Congiura in famiglia

(racconto tragicomico e semiserio)

 

Exordium

 

 

Pierluigi o, come dicevan tutti, Gigi, era alla vigilia delle sue seconde nozze. Sembrerebbe l’incipit di un romanzo rosa. I lettori (meglio, le lettrici) cominceranno a sospirare languidamente, pregustando tra le fauci il sapore zuccheroso dei confetti, pieni gli occhi di corteggi di soavi fanciulle, che spandono nell’aere petali odorosi… Spiacente. Niente di tutto ciò. State un po’ a sentire…

 

 

 

 

La congiura (parte prima)

 

 

Dicevamo… Topo Gigino stava per risposarsi (“Topo Gigino, zia? Allora è un racconto per bambini!”. “Ma no, tesoro… Topo Gigino è lo zio Gigi. Lo chiamo così da quando eravamo bambini. Ascolta…). Un’atmosfera festosa avrebbe dovuto avvolgerlo, in quei giorni. Invece, una vera e propria congiura era in atto contro di lui. In famiglia, un delirio di donne: madre, sorella, cognata; suo fratello, in piena crisi ormonale, come un adolescente, alle soglie dei cinquant’anni, si divideva tra moglie e amante; suo nipote (“Visto che ci sei anche tu, cucciolo?”), vispo e intelligente, si era fatto “fregare” a scuola, rimediando ben quattro debiti, il che aveva suscitato le ire didattiche della zia Furia, sua sorella (“A Bologna sono degli stronzi! Qui si è costretti a promuovere col due!”). Quest’ultima la rodeva soprattutto il debito in inglese, visto che, durante le vacanze pasquali, si era recata in Terra d’Emilia per porgere all’amato nipote le sue recenti, britanniche acquisizioni. Già… Perché quell’anno Furia si era prodotta in un brillante corso d’inglese… Qualche anno prima aveva tentato un abbozzo di seconda laurea in Filosofia, poi abbandonato (“Troppo razionale per me, la filosofia, non riesco a starci dietro”), mentre loro tutti si erano augurati che un barlume di “filosofica” saggezza illuminasse la sua mente esaltata.

Chissà che cosa si sarebbe inventato, per l’anno dopo, quell’essere esagitato… Ah, già! Aveva detto di voler studiare lo spagnolo… “Poveri noi!”. Nacchere e toreador si profilarono minacciosi all’orizzonte del paziente Topo Gigino.

 

“E un corso di yoga, sorellina, come lo vedi?”.

“Già fatto!”.

“Ebbene?”.

“Sì… bello… tanta pace interiore… ma che palle dopo un po’! Il cervello si rilassa troppo, ne esce come instupidito”.

“………………………………..”.

 

Ecco: questa era sua sorella Furia e questa era la sua delirante famiglia, nella quale vicende come quelle accennate, che nelle famiglie normali assumevano dimensioni normali, diventavano insormontabili come l’Everest. “Per favore, ragazzi, perché non vi date una calmata e concedete una tregua a un povero cristo, vostro congiunto, che la prossima settimana deve sposare quella che ama ( Romeo e Giulietta o I promessi sposi? No, buona la seconda, mi pare…)?”.

Meno male che, lassù, uno sguardo bonario e un dolce sorriso vegliavano su di lui, come quando era bambino… “Grazie, papà…”.

E meno male, anche, che la sera, dopo quelle giornate al cardiopalmo, mollemente distesi sul divano, davanti alla tv, Elenuccia (quando era immune dalle sue lune, anche lei) gli faceva quei suoi speciali “grattini”, che lo facevano sprofondare in un sonno tranquillo, come un bimbo nel grembo materno…

 

 

 

La congiura (parte seconda)

 

 

Quella mattina, al suo risveglio, Topo Gigino non immaginava che la congiura avrebbe raggiunto, di lì a poco, la sua apoteosi.

La giornata si avviò faticosamente. La notte era trascorsa quasi insonne per il caldo e le zanzare. Ogni volta che lui ed Elenuccia erano stati sul punto di addormentarsi, quelle porche maledette avevano cominciato a rombare nelle loro orecchie come gli epici elicotteri di Apocalypse now.

Si levarono intontiti e disfatti, ritrovandosi come automi davanti a due tazze di un liquido scuro, che in altri tempi aveva avuto l’aroma e il gusto del caffè, ma che quel giorno era affatto inodoro e insaporo.

