia. Ma io non voglio adagiarmi su un termine comodo e onnicomprensivo dell’incomprensibile. Io elaboro e tento di teorizzare tutto, perché chi deve sapere sappia. Il punto è che sento che sei come me. Ma non io come te! E ancora non è detto ch’io lo sarò mai. Il tuo progresso sull’essere comune è raffinato, logico, lineare e argomentabile per mille vie, per mille temi, per mille materie. Il mio sta indossando ancora l’imbracatura. Il mio è confuso, pieno di roba rabberciata, che spesso non si trova perché nel caos si possono creare confitti,incoerenze, contraddizioni. Tu sei una crisoelefantina statua. Io sono ancora un blocco di marmo che tenta di uscire dall’immobilità. Ma il risultato finale non è ipotizzabile. Tu sei sicuramente sincera, io… ancora non possiamo saperlo. Sincera… Com’è curioso! Sincera è un termine bellissimo che mutua da un grande significato. Ti racconto una storia: un tempo, quando un abile scultore finiva la sua statua, se questa aveva i requisiti della perfezione, c’era una firma che era motivo d’orgoglio anche più del proprio nome associato a quella perfezione: “sine cera”, senza cera. Quando invece qualche scultore maldestro, sgraziatamente commetteva errori o imperfezioni, per correggerli lavorava della cera, modellandola per sostituire quella parte di statua che aveva compromesso. In quel caso nessuna prestigiosa dicitura.

Perché c’era la frode: la grossolana cera costretta a emulare il marmo per manifesta incapacità manuale

dell’artista. Da qui il termine “sincero”, ovvero privo di manomissioni o aggiustamenti o frodi. Da qui, tu!

Ed io lo so. E se anche io sarò un giorno “sine cera”, sarò felice fino all’inverosimile, soprattutto perché

somiglierò a te.


 

Sanità fai da te

Causa lancinanti contrazioni addominali, tali da rendermi molto più simile ad un leprotto in preda ai

vigori primaverili che ad un bipede erectus normalmente deambulante, lo scorso fine settimana salutai il

giorno che volgeva all’imbrunire vacalizzando, rantolante, nel prontissimo soccorsissimo di una città del

Nord, pioniera della sanità. Erano le 20.00. Mi adagiarono con una ragguardevole gentilezza su una

sedia a rotelle recante la scritta “sala parto” e mi collocarono nella stessa corsia di quelle persone che

aspettavano il prontissimo interventissimo dal giorno prima. Pensai: “Non siamo in tanti, mi visiteranno

subito”. E in effetti dopo poco più di cinque minuti, un gentile infermiere, affacciandosi timido dalla

porta dell’ambulatorio, chiese chi fosse tale “Insarda” in attesa di controlli. Non è colpa sua se ai tempi

della nanotecnologia, delle intelligenze artificiali, della robotica raffinata, degli ologrammi e degli

interventi chirurgici endoscopici, i computer non riconoscono l’accento del mio cognome. E poiché

nessuno si mosse, intuii che non ci fossero omonimi privi del segno grafico di cui sopra e che

quell'”Insarda” fossi io.

“Intende Insardà? Con l’accento?”

“Può darsi. Se non c’è nessun Insarda in attesa allora è Insardà”.

Sagace! Mi avviai trasportata dalla mia fida amica che non mi lasciò sola neanche per un attimo in quelle

ore di dolore, se non per una brevissima dormita ristoratrice, con tanto di palloncino nasale a

gonfiamento e sgonfiamento costante, che iniziò dall’arrivo al pronto soccorso a ben oltre le mie

dimissioni. Dormiva così beatamente che quando alle due del mattino lasciai l’ospedale, non mi sentii di

disturbarle il sonno e la lasciai lì a riposare. Tornai a prenderla per l’ora di colazione. Credo debbano

averla ritenuta in coma perché quando andai a prelevarla aveva una serie di cannule inserite nel braccio

e un tubo sospetto che le fuoriusciva dal cavo orale. Io non dissi nulla per non metterla in agitazione, ma

fu inevitabile chiederle, con molta circospezione, come si sentisse. Stava bene devo dire, solo mi

raccontò di uno strano sogno, pieno di gente vestita di bianco intorno a lei, forse angeli, che

movimentava macchine e che cercava disperatamente qualcosa che evidentemente non sapeva più

dov’era finita, perché ripeteva in continuazione “la stiamo perdendo, la stiamo perdendo”. Devono aver

trovato tutto però, perché l’atmosfera mattutina di quell’ambiente tristo e infelice era distesa e positiva.

