UN VIAGGIO PER LA VITA

«Victoria, vuoi fare una passeggiata in riva al mare?» «Certo mamma, è tutto il giorno che ti vedo strana, stai male?» «No, solo che oggi è un giorno speciale e voglio condividerlo solo con te. Sei grande abbastanza per…» «Sono grande abbastanza per cosa?» Esclamò la ragazza, immaginandosi un regalo finalmente da “grande.” «Dai camminiamo, lo senti il mare che respira? Ne cogli persino l’alito, sa di spezie»«Spezie? L’ho detto che sei strana oggi.»«I ricordi sono strani Victoria, il mare mi fa venire in mente le spezie, forse perchè a casa mia se ne usavano molte.» «Non mi hai mai detto di preciso di dove sei mamma, perchè?»«Non pensavo fosse importante e forse sbagliavo, ma oggi voglio parlarti di me, di cose che mi hanno fatto diventare quella che tu conosci.»«Perchè proprio oggi?» «Domani, ventun marzo, compio quarant’anni e tanto tempo fa mi sono fatta una promessa. Se fossi stata viva e avessi avuto dei figli, in quella data avrei raccontato loro la mia storia. La storia di un viaggio che si è concluso in questo paesino.» Madre e figlia sedute su quello che restava di una vecchia barca guardarono un grosso granchio fuggire veloce.«E dove è cominciato?»«In Italia.»«Quello lo immaginavo visto che me ne hai insegnato la lingua. Ma in Italia dove?»«In un paese vicino al mare. Pescatori a rimagliar reti, a osservare tutto senza guardare, a parlar poco e sorridere ancor meno. Ma il viaggio che voglio raccontarti ora comincia in un altro luogo.»Stefania chiuse gli occhi come se, ascoltare le onde morire sulla riva, la aiutasse a trovare le parole . «Comincia con me seduta alla stazione di un paesino, mi domandavo in che modo subdolo il male si era introdotto nella mia vita fino a ridurmi in quello stato. Quando era iniziato e come non mi fossi accorta dei segni premonitori e poi, perchè proprio a me? Ma in quel momento non avevo lucidità per rispondermi. Guardavo inebetita, nascondendo le lacrime, la sorridente estranea che mi teneva compagnia. Aspettando il treno, pensavo che non era quello il viaggio sognato da bambina guardando una vecchia cartina quasi cancellata dal tempo. Quel tragitto l’avevo imparato a memoria ascoltando i racconti di mio nonno sul suo viaggio, iniziato con l’entusiasmo dei vent’anni e finito tragicamente per tanti suoi compagni di avventura. Mi aveva promesso che avremmo rifatto quel tragitto quando sarei stata più grande. Se n’è andato troppo presto e in quel momento mi mancava terribilmente. Lo adoravo, mi ha cresciuto con l’amore di un padre che non ho mai conosciuto e di una madre persa tra i fumi dell’alcool, avrei voluto averlo ancora una volta vicino. Non avrei ripercorso i suoi passi, sebbene quel viaggio lo avessi immaginato nei minimi particolari ogni volta che la paura sovrastava il dolore. A farmi ritrovare la calma era seguire a mente il lungo percorso fin sulle rive del Dniestr,*. Non ho mai concluso quel fantasioso viaggio, perchè il tempo di rifugiarmi nei pensieri non c’era. Il male sarebbe tornato, forse peggiore della volta precedente. Tornava sempre, poche volte chiedendo scusa, talvolta come se nulla fosse successo, ma spesso, più furioso di prima. Ero io che non riuscivo ad andarmene, rimanevo perchè credevo fosse amore.»Victoria allungò la mano verso quella della madre, appoggiando il capo sulla sua spalla, sentendosi dentro qualcosa che assomigliava alla rabbia ma che non sapeva definire. Una alla volte le luci delle case si accendevano come tanti occhi vogliosi di spiare. Sulla spiaggia illuminata dal tramonto, solo un uomo che lanciava un bastone al suo cane. Ogni tanto le rivolgeva uno sguardo torvo che lei sosteneva con fermezza. La donna riprese il racconto con un fil di voce dal quale traspariva una profonda serenità . «Ho nascosto i lividi finchè ho