Quasi trascinasse un macigno, il nostro eroe si recò in bagno per espletare le sue abituali abluzioni mattutine. Come era solito fare in quella circostanza, portò con sé il cellulare. Lo accese e subito sul display balenò l’avviso di un messaggio, proveniente dal cuore delle tenebre notturne… Poteva essere solo una persona, a quell’ora… Infatti era proprio lei, Furia. “Ma questa qui, non dorme neanche più, la notte?”. E pensare che aveva la fortuna di abitare in una delle poche regioni dello Stivale in cui, dopo i violenti ardori diurni, la Notte scende, leggera e invocata, col suo corteggio di brezze che, lambendo dolcemente le lenzuola e i corpi degli estenuati abitanti, concedono loro sonni quasi asciutti e privi di zanzare. “Non sarà mica che quella squinternata rimpiange ancora le umide calure padane, nelle quali si è macerata per circa tre lustri?”.

Il messaggio lo invitava ad aprire urgentemente la sua email, una volta arrivato in ufficio: gli aveva mandato una poesia, scritta per le sue nozze e per farsi perdonare la violenta sfuriata del giorno prima. Be’. Quella del giorno prima era stata davvero la sfuriata più memorabile di sua sorella… Era avvenuta via SMS… Ebbene, è così: ormai affidiamo a dei marchingegni infernali l’espressione dei nostri migliori e peggiori sentimenti…

“Con urgenza, mi raccomando!”, recitava il messaggio. “Eh, certo! Perché io, di mestiere, mica faccio il capufficio di un’agenzia bancaria… Nooo…Quello è il mio hobby. L’occupazione principale della mia vita consiste nel leggere gli SMS e le mail di mia sorella e ascoltare i suoi deliri telefonici. Ma che colpe sto espiando, io, con una sorella del genere? Possibile che nessun essere di sesso maschile, per solidarietà con la categoria, voglia immolarsi e tirarsi su ‘sta femmina smaniosa, mettendola tranquilla con un paio di colpi ben assestati?”.

 

“Senti che maialate! Alla tua sorellina… Benissimo. D’ora in poi non sarai più Topo, bensì Porco Gigio”.

E va bene! Aggiustiamo il tiro… “Perché non ti trovi un fidanzato, sorellina? (Uno come si deve, dico, che ponga fine a quella galleria di amori improbabili e improponibili che è la tua vita sentimentale)”.

“Be’, al momento non mi piace nessuno!”. Lo spiritello acquattato in fondo agli occhi verdognoli emana un guizzo fulmineo, che incenerisce l’interlocutore.

“E, sentiamo, come dovrebbe essere il candidato ideale e idoneo ad appagare i tuoi gusti?”.

“Mah… non particolarmente bello… nooo… diciamo di aspetto gradevole… e pronto a gustare, in mia compagnia, un quintetto di Schubert, un film come Carrington e Shadowlands, un dramma di Willy, senza batter ciglio, senza sbadigliare-russare-sacramentare… (E chi sarebbe, mo’, ‘sto Willy? “William Shakespeare, troglodita!”. Oh, no! Siamo ai nomignoli… E’ finita). Vediamo… ecco! Ci sono: il Johnny Depp di Finding Neverland. Colto, sensibile, raffinato… (and also so tender and funny…dear Sir James M. Barrie… who’s never dreamed to be Peter Pan and go to “Neverland”?).

 

Aeh! Uno che non esiste, praticamente. Perché, si sa, noi maschietti o siamo rozzi e incolti bestioni, con la fissa del sesso, oppure, se abbiamo un animo delicato, siamo brutti come i rospi delle fiabe, con la differenza che né il bacio di una principessa né il bisturi del chirurgo estetico potrebbero trasformarci in desiderabili principi. Però… Un giretto in Terra di Puglia del bel Johnny sarebbe davvero auspicabile, per la salvaguardia della nostra integrità mentale. In vista di un così straordinario frangente, regaleremmo alla nostra amata sorella un pacchetto completo di trattamenti estetici che, lungi dal trasformarla in Penelope Cruz (mi sono tenuto su una taglia piccola, siamo sul m. 1,55), potrebbero conferirle, quantomeno, un aspetto tale da stuzzicare la curiosità del divo hollywoodiano… Ma che sto farneticando? Oddio! Quella matta mi ha contagiato con la sua irrefrenabile immaginazione! E’ meglio che torniamo con i piedi per terra e ci rassegniamo a sopportare, per il resto dei nostri giorni, questa sorella zitella, invasata dalle sue impennate poetiche.