Ovviamente per ragioni di praivasi non farò il nome di questa persona a me molto vicina che,

nonostante la giovine età, si privò del suo festante sabato sera per sostenere un’amica nel momento

della fatica e della difficoltà. Noemi! Ma torniamo all’infermiere. Mi disse: “Le faccio il prelievo così ci

portiamo avanti col lavoro”. Erano le 20.05. Pensai: “questa sì che è celerità. Affrontare in modo così

alacre il lavoro ospedaliero garantisce un intervento sul problema tale da ridurre al minimo le

percentuali di complicanze dovute, molto spesso, alla negligenza umana”. Noi ci portammo avanti col

lavoro, è vero. Ma è altrettanto vero che il lavoro si svolse più o meno intorno all’una. E in quelle cinque

ore niente di che: continuai a rantolare ripiegata su me stessa senza soluzione di continuità, il battito

acceleratissimo, la frequenza alle stelle, la sudorazione da ghinnes uorld record, la telefonata di Barbara

D’Urso che mi invitava a partecipare al programma, insomma: una serie di cose insopportabili con

l’aggravante, oltre alla D’Urso, di spasmi muscolari talmente forti che dagli evidenti e continui scatti che

facevo, dapprima fui scambiata per un fotografo e successivamente, quando lo scatto mutò in aggraziati

saltelli, per la talentuosa figlia di Carla Fracci. Allora tutti iniziarono a chiedermi di mia madre, e sebbene

mia madre fosse stata effettivamente una volta in quell’ospedale, ma tanti anni prima, non capivo come

tutti potessero ancora ricordarsi di lei. Qualcuno in camice ex blu (chiaro sintomo di candeggio

sbagliato) mi si avvicinò. Pensai: “Finalmente si prendono cura di me”. Invece mi scrutò con sguardo

indagatore e mi disse: “Ma perché salta così su quella sedia?”

“Perché su quel lettino c’è Noemi che dorme”.

“Quella ragazza bionda sul lettino? Sta dormendo? Allora sarà il caso che avvisi l’impresario di pompe

funebri che è venuto a prendere le misure”.

E se ne andò lasciandomi di nuovo in ascetica solitudine. Ma torniamo all’impavido infermiere,

indiscusso signore di siringhe e provette. Nel mentre mi privava, inflessibile, di un certo quantitativo di

sangue, prese a dirmi: “Può essere per caso incinta?”

“No”

“Sicura?”

“Sì”

“Allora ha il sospetto?”

“Ma no, non ce l’ho”

“Allora ha la certezza?”

“Sono certa di non essere incinta”

“Allora perché è su quella sedia?”

“Perché sul lettino c’è Noemi che dorme”

“No, dico perché sulla sedia della sala parto?”

“Perché all’accettazione c’era un rappresentante di sedie a rotelle, e poiché dal catalogo mi sembrava

particolarmente fescion, e in tinta col tuinset, ho scelto questa”.

Nel silenzo dell’ambulatorio si sentirono i pattini stridenti dei neuroni del prestante operatore socio-

sanitario che frenavano quasi sgommando per evitare impatti irreversibili con la calotta cranica. Riprese

risoluto: “Occhei, le faccio il prelievo”. E tacque. E di lì a poco si fece sostituire saltando a piè pari il

turno. E vabbè, ma se ti dico che non sono incinta lo saprò. Eh! Arrivata che fu la mezzanotte, il mio

corpo decise che non ce la faceva più a soffrire in tal disumana guisa, e invece di attendere oltre i

prontissimi soccorsissimi, improvvisamente rinsavì e si riebbe. Non avendo nulla da fare, nell’attesa

dell’oramai vano controllo, iniziai a dar una mano al personale addetto, preoccupandomi degli astanti.

Tastai il polso a Noemi, ma nel mentre la ripulivo del rivolo di saliva che le rigava il mento, venni

chiamata per la visita. Stando in perfetta forma entrai in ambulatorio sulle mie gambe. Il dottore mi fece

accomodare sul lettino e iniziò a farmi un’ecografia all’addome. “Mmh… per caso è incinta?” Ebbi un

sussulto ecstrasistolico. Non ero sicura di cosa mi avesse intercettato nel ventre per farmi quella

domanda. Lo guardai con aria di sfida e, sempre cercando di tenerlo sott’occhio, mi diedi uno sguardo in

giro temendo che la sedia della sala parto mi avesse seguita. “Non sono incinta, sono sicura, Noemi

dorme sul lettino, non ho sospetti e la sedia me l’ha data il rappresentante fescion col tuinset tono su

tono”. “Bene” – fece il medico ignorando totalmente il mio vaneggiamento – “Qui non c’è nulla. La

mando a fare le radiografie”. E se non c’è nulla, dico io, cos’è che hai visto a forma di bambino che mi hai

chiesto se sono incinta? Ma a volte si sa: inutile farsi domande inutilmente inutili. Silenzio e procedere.