potuto, ma una volta ebbi un’emorragia e quella non poteva sottovalutarla nemmeno lui. Al pronto soccorso ho scoperto che quella non era qualsiasi perdita di sangue, era il mio bambino che se ne andava per sempre. Eppure non lo denunciai nemmeno allora, me ne sarei tornata a casa con lui e la mia angoscia se non avessi conosciuto Luigia, un infermiera piccola ma caratterialmente un gigante. Non mi disse nulla, semplicemente mi portò in rianimazione dove, attaccata a tubi e macchinari c’era donna forse più giovane di me. Mi disse di guardarla, probabilmente non si sarebbe mai più ripresa e se io volevo essere la prossima, facessi pure, tornassi tranquillamente a proteggerlo. Ho guardato quella ragazza, occhi gonfi e verdastri e un enorme livido appena sotto la tempia. Sapevo che altri ce n’erano sotto le lenzuola e per la prima volta li ho visti, in tutta la loro crudeltà, in tutta la loro violenza. Sono rabbrividita, sul mio corpo non ne coglievo la gravità, sul mio corpo li prendevo come un segno d’amore.»Tacque un attimo, guardando la figlia, sorridendole per togliere un po’ di tristezza al racconto. «Sai una cosa? Dopo quella vista mi sono svegliata da un incubo che avevo scambiato per sogno. Per paura, non l’ho denunciato subito, ma ho capito che era giunto il momento di scappare il più lontano possibile.» «Ma mamma come potevi pensare che voler bene e dar botte sono la stessa cosa?» Stefania non rispose, non sapeva rispondere, era così e basta senza spiegazioni logiche o illogiche. «Ho chiesto aiuto a Luigia, si è mossa con la velocità di un lampo prima che io potessi cambiare idea. Già quella sera Maira, una delle volontarie che avrei conosciuto, mi ha ospitata. Iniziavo così il mio di viaggio, verso posti sconosciuti, tra gente mai vista ma della quale dovevo fidarmi se volevo venirne fuori sana e salva. Unico bagaglio… me stessa. Quella prima notte è stata veramente dura, l’angoscia di non essere in casa quando lui sarebbe tornato, il terrore di essere inseguita, la gioia di essere riuscita ad andarmene non mi hanno lasciato dormire. Ma il tempo per riavermi da tante emozioni non l’ho avuto, la mattina dopo Maira mi ha accompagnata alla stazione dicendomi che la mia destinazione era Livorno, dove mi avrebbe accolto Libera. A Livorno c’è il mare, ma io non sono riuscita nemmeno a vederlo, scesa dal treno sono salita in una macchina diretta al paese di Santa Luce. Libera guidava come fosse stata se fosse stata in una pista di formula uno, mi sono aggrappata al sedile cercando di ricordare una qualsiasi preghiera che mi facesse arrivare incolume alla meta.» Stefania a quel ricordo non potè far altro che ridere contagiando la figlia. «Ahahahaha mamma, pensare a te che ti aggrappi al sedile della macchina è stranissimo visto come guidi tu.» In lontananza una nave passò lentamente spezzando la piattezza dell’ orizzonte, la donna accennò istintivamente un saluto con la mano pur sapendo che nessuno lo avrebbe visto. Un respiro profondo, poi riprense il racconto accarezzando la testa della figlia. «Non ha chiesto nulla di me, diceva che meno ne sapeva meglio era per tutte e due. Finalmente arrivate ad una cascina mi ha “consegnata” ad Annina, per un po’ sarei rimasta da lei. C’era pace in quella campagna, calma rassicurante nei gesti di quella donna che mi ha accolto come fossi di famiglia. Ci sono rimasta un mese, coccolata, rinvigorita nel fisico, placata nello spirito non avendo quasi più la paura a seguirmi come un ombra. Poi una mattina è arrivata Marta. Dovevo cambiare aria, il mio compagno mi stava cercando. Così addio a Santa Luce e alla tranquillità, un altro treno mi aspettava, un altro luogo mi avrebbe accolta. La nuova meta era Udine, là potevo per qualche tempo appoggiarmi ad una casa protetta. Senza volerlo ero ancora in viaggio e questa volta di nuovo la paura era una compagnia indesiderata. Ignoravo se lui mi avrebbe rintracciato e se si, quanto ci avrebbe messo. Non saperlo era più distruttivo della certezza stessa. E’ stato un tragitto malinconico, le città e i paesi che mi sfioravano dal finestrino, avrebbero meritato giorni di visita per scoprirle e goderne, ma io non potevo fermarmi.»