 

Qui giunti, dobbiamo interrompere il filo della narrazione per un flashback (“Flash che, prof?”. “Flashback, dall’inglese. Significa che dobbiamo fare un passo indietro, back, per recuperare avvenimenti precedenti, utili a comprendere lo sviluppo delle vicende narrate”. “Aaah…”. Scusate. I miei alunni irrompono, e rompono, anche nei momenti meno opportuni). Dicevamo che, a questo punto, si rende necessaria una digressione, della qual cosa chiedo venia ai miei venticinque lettori. (“Venticinque!? E chi avresti assoldato, di grazia, perché si sottoponga a siffatta tortura?”. “Oh, al diavolo! E’ un modo di dire. E poi, comunque, il venticinque pare che porti bene, almeno a giudicare dagli illustri antecedenti… Ora, se non ci sono altre interruzioni e con buona pace dei miei detrattori, vorrei continuare. Grazie). Lasciamo, dunque, Topo Gigino alle sue abluzioni mattutine e vediamo che cosa era successo nei giorni precedenti.

Dopo uno snervante tiremmolla con il Comune di nascita, si era finalmente addivenuti a fissare la data delle fatidiche nozze. Mancava davvero pochissimo… Topo Gigino si rese conto che la notizia avrebbe gettato lo scompiglio in quella già sconquassata famiglia. Il Grande Manager aveva di sicuro già programmato i suoi impegni di lavoro, il “piccolo”, con mamma al seguito, era alle prese con i suoi debiti scolastici, il “sergente di ferro” (sua madre) avrebbe dato in escandescenze, abituata com’era, con maniacale precisione da orologio svizzero, a predisporre le sue cose con almeno un paio di lustri di anticipo (“Com’è possibile che, proprio io, abbia generato tre cialtroni”?)… Quella che lo preoccupava più di tutti era, tuttavia, Furia, se ipsa, ma anche perché gli sembrava di ricordare vagamente che, proprio attorno alla data fatidica, quel Moto Perpetuo di donna avesse in programma una breve vacanza in Sardegna.

Infatti… La chiamò dall’ufficio, di pomeriggio.

“Scordatelo. Ho prenotato da tempo immemorabile l’ira di dio di treni e traghetti e non ho nessuna intenzione di mandare all’aria tutto ‘sto ambaradàn per assecondare i tuoi capricci dell’ultimo minuto. Dovrai arrangiarti senza di me. Proprio non posso farti da testimone. Quanto a me, sono a posto. Sono già venuta al tuo primo matrimonio. Basta e avanza”. E lo mandò affettuosamente dove il sole tace.

Topo Gigino riagganciò il ricevitore, imperturbabile. Conosceva il suo pollo… Qualche ora dopo, come da copione, la telefonata di rettifica.

“Topo Gigio?…”.

“Sì?…”.

“Be’… sai… ho visto che posso prendere un treno anche più tardi…”.

“Aaah…”.

“Ecco…insomma…riesco a venire al tuo matrimonio…”.

“Ooooh…”.

“Ok, allora, ciao!”.

“Ciao…”.

Furia era fatta così: capace di sostenere una tesi e il suo esatto contrario con la stessa indecente naturalezza, con la medesima veemente foga da pasionaria.

 

A questo punto, il lettore ignaro, ormai simpaticamente solidale con i nostri personaggi, plaudirà con slancio a questa, tutto sommato, rapida e indolore risoluzione di una piccola controversia familiare, nel pensier fingendosi l’aereo e impalpabile ritorno di Armonia, acconcio preludio di un evento festoso. Ma, l’abbiamo detto, è un lettore ignaro, “cioè non conosce Furia e non sa che quel demonio troverà pace solo quando tutto si sarà sistemato nell’unico modo in cui, a suo parere, le cose dovrebbero andare a questo mondo: il suo!”.

Per farla breve, non fu facile come sperato, per Furia, sistemare e sostituire le sue prenotazioni. La nostra eroina ebbe, anche lei, la sua congiura, ordita dalle agenzie di viaggio cittadine, per motivi e con modalità che risparmiamo al nostro paziente lettore. Diremo solo che la volenterosa “fanciulla” si sottopose a un nefando pellegrinaggio sotto il sole impietoso del Mezzogiorno d’Italia, con temperature che farebbero un baffo solo ai tuareg sahariani, mentre la rabbia cominciava a ribollirle in corpo, esplodendo finalmente in un accesso di collera che la portò ad afferrare il cellulare e inviare a quel “coglione” di suo fratello, responsabile di così grandi disagi, una sequela di triviali imprecazioni da bordello di marinai, accompagnata da oscure minacce.

