Amore di zitella

Se c’è una cosa che detesto, è conoscere uno sconosciuto. È snervante.

Uno sguardo, un sorriso, un contatto che a volte sarebbe bene si fermasse lì; lo capisco subito che c’è qualcosa che non va, ma siccome una volta può non essere come un’altra, mi godo la conversazione fino alle presentazioni. Capita che mi chiedano quanti anni ho ancora prima di sapere come mi chiamo e questo mi irrita. A cosa serve? Mi vedi, mi guardi, mi tampini, significa che ti piaccio, quindi che ti importa di sapere quanti anni ho! Siamo all’anagrafe? Te lo chiedo io? No e allora, vai avanti, già che ci sei chiedimi anche quanto peso…

Mi chiamo Adele Reale, ho cinquant’anni e sono una zitella.
Mi chiamo Adele Reale sì, ma potrei chiamarmi Mae Chest, Josephine Lafitte, Inge Bidermehier, Lola Cervantes, Naj Chen, potrei persino chiamarmi Antonella Cavallo come la mia autrice; i miei cinquanta ce li ho e non me li toglie nessuno. A dire il vero, potrei averne quaranta o anche trentacinque, non farebbe alcuna differenza.

Zitella, questo sì la differenza la fa, eccome!

Lasciatemi dire a chi come voi porta con orgoglio una fede al dito, a chi la sta per infilare e a chi sa che presto accadrà; ai portatori sani di sguardi di invidia, di pietà, di compassione, di rimprovero o di monito – come quelli di mia madre – ai vari: ‘Tu pretendi troppo’, ‘Sei troppo selettiva’, ‘Sei esigente’, ‘Tu sì che hai capito tutto dalla vita’, ‘Stai troppo bene così’, ‘Ma ti piacciono le donne?’, ‘Sei troppo indipendente’, ‘Goditi la libertà’, ‘Perché tu non hai idea di cosa significhi la rottura di palle di avere un marito che tutte le sere te la chiede’ e così via…

«Dio volesse oh stronza!» mi sale a volte nella strozza come un missile che poi ingoio, pensando a suo marito e allora sì annuisco, perché al pensiero di trovarmelo davanti nudo, potrei sentirmi in difficoltà anche solo a farmi rimpiazzare dal mio ologramma.

Lasciatemi dire: «Sarei tentata, ma no grazie.»

Sono zitella, da qualche anno me ne sono fatta proprio una ragione, anzi meglio direi un vanto. Vi siete mai presi la briga di andare a conoscere l’etimologia del termine?

Zitella: donna matura nubile, donna dal carattere acido e irritabile sì, ma l’origine è meridionale e deriva dal semplice significato di ragazzina, essendo il diminutivo vezzeggiativo di zitta. La prima forma regolare fu dunque zittella. Tuttavia si trova sin dal Medio Evo, il termine con una t sola.

Dal significato di ragazza, zitella venne a indicare dapprima la donna non ancora sposata, anche se giovane, poi specialmente nei dialetti meridionali, la ragazza fidanzata e infine, la sposa nel giorno delle nozze e divenne ‘la zita’. Quindi anticamente ragazza da marito.

Sono zitella, qual è il problema? Sono libera, anche per l’anagrafe, di scegliere. L’ultima volta che ho rifatto la carta di identità, l’impiegata allo sportello mi ha chiesto: «Cosa vuole scrivere? Nubile, sola, libera oppure lasciamo spazio vuoto?»

«No no, scriva Libera!»

Intendiamoci, mi piacciono gli uomini, mi piace essere corteggiata, ho i miei estimatori. I migliori sono i trentenni, sono spontanei, diretti e non ancora contaminati dal grigiore nebuloso degli over anta. Un esempio?

Mi è capitato di intrattenere una divertente corrispondenza con un giovane personal coach della palestra che frequento da alcuni mesi. Avrei dovuto forse prevederlo sin dall’inizio, dal suo primo sms dal contenuto apparentemente innocuo e dalla mia risposta che ha dato il via ad un vortice senza pace. Messaggi intervallati dalla frequentazione fisica infarcita di suoi insegnamenti volti al perseguimento di quella che promette di trasformare le mie curve morbide, in una macchina dalle forme prestanti e sode.

