A YOUNG HIPPY WRITER

Dio mio che diavolo di posto!

Puzza di fumo qui. Odio le sigarette. Non sopporto quell’odore schifoso che impregna i vestiti. E in questo dannato ufficio, tutto sa di sigaretta. Per non parlare di quel fastidioso ticchettio: vecchie macchine da scrivere, impazzite! Certo, se riuscisse a leggere nella mia mente, mi avrebbe già sbattuta fuori.

 

Mi recai nella redazione del Los Angeles Times, dopo aver saputo che il direttore stava cercando un giornalista.

 

Cavolo, stiamo parlando del Los Angeles Times!

 

E’ il posto in cui ho sempre sognato di lavorare. O almeno questo è quello che desideravo, prima di conoscere lui.

Salii con calma le scale di quel vecchio edificio e arrivai su fino al settimo piano. Nemmeno una luce sul pianerottolo. Mi affrettai a bussare e di colpo un uomo mi aprì: scoppiò a ridere appena mi vide. Che c’è da ridere, pensai. Si fece subito serio e quasi gentile:

“Salve, come posso aiutarla?”

“Vorrei parlare con il direttore. So che sta cercando un giornalista”.

Non so perché, ma stava per ridermi di nuovo in faccia quel cretino. Poi si limitò a farmi entrare.

“Aspetti qui” disse.

 

Dio mio che diavolo di posto!

 

C’erano quattro o cinque uomini, ognuno nella propria scrivania. In quei loro abiti distinti, nemmeno si accorsero che io ero lì. Forse non mi notarono, immersa in quella densa nuvola di fumo che avvolgeva la stanza. Mi veniva da vomitare.

Dopo qualche minuto di attesa, eccoti il tipo cui stavo tanto simpatica.

 

Che idiota!

 

M’indicò con la mano l’ufficio del direttore, chiedendomi di bussare prima di entrare.

 

Ufficio del Direttore: James Potter

 

Era scritto in bella vista sulla porta. Bussai, ma nessuno rispose. Bussai di nuovo, ma niente. Decisi di aprire. Lo trovai lì, seduto sulla sua poltrona a fumare, mentre leggeva con attenzione il numero del giorno.

“Non ti hanno insegnato a bussare?”

“Io veramente… “

Non mi fece finire di parlare e senza rivolgermi nemmeno uno sguardo replicò: “In fretta se non ti dispiace”. Il suo modo di fare m’innervosì, ma non potevo far altro che rispondere. Era pur sempre il direttore.

“Mi chiamo Joyce e sono laureata in giornalismo. So che lei sta cercando un giornalista.”

All’improvviso alzò lo sguardo. Occhi color ghiaccio mi squadrarono dalla testa ai piedi. Il mio stile hippy non fu proprio una carta vincente. Non quel giorno.

 

Come ti è venuto in mente Joyce? Una contestatrice hippy al Los Angeles Times? Sei pazza!

 

Decisi di andar via.

“Dove stai andando?”

“Bè non ci vuole molto a capirlo. Lei non intende avere a che fare con una come me. Mi sbaglio?”

“Non ci sono donne nella mia redazione.”

“Ok. Tolgo il disturbo.”

“L’hai capito subito. Femminuccia intelligente!”

Stavo per aprire la porta quando pronunciò quelle parole.

“Come mi ha chiamata? Femminuccia?”

Lui rimase a fissarmi con un sorriso di scherno: “Non è così?”

“Che maiale bastardo!”

A questo punto lui, invece di offendersi, si mise a ridere come se avesse davanti un cuccioletto ribelle e divertente: “Lo vuoi quel posto?”

Senza attendere risposta mi lanciò addosso il giornale che aveva tra le mani.

 

BRIAN WILSON MOLLA TUTTO: ADDIO SMILE

 

Era scritto a caratteri cubitali sulla prima pagina.