 

Nessuno si stupisca dello “stile” di Furia: la nostra “donzella” era solita passare dal registro aulico al turpiloquio senza soluzione di continuità, lasciando completamente disorientati gli interlocutori, che non sapevano più se si trovavano al cospetto di una laureata in Lettere Classiche, per di più docente di ruolo di comprovate capacità, o di una frequentatrice di postriboli. “Speriamo che, almeno in classe, si trattenga…”. Macché. Anche da quel fronte giungevano allarmanti notizie di dirigenti scolastici che, seriamente preoccupati, la convocavano, in via del tutto informale, in camera caritatis, per invitarla all’uso di un linguaggio più asettico.

“Veda, professoressa… Non è proprio necessario apostrofare gli alunni con epiteti di un certo tipo… Si può benissimo ricorrere a strategie più didattiche…”.

 

“Idiota! Deficiente! Gli avrei dato fuoco! Lui e i suoi ipocriti paternalismi del piffero! Cosa diavolo ne sa di didattica lui, che se ne sta comodamente assiso sul suo trono, a pontificare, preoccupato solo del calo delle iscrizioni? Vorrei vederlo tutti i giorni alle prese con bande di delinquenti criminali! Basta. Non ne posso più! VOGLIO CAMBIARE MESTIERE!!!”.

 

Eccola: ci sembra di vederla, Furia, mentre percorre le vie del natìo borgo selvaggio (o deserto dei Tartari, come amava anche chiamare la sua città), con i suoi corti, ma rapidi passettini, brandendo e dimenando la sua borsetta, come gli sventurati capponi di manzoniana memoria tra le mani dell’infuriato Renzo. Intanto, torme di pensieri e ricordi le passavano a tumulto per la mente

“Guarda un po’ se ‘sti due imbecilli, ogni volta che decidono di sposarsi, devono fare tutto ‘sto cancan!”.

Questo qui, per il suo primo matrimonio, aveva mobilitato tutta la banda sgangherata dai vari angoli della Penisola: i Costa seniores dall’Apulia felix; lei, Furia, dalla patavina dimora dell’epoca; i Costa juniores, con appendice di gnomo pestifero, dalla “dotta” Bologna; parenti e amici variamente domiciliati. La cerimonia era stata celebrata nella solenne e rarefatta cornice della romanica Basilica di S. Simpliciano, a Milano. Il Grande Manager aveva fatto da testimone, lei aveva letto un delicato e a un tempo palpitante passo del Cantico dei Cantici, la voce dell’officiante aveva pervaso l’uditorio col suo tono pacato e suadente mentre, a farle da contrappunto, la vocina impertinente dello gnometto era echeggiata tra le navate dell’austero tempio, trasformandolo in un nido d’infanzia. Il pranzo nuziale si era tenuto nel suggestivo scenario di un castello medievale del Comasco, con tanto di arrivo degli sposi in Porsche spider bianca. “Fanatico!”. E il tutto si era concluso, sette anni dopo, davanti a una sentenza di divorzio…

Perché, quell’altro, che era andato a sposarsi in Calabria, costringendo (quasi) tutta la truppa a sbarcare in Magna Grecia dove, tra rovine di antichi templi e vedute mozzafiato, un dio locale, simile il sembiante a un bronzo riaceo, aveva dato loro il benvenuto in un idioma incomprensibile, con più aspirazioni del più aspirato dei dialetti toscani? E anche questo matrimonio, ora, era giunto al capolinea, tra urla, insulti e botte da orbi (per la serie “Ognuno ha il suo Sferisterio”…).

“Che nessuno venga mai più a chiedermi Come mai non ti sposi, ché gli cavo gli occhi! Con una famiglia del genere, la voglia di sposarti ti passa ancor prima che ti sia venuta… Uffa, papà! Mi hai lasciato da sola in questa gabbia di matti… Non te lo perdonerò mai!”.

 

Bene. Alla fine Furia abbandonò l’impresa e concluse il programma di quella lambiccata odissea attraverso la Penisola, per raggiungere la Sardegna, chiedendo ospitalità a sua cognata, a Bologna, mentre, il giorno dopo, l’amica padovana compagna di viaggio, con appendice di figlioletta pittrice, sarebbe passata di là a prenderla, direzione Livorno e, finalmente, imbarco per l’isola dei nuraghi.

La baruffa fraterna ebbe fine non senza un mordace, ma affettuoso epilogo: “Pasticcione!”. “Pasticcione, io? (Tu, svitata!)”.