Il primo approccio è stata una sorta di visita medica volta alla compilazione della mia scheda personale con peso, altezza, calcolo della massa muscolare e… palpazione professionale dei glutei.

«Ti dà fastidio?» Mi ha chiesto con voce ferma.

Un attimo di esitazione e ho ribattuto un «No no» soffocando una risata spudorata.

Dopo un paio di lezioni in sala macchine senza apparente risvolto, ricevo il primo di una serie di messaggi. Sorpresa, stupita, incredula, mi chiedo cosa ci veda in me, cosa possa trovare di attraente in una donna paonazza madida di sudore alle prese con tapis roulant, flessioni, pesi, abductor machine e tutte le altre macchine infernali. Ci sono decine di donne che sfilano truccate e inguainate in tutine da urlo eppure, lui spasima per me. Perché?

Che dire, mi lusinga, ma lascio perdere, nella mia testa frulla l’immagine della tardona; siamo in Italia e per quanto tra le mie più celebri coetanee d’oltre oceano sia di moda accompagnarsi col toy boy, io mi accontento della soddisfazione di aver fatto girar la testa ad un giovane palestrato.

Qualche mese più tardi, ad una cena di lavoro, conosco il fratello del mio capo, ha trent’anni simpatico, è un atleta in tour per varie gare di classificazione, passiamo la serata tra chiacchiere e risate, è fidanzatissimo e in procinto di partire per una vacanza a Dublino. Gli parlo del mio ultimo viaggio in Irlanda e dello splendido albergo, di cui non ricordo il nome, dove ho alloggiato.

Ci scambiamo gli indirizzi mail, vuole il contatto del hotel, ci andrà con la sua ragazza. Il giorno seguente gli scrivo, mi risponde, mi ringrazia. Ci sentiremo poi al rientro per sapere com’è andata.

Dopo un paio di settimane ricevo sue notizie. Vuole vedermi, non è più fidanzato, non fa che pensare alla sera in cui ci siamo conosciuti. Fingo di non recepire, tergiverso, lui insiste.

«Non lo so perché. – risponde – Mi piaci, ho voglia di vederti. Cosa c’è da capire?»

«E cosa c’è da capire? Anagraficamente potrei quasi essere tua madre.»

«Sì, ma non lo sei. Non mi interessa quanti anni hai, voglio vederti anche solo cinque minuti.»

Intenditori? Amanti dell’antiquariato? Quella volta mi sono fatta coraggio e ho pensato che se non si faceva problemi lui, perché mai avrei dovuto farmene io?

Più tardi, quella notte a casa mia, mi sono guardata allo specchio e quello che ho visto riflesso, era un sorriso stampato sul volto di una ragazza.

Non può essere amore? Che senso ha? Non ha futuro?

C’è stato più amore in quell’unica folle notte di passione spudorata, che in un anno di incomprensioni e menzogne col mio ultimo ex-fidanzato che per inciso, come per quelli che lo hanno preceduto, il cosiddetto futuro certo che c’è stato è che non ci sono più. Intendiamoci non si sono appesi e non li ho fatti fuori, è che non riesco a tenermene attaccato uno. Forse c’è qualcosa di storto in me che mi porta ad attirare gli uomini sbagliati. Forse non ne è valsa la pena, perché culo vuole, tutti quelli che ho incontrato sino ad ora, fingevano di essere ciò che non erano. Forse perché ultimamente ed è un periodo molto lungo, gli uomini non sanno cosa vogliono, cercano quel che a loro manca e quando lo trovano è ‘troppo’. Forse davvero sono io che pretendo l’impossibile nel volere un uomo che non mi tema, che non si intimorisca della mia indipendenza, che si lasci solo amare.

Concedetemi una domanda: perché se chiedi aiuto sei una rompicoglioni e se fai da sola non hai bisogno di uomo? Bisogno? Ma a me non serve un uomo per attaccare un chiodo, fare la spesa o portare su dal box un canestro di bottiglie di acqua. Quello che voglio è un uomo da amare e che mi ami, è così trascendentale?