“Questo è il caso del giorno: a Brian Wilson si è fuso il cervello. Ha buttato al cesso dodici mesi in studio di registrazione e centinaia di migliaia di dollari. Sono tutti incazzati, dalla Capitol Records al resto dei Beach Boys. Si è chiuso in casa, non vede nessuno, e ha quasi sfasciato la testa con una mazza da baseball l’ultimo stronzo che gli ho mandato. Voglio una sua intervista. Portami il pezzo entro due giorni e il posto è tuo”.

 

Che pezzo di merda!

 

Misi il giornale in borsa e andai via sbattendo la porta.

 

Non è possibile… solo due giorni!

 

Ben presto, dimenticai James e mi misi in moto per Hawthorne, un sobborgo di Los Angeles vicino alla costa del Pacifico, dove Wilson risiedeva con la sua famiglia. Avevo sentito parlare di lui e della sua band, i Beach Boys. Non m’intendevo di musica e prima di allora non mi ero mai interessata a loro. Ma quel lavoro doveva essere mio, ad ogni costo.

 

Chissà cosa gli è successo.

 

Una volta arrivata, non sapevo proprio da dove cominciare. Pensai di chiedere in giro; qualcuno che riuscisse a darmi qualche dritta. Ero disperata! Non potevo dire “Brian” che tutti mi guardavano come se fossi scema. Ci credo. Davanti alla villa c’era anche la polizia a tenere indietro fan e giornalisti. La cittadina era invasa. E la casa di Brian Wilson era una fortezza.

Cercai un alloggio dove trascorrere la notte. Avevano raddoppiato i prezzi per l’occasione, quelle sanguisughe.

Non riuscivo a riposare. Infatti, non dormii nemmeno un pò. Ma cosa potevo fare. Come potevo fare?

Sarei stata costretta a subire l’umiliazione di quel verme! Già me lo immaginavo. Rimasi immobile sul letto a pensare. Non avvertivo un singolo rumore. Non una parola.

 

Eppure, ci dev’essere un modo… ma se esiste non è quello di restare su questo letto.

 

Mi vestii in fretta e andai. Camminavo spedita, senza guardarmi intorno. Udivo solo il rumore dei miei passi. Ero quasi arrivata e la paura cominciava a farsi sentire. La pattuglia della polizia era ancora davanti alla cancellata, ma la gente era sparita. A parte qualche fanatico che si era accampato là davanti aspettando chissà che cosa.

 

Sei impazzita Joyce! Torna indietro! Hai avuto coraggio ad accettare quella sfida, sei forte, ma così non otterrai nulla!

 

Dovevo farcela. Potevo farcela.

Iniziai a scivolare lungo una strada laterale lungo l’alto muro che mi divideva dalla villa immersa nel verde. Non riuscivo a vedere nulla e scavalcarlo sembrava impossibile.

 

Che diavolo mi è saltato in mente!

 

Mi accorsi che nascosti tra gli alberi, c’erano dei grandi massi a terra, uno sopra l’altro, quasi a formare degli scalini. Forse è stato proprio Brian a metterli qui, per scappare da tutti quei giornalisti.

 

Ma che dici Joyce! Non male però come idea…

 

Salii su quei massi e riuscii ad arrivare in cima. Vedevo benissimo la casa e mi accorsi che in tutto quel buio riuscivo a distinguere un lume acceso. Senza pensarci troppo, saltai giù.

 

E’ fatta! Sono dentro!

 

Seguii quella luce che mi condusse dinanzi alla finestra di un’ampia stanza. Le tende m’impedivano di vedere bene, ma a un tratto passò davanti ai miei occhi. Proprio lui! Brian in persona.

Non riuscivo a crederci! Immaginai la faccia del direttore se solo mi avesse vista in quel momento: rabbiosa e minacciosa come un cane infuriato! Cercai di calmare l’emozione.

Bussai alla finestra, ma niente. Sentivo il cuore esplodere. Provai di nuovo, mentre con lo sguardo cercai di capire dove potesse essersi nascosto. All’improvviso, Brian era lì, davanti a me. Avevo i suoi occhi puntati addosso e per un istante nessuno dei due fece nulla. Decise di aprirmi e afferrandomi con forza, mi scaraventò a terra.

