29 AGOSTO 1996

Il primo botto… me lo ricordo ancora, aveva il profumo della gioventù e la forza dell’attesa. Agosto stava andando via e tu eri già realtà. Sapevo che la vita non sarebbe stata più la stessa, oggi come allora…ti amo più della mia vita figlia mia adorata. In questo amore così grande si concretizza il tuo futuro e la mia fine, lenta, inesorabile, dolce come i giorni della tua fanciullezza. Sei acerba di vita e piena di saggezza, pacata come un fiume, affascinante come la vetta di un monte sul quale stai piantando il tuo vessillo. Buona strada amore mio, sulle note di questa festa struggente di luci e di suoni ti lascio volare incontro alla vita.

Con Amore Infinito

MAMMA


 

IL VIAGGIO

La scoperta di sé non è mai così facile, ha le sue regole, talvolta spietate, talvolta senza senso. Il senso lo trovi dopo, o magari alla fine, o quando meno te lo aspetti. Lo capii troppo tardi, in uno scomodissimo treno ultramoderno che mi avrebbe consegnata a me stessa. Erano passati 35 anni, la distanza della maturità, della famiglia, del lavoro, dei figli, il tempo dell’oblio e della dimenticanza, il tempo della fenice, quello in cui la fiamma arde sotto la cenere per poi rinascere. Arrivai con il buio. Io credevo che lì ci fosse sempre il sole, anche di notte; rimasi stupita, quasi delusa da quel cielo invisibile e livido che si mostrava ai miei occhi. Avrei dovuto aspettare ancora, avrei dovuto ancora confrontarmi con le ore e i minuti per capire di quale luce volessi essere inondata. Non dormii nemmeno un istante, avevo deciso di non abbandonarmi, mi arrovellavo nel letto mentre la figura accogliente e morbida dell’affetto puro mi teneva la mano e mi parlava della vita; la sua vita, così essenziale e semplice nonostante le apparenze. La osservai tutta la notte, una chioma quasi surreale si stagliava su un guanciale ricamato di fregi, il suo respiro arrivava dritto nella mia anima, quasi a confondermi e a non capire come tutto questo stesse realmente accadendo. Il cielo apparve forte e luminoso, era giorno. La vita si consegnava nelle mie mani attraverso le pieghe di quei drappi sconnessi, consumati dalla notte, difficili da abbandonare. Lentamente mi resi conto che esistevo, potevo agire libera e respirare quell’aria nuova che avevo cercato per così tanto tempo. Avevo trovato tutto, quel tutto che non è mai abbastanza, che riempie gli occhi di colori, inebria di profumi e ti conduce verso strade insospettabili. Il mondo era lì, sotto i miei occhi, ne calpestavo solerte i suoi sassi confondendomi con l’aria e i suoni forti, pungenti, assordanti. Il senso di indefinito e fragile che mi aveva perseguitato per tutti questi anni era definitivamente scomparso. Ora sapevo esattamente chi ero e dove volevo andare, sapevo di non essere sola, ero accompagnata da anime il cui cuore batteva all’unisono con il mio. E tra queste anime percepii un battito, quasi impalpabile. Lo sentii, prima ancora di scorgerlo, sapevo che era in me e si perdeva nei miei occhi, si perdeva così tanto che feci fatica ad accarezzarlo. Avrei voluto abbracciarlo quel battito, portare con me il suo spirito e custodirlo in uno scrigno per sempre. Il treno mi stava aspettando, abbracciai la valigia e con coraggio mi rimisi in cammino, consapevole che non sarei mai più potuta tornare indietro. Perché indietro tornano solo le nuvole quando il vento soffia al contrario e penetra nell’ultimo solco di lucidità possibile. E’ in quel preciso istante che puoi diventare tutto e niente, puoi scegliere di continuare o morire, cambiare per sempre o abbandonarti all’oblio. E…io scelsi. Scelsi di tornare bambina, piccola e bionda come una spiga di grano, piena e tonda come il sole a cui presto avrebbero rubato un raggio. Mi portarono via tutto, all’improvviso, senza proferire parola, senza nemmeno avere il coraggio di guardarmi negli occhi. Nello stesso mese in cui il grano matura io morii e con me i canti, la preghiera, la gioia, quella chiesetta in cui andavo a confidare i miei segreti più nascosti illudendomi che qualcuno potesse sentirmi. Avevo deciso di morire perché mi mancava tutto, il mio tutto che nessuno mai aveva preso in considerazione, quel tutto fatto di quaderni, gommine profumate, capelli biondi e mani lunghe e curate,  carezze e  teneri abbracci. Mai niente poté colmare quel vuoto bianco, lungo, immenso, non il vagito di una nuova vita né la promessa dell’amore eterno. Ed è forse questa la ragione per cui ora vi sto scrivendo da un luogo lontano, irraggiungibile… da un terrazzo sul mare, confusa tra le onde e il sole abbagliante di una nuova vita, nell’attesa della consumazione dei giorni.


 

GOCCIA

Ho bevuto

Goccia dopo goccia

Di distillata memoria

L’essenza tua.

Ho ascoltato il suo suono

Gorgogliare nei vicoli impercorribili.

Ho toccato il fondo

Senza volermi rialzare

Per percepire

Lo stillare lento, inesorabile

Della tua pura, primitiva

Forma di vita.