Ma tu sei pessimista, mi hanno anche detto. No, sono obiettiva o più semplicemente, sono nata per essere zitella.

Mi chiamo Adele Reale sarò zitella sì, ma di una cosa sono certa, fino ad ora so di aver contribuito alla felicità di almeno un uomo: quello che non ho mai sposato.


 

C’è un cigno alla fermata dell’autobus

C’è odore di pioggia nell’aria. Le fronde dei platani ondeggiano a chiome scarmigliate in una danza col vento impetuoso e la promessa accattivante di refrigerio. I sette rintocchi della campana radunano i pochi fedeli verso l’ultima funzione di un venerdì rovente. Si avvicinano al sagrato a lente falcate, i nasi rivolti all’insù a interrogare il cielo. Un mendicante scarmigliato ha preso posto a lato del cancello, è accovacciato su selciato in compagnia dell’inseparabile cucciolo di cocker che punta il muso tra le pieghe dei calzoni laidi. L’uomo lo afferra con entrambe le mani e lo depone in grembo stringendo il bicchiere di cartone tra i denti.

«È un bravo diavolo… – commenta una donna allungandogli una moneta. – Va’ che tra poco viene giù il diluvio e se ti si ammala? Cosa fai? Ce li hai i soldi per il veterinario?»

L’uomo non risponde, abbozza un mezzo sorriso rivolto al cane e apre i lembi della camicia.

«Se piove non c’è problema.» Ma il suo il gesto eloquente non convince la signora che procede verso l’ingresso della chiesa seguitando a bofonchiare.

Osservo la scena, gli occhi stretti a fessura dietro le lenti fotocromatiche. Alle mie spalle si addensano nubi plumbee, mentre il sole ancora alto mi invita a proseguire il cammino verso la mia corsa lungo le sponde del Naviglio Grande. Il bagliore mi cattura sornione, come resistere? Allungo il passo sino al ponte di ferro che attraversa il corso d’acqua, salgo i gradini della prima rampa, percorro la passerella e mi fermo al culmine: un cigno galleggia in direzione della campata centrale.

Un cigno a Milano che galleggia placido sulle acque verdastre del naviglio…

Poco più in là, scorgo una canoa con a bordo tre ragazzi, forse in prima uscita. Percorro l’altra metà che resta e scendo la rampa di scale sfiorando il corrimano. Pochi passi mi separano dal punto di partenza; spinta dal mio raggio guida sollevo i piedi dal selciato, uno dietro l’altro e modulo il respiro: inspiro per tre affondi ed espiro per i tre successivi.

I tre ragazzi pagaiano incalzati dall’istruttore in bicicletta che impartisce loro i primi fondamenti in acqua piatta; destrezza ed equilibrio messi a dura prova dalla presenza del candido palmipede.

Il cigno si ferma, li osserva, estrae una zampa quasi a suggerire come fendere l’acqua. I ragazzi sollevano le pagaie con una gioiosa risata riconoscente.

Estraggo il cellulare dalla tasca dei calzoncini per immortalare la scena. Un autobus sulla strada prende il posto della canoa, ma lo scatto risulta singolare: c’è un cigno alla fermata dell’autobus.

Riprendo la mia corsa verso la Canottieri Milano con la canicola luminescente che mi spinge e la frescura plumbea che mi attende al traguardo. Corro e osservo. Osservo chi mi sorpassa e chi procede in senso contrario. C’è chi slitta coi piedi alle dieci e dieci, chi ai piedi sembra avere le ciaspole, chi arranca, chi calcia talloni ai glutei e chi scatta come un giaguaro. Gli arti superiori sembrano vivere di vita propria: ci sono gli aspiranti pugili, quelli che raccolgono i pugni alle spalle, quelli che scaricano a terra, quelli tipo simulatore di guida camion a pollici tesi. Ne ho visto persino uno correre a braccia conserte. Sui volti i segni della fatica e l’espressione di un sentimento comune a tutti noi, sensazione di evasione, di libertà allo stato puro.