“Chi sei tu! Come sei entrata? Vattene subito o chiamo la vigilanza”.

 

Era furioso. Mi credeva una fan. E risposi nella maniera più assurda…

 

“Perché? Tu chi sei?”

A questo punto Brian mi guardò come se venissi da un altro pianeta.

“Vorresti farmi credere che non sai chi sono?”

Rimasi immobile a terra. Tremavo.

Frastornata dalla sua ira, mi guardai intorno. C’erano avanzi di cibo ovunque. Iniziai a tossire. L’odore di fumo mi stava intossicando.

“Io mi chiamo Joyce e… ma che diavolo posto è questo! E tu hai il coraggio di stare là dentro?”

“Io qui ci lavoro.”

Il suo sguardo cambiò. Come se non fosse successo niente, mi lasciò lì per terra e andò a sedersi al pianoforte.

Quel gesto improvviso riuscì a calmarmi. Non tremavo più. Mentre lui cominciò a suonare qualcosa, io mi alzai da terra e rimasi lì vicino, ad ascoltarlo.

“Tutto bene?” chiesi. “Sei un musicista?”

“No. Sono uno che vuole stare da solo”.

“Se vuoi, vado via… “ pronunciai queste parole senza volerlo. La sua pazzia mi aveva contagiata.

“Puoi rimanere, se vuoi. Davvero non sai chi sono?”

“No.”

Ma lui neanche mi ascoltava. Non posso dire che mi credesse o no. E’ solo che a questo punto non gliene importava niente. Aveva lo sguardo perso nel vuoto ed era come se stesse parlando da solo, come se volesse sfogare la sua rabbia. Io non feci alcuna domanda.

“Sai, sono convinti che io sia pazzo. Il genio e la sua follia, scrivono sui giornali. Idioti. Ci guadagnano tutti con quello che faccio, ma a loro non basta. Vogliono di più, più in fretta. Pazzo? Mi hanno sputato addosso e io ho solo detto che mi fermo qui. Fine della musica”.

Non riuscii a pronunciare nemmeno una parola. Mi resi conto che, senza fare alcuno sforzo, fu Brian a darmi ciò che volevo. O meglio: ciò che desideravo prima di entrare in quella stanza. Solo un’intervista e sarei tornata a casa. Ma avevo la sensazione che non era più quella a interessarmi.

“E’ tutto nella mia testa, Joyce! Ascolta!”

Iniziò a premere con forza quei tasti, come se stesse suonando a un suo concerto. In quel momento io ero il suo pubblico e non poteva deludermi.

“La scimmia suona, è pronto un altro singolo! Uno ogni tre mesi, come da contratto! Possono fare quello che vogliono, scrivere quello che vogliono. Mi volevano uccidere e io sono morto. Avanti con il necrologio, giornalisti del cazzo! Ingozzatevi. Da me non avranno più nulla”.

Quelle ultime parole mi uccisero. Trovarmi di fronte a lui, io! Io che ero lì come tutti gli altri! Interessata solo a guadagnarmi il successo. Stavo partecipando al massacro.

“Ci sarà un motivo non credi? Qualcosa che giustifichi tutto questo interesse verso te”.

“Smile. Mezzo milione di copertine stampate, ma il disco non c’é. I cani volevano l’osso e io l’ho sotterrato” si indica la testa “qui dentro”.

“Smile?”

“Ma da dove sei uscita? Da una caverna? I Beach Boys, Smile, l’album che doveva uscire da un anno…” mi soppesò con lo sguardo “perché mi prendi per il culo?”

“Forse ho sentito qualcosa alla radio, ma non ne so niente di musica. Il titolo mi piace. Smile. Mi fai sentire qualcosa?”

“No. Non c’è più nulla”.