€«Ti voglio bene mamma, anche se non conosco quelle città e i paesi, credo siano belli perchè piacciono a te.»€œStefania pareva persa nel suo ricordare, ma sorrise alle infantili parole della figlia, prima di riprendere. «Udine l’ho incontrata di giorno. Alloggiavo in centro, là ho capito che il caos della città non era più per me, anzi se avessi potuto scegliere mi sarei fermata in un paesino perso nella natura. Ma tra quello che volevo io, e quello che potevo avere in quel momento, vi era di mezzo un abisso anzi, un uomo infuriato.» Ormai la donna parlava quasi solo a sè stessa, ma a spezzare il flusso dei ricordi arrivò un fischio lungo e modulato seguito da altri due brevi e secchi. «Mamma zia Beth ti chiama.»€«Ho sentito Victoria.» «Ma non vai?»€«Si, ma fra un po.» «Lo vedi che sei strana, di solito quando zia Beth fischia o chiama tu corri, oggi invece dici, “dopo”.»€«Oggi può aspettare, oggi devo raccontarti di questo viaggio, poi non voglio parlarne mai più.»€Victoria non capiva, mamma non rimandava mai le cose importanti e i richiami di zia Beth erano sempre importantissimi a sentire lei. Ma sapeva anche quanto era decisa e se voleva finire il suo racconto nulla l’avrebbe desistere. «Udine è stata un esperienza indimenticabile, in quella casa mi sono accorta di quanto fosse vasta la violenza su donne e bambini e non era solo fisica. Vivere in una casa protetta era una gran fortuna visto che ancora troppo poche donne potevano approffittare di un simile occasione. Ma era anche triste. Al di fuori di quelle mura nessuno, se non chi era autorizzato, doveva sapere dove abitavo. L’indirizzo era fasullo, una casa in una strada che non esiste ti fa pensare di non esistere nemmeno tu. Le amicizie esterne si fermavano ad almeno duecento metri dalla mia stanza. Alle volte mi pareva di essere un fantasma, eppure nemmeno quella sensazione mitigava la paura di trovarmelo improvvisamente alle spalle. Camminavo sfiorando i muri, osservavo chiunque incrociavo, ero convinta di sentire i passi di lui dietro me. Passi pesanti, passi sempre più vicini, passi che mi toglievano il fiato e mi formavano un groppo di pianto difficile da trattenere, passi infine che mi oltrepassavano sciogliendo un po’ la tensione. Tutto era per la nostra sicurezza, ma pareva di essere noi carcerate e non i nostri violenti compagni. In quella casa ho imparato a non giudicare, a vivere con il minimo indispensabile, ho capito che avere di avere un lavoro pagato anche se poco era il primo passo per cominciare ad avere fiducia in me e che dopo il fondo non può altro che migliorare. Avevo compreso che la libertà dalla paura andava guadagnata giorno per giorno. Ma ho imparato soprattutto che la vergogna non fa smettere le botte. Ho conosciuto donne indimenticabili, di Paesi lontani e del mio Paese, vecchie e giovani, dapprima impaurite ma via via sempre più sicure e forti. Mi hanno aiutato tutte in un modo o nell’altro, quelle che ci accoglievano a qualsiasi ora col sorriso, quelle che arrivavano furtivamente di notte piangendo, o trascinandosi dietro bambini spaventati. Quelle che affrontavano ormai a fronte alta l’avvenire mi regalavano la speranza. Così ogni giorno conquistavo una meta, fosse solo una passeggiata senza più preoccuparmi di correre a casa per evitare discussioni fatte con le mani. Dopo quasi sei mesi una sera, guardando dalla finestra della camera, ho scorto Alberto, poggiato a un