Arrivata in zona radiologia, e sapendo di mio che le donne incinte non possono sottoporsi a certi esami,

iniziai da sola, oramai stanca e confusa, a rassicurare il tecnico: “Non sono incinta, non ho sospetti ma

ho un tuinset molto carino, la sedia della sala parto me l’ha regalata Noemi che dorme sul lettino

insieme al rappresentante del catalogo fescion”.

“Guardi signora, il reparto per trattamento sanitario obbligatorio è più avanti. Qui facciamo radiografie e

non posso neanche darle retta ché è in arrivo la signora Insarda che probabilmente è incinta. È forse

lei?”

“No, mi spiace. Insarda senza accento non sono io. Dev’essere quella bionda inerme sul lettino. Mi scusi

se non mi intrattengo per due chiacchiere ma mi stanno aspettando: ho due mesi di ferie pagate al

centro di igiene mentale e non voglio correre il rischio che scada la promozione. Ma se ci tiene davvero

così tanto, sappia che se dovessi scoprirmi incinta le farò sapere. Lei comunque, per scrupolo, si renda

reperibile accaventiquattro, resti in contatto con la D’Urso e lasci sempre attivo uozzap”. E guadagnai

l’uscita. E probabilmente anche l’indulgenza plenaria. E forse anche il Paradiso. E probabilmente anche

una citazione nel vademecum “Sanità fai da te”. E di sicuro una multa per aver involontariamente

parcheggiato, vittima di rantoli e coliche, davanti all’ingresso del prontissimo soccorsissimo e senza

neanche una minaccia d’aborto.

 


Il silenzio del mare

Treno. Lato finestrino. Alla mia sinistra un posto vuoto, alla mia destra il mare. Mare di un blu intenso

laggiù, a contatto col cielo, e bianco nei suoi riccioli ribelli, qui al mio fianco. Ne immagino un rumore

imponente e terribile. Ma il vetro mi isola da tutto questo, incastrandomi negli occhi degli sconosciuti

abitanti di questo mio viaggio: passeggeri che mi guardano curiosi ancorando la mia immagine alla loro

vista, per possederla qualche tempo ancora e non averla mai più. Tra me e l’acqua non più di cinquanta

metri. Un breve e indifeso deserto ci separa: sabbia che non accoglie le orme dei miei passi ma regala il

volo di qualche suo granello allo scorrere leggero dei pensieri che la sfiorano appena prima di inabissarsi

lontano, zavorrati dalla malinconia dei ricordi. Attutiti dal mio disinteresse, si affollano nella testa le

voci, i discorsi, gli affari, i rumori, gli altoparlanti, l’attrito dei binari che tentano di frenare le rotaie

trattenendole alla prossima stazione. Ma sarà questione di un attimo: ripartiranno di nuovo, con alle

spalle i binari trascorsi e davanti ancora binari, come un unico destino possibile, come la monotonia

dell’unico suono dettato dal tasto rimasto in vita di un vecchio organo che seppe suonare grandi inni nei

giorni di festa nelle chiese colme di fede e sudore. O forse no. Forse non è il treno ma il mare a correre

veloce. Forse il mio è un viaggio immobile e quella distesa azzurra altro non è che il rapido passaggio di

un luogo magico popolato da fantasia e mistero, che ammalia e affascina, che ipnotizza i sensi

manomettendo la nostra volontà. E quelle onde saranno certo gli scialli indossati delle incantatrici dei

mari prima del “chi è di scena”, prima della prima nota, prima di quel canto preludio del più travolgente

e mistico baccanale. Se neanche Ulisse riuscì a resistere alle loro liriche nessuno potrà mai. Il canto delle

sirene è la risposta al perché di fronte al mare il pensiero si perde e la mente si apre: stanno cantando

per noi. E noi, ignari, ascoltiamo rapiti l’incantevole canto che non c’è, ricambiando col nostro silenzioso

e inconsapevole trasporto. Il mio corpo verso la meta imposta dal viaggio. La mia mente, libera, verso te.