“Forse hai bisogno di più tempo, di un pò di svago… prova a uscire!”

“Uscire? Stai scherzando? Una passeggiata la fuori? Nella gabbia dei leoni?”

“Adesso, non c’è nessuno lì fuori.”

“Che cazzo ne sai tu? Che ne sai di cosa c’é davvero là fuori?”

Avvertii lancinante la sua sofferenza.

“Forse hai ragione, è meglio che io vada via.”

Di colpo lui si irrigidì.

“Vuoi andare via?”

All’improvviso ebbi un’idea.

“Alzati Brian. Alzati, e chiudi gli occhi.”

Mi ascoltò e alzandosi chiuse gli occhi. Lo presi per mano. La finestra era rimasta aperta e una pioggia sottile aveva già bagnato tutto.

“Fidati di me. Cammina, ma non aprire gli occhi.”

Riuscii a portarlo in giardino, sotto la pioggia.

“Ora rilassati e lasciati bagnare da questo temporale. Senti la pioggia?”

“Sì. Sento freddo, ho i brividi.”

“Perché sei vivo”.

Di colpo aprì gli occhi e mi guardò. Mi fissò per qualche istante e abbassò la testa.

“Perché sei qui?”

“Cosa vorresti che dicessero su di te, Brian?”

“La verità”.

“E qual’è?”

“La paura”.

Sorrisi guardandolo.

“Ho messo tutto quello che sono in quella musica. Mi hanno guardato e hanno detto che sono solo un disco. Un pezzo di plastica. A me non è rimasto niente. Sono solo. Un punto nero, su un foglio bianco”.

Tornammo dentro, erano le 7 del mattino. Brian riprese a suonare, ma io non potevo più restare. Così lo salutai, lasciandolo lì, al suo piano.

 

Vorrei tanto ascoltarti ancora… Ciao Brian, stammi bene.

 

Presi le mie cose e andai via.

Presi il primo aereo diretto a Los Angeles e una volta a bordo iniziai a scrivere. Tutto quello che Brian avrebbe voluto leggere. La verità.

Arrivata a casa, avevo voglia di fare una doccia. Fredda. Infilai in fretta un paio di jeans e una t-shirt e andai in redazione.

Salii di corsa le scale e quando arrivai su, trovai la porta socchiusa. Non bussai stavolta.

 

Chissà se c’è quel cretino. Vediamo se ha ancora il coraggio di ridere!

 

Entrai ed erano tutti seduti al loro posto, ma non vidi il tipetto simpatico. Sentii una voce chiamarmi: “Dove sti andando?” non risposi.

Andai davanti al suo ufficio e trovai la porta chiusa. Aspettai un attimo e poi aprii.

“Ah bene! Non immaginavo di rivederti così presto… Comunque, se non sei riuscita a portare il pezzo, non te la prendere. Perché non provi alla redazione di Maglia e Cucito? E’ nel palazzo accanto…”

“Non vorrei deluderla, ma ho il pezzo. Intervista esclusiva con Brian Wilson”.

Lui mi guardò incredulo, poi mi strappo’ il pezzo di carta dalle mani.

Iniziò a leggere l’articolo, tutto d’un fiato. Più di una volta. A un tratto si fermò e rimase a pensare. Poi alzò lo sguardo. Sorpreso e spiazzato mi disse: “Joyce… l’hai scritto tu? Questa roba è vera?”

Mi limitai ad annuire convinta.

Lui prese il telefono per abbaiare l’ordine di cambiare la prima pagina. Subito arrivò qualcuno a prendere il dattiloscritto.

Il direttore si abbandonò sulla sedia guardandomi: “La prima donna nella mia redazione…”

Mi porse la mano. Mi sorrise. Per la prima volta sorrise, e io ero troppo felice.

 

Dopo qualche giorno: Smile

 

Toc Toc

“Chi è?”

Toc Toc

“Chi è?”

“Brian, sono Dennis. Il postino mi ha lasciato un pacco per te.”