muro in compagnia della sua arroganza riservata ai più deboli. Tremavo, piangevo e balbettavo davanti a Rosalba, che era di turno nella casa. Non lo avevo mai creduto veramente possibile, eppure lui mi aveva trovata. Poco dopo è giunta una pattuglia dei carabinieri consentendomi di andarmene accompagnata dalla responsabile. Avrei cambiato nuovamente città, avrei ancora camminato lungo i muri spiando persino le ombre. Eppure ad ogni tappa di quel viaggiare, sentivo che qualcosa cambiava. Lentamente, confusamente cominciavo a capire che ce l’avrei fatta, che ne avevo la forza, che quella paura demolitrice cominciava ad essere un sano timore che potevo combattere. E ancora una volta una persona speciale mi ha aperto la sua casa finchè non mi fossi trasferita. Però ero stanca di sentirmi inseguita, stanca di terra che mi mancava sotto i piedi, di persone appena conosciute e già fuori dalla mia vita, stanca di ricominciare sempre da capo.»€L’uomo col cane passò vicino a Stefania lanciandole di nuovo lo stesso sguardo torvo. «Ma perchè ti guarda così? Lo conosci?»€«Si tesoro, è uno di quelli che considerano le donne una proprietà, ora la sua se n’è andata e lui è molto arrabbiato. Ora cominciamo ad avviarci verso casa.»La spiaggia ormai si era riappropriata del silenzio, interrotto solo dal mormorio del mare e Stefania stretta alla figlia proseguì a raccontare ancor più sottovoce. «Ho sfogato la mia tristezza con Cinzia, pensavo che non avrei mai trovato un posto sicuro, tanto valeva affrontarlo. In quel momento ne sentivo la forza. Lei ha scosso il capo poi, improvvisamente mi ha chiesto se volevo andare all’estero, bastava parlassi un po’ di inglese, conosceva chi poteva ospitarmi in Irlanda. Ed eccomi arrivata qui, per mesi ho ancora avuto il timore che lui mi rintracciasse, ma poi la vita è ripresa con i suoi alti e bassi, come per tutti. Finalmente una vita normale, E’ stata questo quotidianità a farmi sentire, finalmente, alla stazione d’arrivo. Col tempo mi sono unita a un gruppo di volontarie e cerco di fare per altre donne maltrattate, quello che tante hanno fatto per me. Me ne sono andata in tempo, ho scelto la libertà dalla paura e dalle botte sapendo che per tante, troppe altre la cosa è quasi impossibile. Quella scelta alla fine mi ha ripagata con gli interessi, oggi apprezzo ogni giorno che vivo, senza grandi pretese e soprattutto sono serena.» Di nuovo il lungo modulato fischio raggiunse la spiaggia ormai solitaria, Stefania alzò il viso e guardò la figlia cogliendo un luccichio nei suoi occhi. «Mamma e quelle donne che ti hanno aiutata le hai più viste o sentite?»€«No, non so nemmeno se i loro nomi fossero veri, ma sarò loro grata per sempre. Sai, mi hanno fatto sentire orgogliosa di me, perchè il coraggio di ribellarsi a certe situazioni non te lo da nessuno, lo conquisti sempre a tue spese. Adesso capisci il perchè di quelle strane presenze nella nostra vita, quelle figure che entrano di nascosto in casa nostra e spesso scompaiono prima ancora che tu ne conosca il nome. Sono donne come lo ero io una vita fa. Quella che tu chiami zia Beth è la persona che mi ha accolta e aiutata e che mi ha fatto conoscere tanta gente che mi vuole bene, compreso papà. Ecco tesoro il mio viaggiare si è arenato su queste coste, qui ho ritrovato la voglia di vivere e il coraggio di amare di nuovo e qui ho ricevuto il più grande regalo che la vita potesse farmi, la mia piccola, grande Victoria.»€Stefania diede un lieve bacio sulla fronte alla figlia e se la strinse forte al petto mentre una lacrima si affacciava timida negli occhi. Un altro lungo fischio seguito da due corti e secchi. Questa volta non poterono far finta di non avere sentito «Dai andiamo a casa mamma, credo che stasera avremo un ospite a cena.»€«Si Victoria, purtroppo si.»