Poco prima di piazzale Negrelli, ci sono due isole con le panche di osservazione più che di sosta dove il pubblico non manca mai di godere di un passaggio fuori dall’ordinario. Poco più avanti, un rimessaggio di camper con una muta di cani pronta all’assalto verbale all’indirizzo di qualche quadrupede corridore e più in là, all’altezza degli ottocento metri che mi separano dalla meta, un cespuglio di gelsomino odoroso; mi spingo oltre e affondo le falcate, felice dei miei mille e trecent metri lasciati alle mie spalle insieme alla tensione dei muscoli peronei, che ormai caldi mi danno tregua. Oltre le campate del ponte di ferro della linea autobus 90, al segno dei cento metri, raggiungo una coppia di fotografi alle prese con un giovane modello in posa spalle al muro affrescato di graffiti. Rallento, mi lasciano passare, ormai ci sono: zero! Ma il giro di boa è poco più avanti, un’altra cinquantina di metri fino al ponte di pietra: è là che devo arrivare per poi tornare indietro.

Ecco, ora sto correndo incontro al sole che si staglia impertinente coi raggi affastellati in un unico dito ammonitore. Strizzo gli occhi sorrido e visualizzo la mia immagine: gote rubiconde imperlate di sudore salato che si raccoglie nella fossetta giugulare e scorre lungo lo sterno. Una ciocca di capelli libra contro vento e la coda di cavallo spazzola la base del collo. Le suole battono sull’asfalto calcando le orme di centinaia di migliaia di passi che mi hanno preceduto e lasciando l’impronta per quelli a seguire. Godo del mio respiro che non rimbomba più con affanno, delle tempie che non pulsano, dei pensieri che non mi assillano.

Un lampo squarcia il cielo, l’aria si è fatta più fresca, tra poco seguirà il tuono. Riuscirò a rientrare prima dell’imminente temporale? Non me ne importa, mi auguro quasi che accada, che la pioggia mi colga in corsa.

Sono libera, mi sento libera dalla sete di sentimenti che attanaglia la mia esistenza e non mi fermo, assaporo questo limbo nel mio appuntamento con la gioia di vivere. Raggiungo la rampa di scale del mio punto di partenza, proseguo sino a metà passerella del ponte e rivolgo il saluto al mio raggio di sole.

In lontananza, il cigno non è che un batuffolo bianco che galleggia sul naviglio.

Mi attardo, le mani sulla balaustra tiepida a modulare equilibrio e respiro, i battiti rallentano, tampono la fronte col lembo della maglietta.

Un manipolo di piccoli Rom si tuffa con grida gioiose incuranti delle invettive lanciate dai passanti.

Sorrido, l’istinto urge impertinente, vorrei condividere la loro libertà spudorata.

Un latrato mi riporta alla ragione, mi volto in direzione della strada; la messa è finita, la piccola fila di fedeli si divide nelle due direzioni. Il cane e l’uomo hanno raggiunto la sponda del naviglio.

L’uomo porta le dita alle labbra in un lungo sibilo severo. I bambini saltano fuori dalle acque color del petrolio uno dopo l’altro; i corpi acerbi lucidi si dileguano oltre il varco di una rete, al di là del confine di ciò che è considerato lecito.

Proseguo sulla via del ritorno, scendo gli scalini dell’ultima rampa, incrocio lo sguardo del mendicante, il cane scodinzola sotto le mie carezze e l’uomo ricambia il mio sorriso.

Forse, per questa volta, la scappatella dei piccoli monelli passerà inosservata…


Oggi Sono Felice

Oggi sono felice

per ogni parola segreta

per ogni sguardo d’intesa

per ogni minuto rubato al tempo

e poi

quando mi sfiori

quando osservi i miei gesti

quando mi guardi da dietro

quando reclini un po’ il capo e mi regali un sorriso

e ancora

quando arrivi all’improvviso

quando mi baci e mi afferri i capelli

quando respiri il mio calore

quando sento il tuo corpo che brucia

quando il fremito arde e l’estasi ci coglie uniti

ecco perché sono felice,

perché oggi tu ci sei e hai scelto me.