“Eccomi arrivo.”

Aprii la porta, presi il pacco: “Grazie Dennis”.

Non era affatto pesante. C’era un biglietto. Era incastrato nello spago con cui era impacchettato.

“Con affetto, Joyce.”

Joyce! Chissà cosa mi ha inviato. Lo apro subito.

Togliendo la carta capii che era un giornale.

Che c’entra Joyce con un giornale?

C’era la mia foto sulla prima pagina.

 

LE VERITA’ DI SMILE

Non riuscivo a crederci. Sfogliando il giornale vidi due pagine dedicate al mio album, a me. A tutto ciò che avevo detto a Joyce. Alla mia verità che nessuno aveva mai scritto. Lei era una giornalista e me lo aveva nascosto. Ma ora, che importava.

Solo lei era riuscita a farmi sorridere.

Solo lei aveva conosciuto Smile.


DOLORE E GLORIA

California 1965

 

Casa Wilson respira. I coniugi Nik e Catherine sono partiti per le vacanze, Carl e Dennis sono sempre in spiaggia e Brian se ne sta in giardino a riposare, disteso sull’erba. Un forte legame lo unisce ai suoi fratelli ma Brian ama starsene da solo, passare anche intere giornate con se stesso, senza parlare. Forse senza nemmeno pensare.

Sono trascorsi tre anni dal loro debutto. Volevano chiamarsi The Pendletones,   ma qualcuno della casa discografica aveva deciso che il nome giusto era Beach Boys. Senza neanche dirglielo.

Ora le loro note invadono le spiagge della California. Canzoni che raccontano estati indimenticabili, di feste e giochi infantili. Era la metà degli anni ’60, i segnali dei grandi cambiamenti di quel decennio, la guerra in Vietnam, gli scontri razziali, le proteste di piazza, scivolavano loro intorno.

Brian è l’anima del gruppo. Ora non vuole suonare più, dopo che un esaurimento nervoso l’ha indebolito. E’ sempre stato lui a comporre musica e testi. Sono trascorsi tre giorni da quell’ultimo esame, che ha chiuso ufficialmente il terzo anno accademico. La laurea in Lettere all’Università di Berkley è il sogno di mamma Catherine e Brian decide di darle ascolto. Ama scrivere e inventare. Il giardino di casa sa molte cose di lui.

Disteso a guardare il cielo, riesce a raggiungere terre lontane, luoghi nascosti all’umanità. La sua mente produce milioni di note. Ogni istante. Niente a che vedere con i suoi fratelli, che si limitano a eseguire i suoi ordini: Brian compone i testi e loro si divertono sui palchi di tutta l’America. A lui sta bene così.

Nel giro di qualche anno, i Beach Boys collezionano un successo dopo l’altro, ma Brian vuole qualcosa di più. Vuole la musica. Questo lo tormenta.


 

Milano 1965

Ore sette, suona la sveglia. Con quel fastidio sonoro un nuovo giorno ha inizio. Non è facile lasciare il letto caldo. Lei se ne sta lì, con gli occhi socchiusi per almeno cinque minuti, il tempo di godersi un po’ il risveglio. Scende dal letto e va in cucina a preparare la colazione. Latte macchiato e un pezzo di crostata per suo zio, cappuccino e cereali al cioccolato per lei. Gloria adora fare colazione. Accende la radio e segue i notiziari del mattino. Poi comprerà il giornale. Si diverte a leggere le stesse notizie raccontate in modo diverso. Lo stesso fatto raccontato in modi differenti, a volte anche stravolto. Quanto ama però quel mondo. Da sempre vuole scrivere, raccontare e scoprire. Si lascia travolgere da romanzi di ogni genere e il suo piccolo appartamento scoppia di libri. Ricorda ancora sua madre quando si arrabbiava per tutti quelli che comprava ogni settimana. Diceva che un giorno li avrebbe fatti sparire. Quel giorno non arrivò.


 

Un anno prima

Gloria studia Lettere all’Università Cattolica di Milano. La signora Vittoria lavora molto per mantenerla agli studi. Insieme a papà Michele sono orgogliosi dei suoi ottimi risultati. Nel loro piccolo appartamento in centro Gloria ci vive da quando era bambina, insieme ai suoi genitori, a sua sorella maggiore Cristina e a suo zio Raffaele, colpito da una forma di depressione acuta. Cristina se ne andò via di casa prima che lo zio si ammalasse. Sposò un americano per poi trasferirsi in California.

Gloria ha un rapporto speciale con sua sorella: si scrivono spesso, ma non è mai riuscita ad andare a trovarla in California anche se si è impegnata a studiare l’inglese, aspettando il giorno in cui andrà da lei. Gloria ama anche zio Raffaele: lo accudisce quando Vittoria è fuori per lavoro e, se può, trascorre il suo tempo libero con lui. Di tanto in tanto gli legge i suoi libri preferiti e se è il suo giorno fortunato, riesce a strappargli un sorriso. E’ una ragazza paziente. E’ convinta di avere tanto amore da donare agli altri. Si sente innocente e speciale, diversa da molte altre ragazze. Ama il suo mondo, la sua famiglia e non desidera nient’altro di più.

Esplodeva di gioia il giorno in cui festeggiarono il suo ventitreesimo compleanno e l’eccellente promozione all’ultimo esame che chiudeva un faticoso ciclo di studi. Ormai le mancava solo la tesi. Era davvero felice. Non sapeva però che il numero ventitré, avrebbe cambiato la sua vita.

 

La notte del 23 agosto 1964 la Polizia le comunicò che mamma Vittoria e papà Michele erano morti. Un incidente. Uccisi nella loro auto, sulla Statale trentasei, mentre tornavano da un soggiorno sul Lago di Como.


 

Today

Continua a scrivere Brian, senza fermarsi mai. E’ uscito l’ultimo album intitolato Today che tra i vari singoli contiene Help me Rhonda, un capolavoro di contrappunto vocale. Il sole della California influenza le loro produzioni, tanto che a Luglio regalano ai fans California Girls uno dei manifesti del loro modello di vita. Fieri di cotanto successo pensano a godersi il loro momento di gloria. Feste, soldi e tante ragazze. Che cosa chiedere di meglio. Eppure a Brian non va. Rimane spesso in casa, mentre gli altri si divertono in ogni angolo della California. Rifiuta gli inviti di molte ragazze che vorrebbero conoscerlo, incontrarlo.

A chi gli chiede :”Cos’hai?” risponde:”Ho bisogno di tempo”.


 

Niente extra per lei

Sono mesi ormai che lavora alla tesi. Il Professor Riva, docente di Giornalismo Internazionale, è il suo relatore. Conosce Gloria da diversi anni, riconosce in lei ottime capacità e ammira la forza con cui ha affrontato la perdita dei genitori. Non ha smesso di studiare e a breve riuscirà a laurearsi. Nel frattempo ha trovato lavoro in una pizzeria. Riesce a mettere da parte i soldi per continuare a studiare. Niente extra per lei. La piccola pensione di zio Raffaele non le è d’aiuto, con tutte le medicine che gli deve procurare. Dicono che la depressione faciliti l’arrivo di altre malattie. Quella che è arrivata a zio Raffaele è terminale. Solo qualche mese di vita.

E’ quasi estate ormai. Non per Gloria. Zio Raffaele è sempre più debole e il giorno della laurea si avvicina. Passa intere notti su quei libri e di tanto in tanto, in preda al panico, chiama il Professor Riva che cerca di tranquillizzarla. A volte rimane immobile sulla sedia a guardare nel vuoto. Inizia a pensare a quello che le è successo. Non trova le parole adatte, non trova una spiegazione. “Perché proprio a me?” si chiede. Non riesce a piangere. Nemmeno più una lacrima ha bagnato il suo viso e nulla la fa emozionare. Si sente in colpa anche per zio Raffaele. Crede di non esserle stata vicina, di non averlo più ascoltato. Sta morendo e lei non può fare nulla. Stamattina non ha voglia di fare colazione.

Il giorno della discussione della tesi. Si prepara. Esce di casa. Percorre quel tratto di strada da cinque anni ormai. Forse questa è l’ultima volta. Le solite case, gli stessi negozi, e tanto traffico. Qualcosa però è cambiato. Arriva all’università, sola, con la sua tesi. C’è il Professor Riva ad aspettarla. “Stai tranquilla” le sussurra all’orecchio: “Sei tra le prime in lista”. Dopo qualche minuto la chiamano. Si fa forza ed entra. Tutto d’un fiato espone le sue ricerche, sicura del lavoro svolto. La guarda e sorride il Professor Riva, fiero di lei. Gloria ha terminato lasciando tutti di stucco. Qualche minuto fuori dall’aula in attesa che la commissione deliberi e la richiami. Massimo dei voti e la lode. Il Professore non esita a regalarle un caloroso applauso, coinvolgendo tutti i presenti. “Sei stata bravissima!”

Ringrazia il Professore e va via. Ripercorre in fretta la strada verso casa. Avverte un brivido lungo la schiena. Piange e pensa a mamma Vittoria e papà Michele, a quanto sarebbero stati fieri di lei.

Nei giorni a venire pensa e ripensa a quello che ha fatto. Il lavoro in pizzeria la distoglie da tanti cattivi pensieri ma basta poco per tornare alla realtà. Si prepara a perdere di nuovo un pezzo di sè. I medici non si sono sbagliati. Arriva presto la mattina senza zio Raffaele. Non si è svegliato. E lei non gli ha più preparato la crostata e il caffè. Non lo ha più salutato uscendo per andare a lavoro. Gloria è sola, con la vita davanti e il deserto alle spalle. Solo qualche giorno dopo la sua morte ha il coraggio di riordinare la sua stanza. Libri, appunti e tante foto, proprio quelle in cui c’erano tutti: Vittoria, Michele, Cristina, Gloria e lui, zio Raffaele. Ne aveva una nel cassetto del comodino, la sua preferita. Gloria la prende e si accorge che sotto c’è una catenina d’oro con un ciondolo. Mai vista prima. C’è una scritta su quel ciondolo.

Gloria ha le lacrime agli occhi. Sorride. Legge quelle parole e pensa che zio Raffaele aveva ragione. “Grazie zio. Queste parole saranno la mia forza”.

Ora il ciondolo brilla sul suo collo.

 

C’è sempre molta gente il sabato sera e Gloria non ha fretta di finire il lavoro prima dell’una. Non le va di tornare a casa. Ci passa meno tempo possibile. La telefonata le arriva in pizzeria. E’ il Professor Riva.

Gloria: “Pronto?”

Prof. Riva: “Salve Gloria, sono il Professor Riva. L’ho cercata a casa, ma non risponde mai. Mi perdoni se la disturbo al lavoro”.

Gloria: “Non si preoccupi Professore, mi dica. E’ successo qualcosa?”

Prof. Riva: “Sì. Qualcosa di importante per lei. Abbiamo un programma di interscambio con l’università di Berkley, in California. L’hanno scelta fra gli studenti laureatisi quest’anno nella nostra Università. Le offrono una borsa di studio in Giornalismo Internazionale, per merito degli ottimi risultati conseguiti. Se accetta, il corso inizia a Ottobre e lei ha tutto il tempo per organizzarsi. Congratulazioni!”


 

Nuovo anno alla Berkley’s University

I Beach Boys sono in tournée quando Brian riprende a studiare. Ha inizio un nuovo anno alla Berkley’s University e lui non vuole farsi cogliere impreparato; ma quel pensiero continua a tormentarlo. Sono mesi che ci pensa. Sta male. Si è stancato delle solite canzoni, sente il bisogno di creare qualcosa di diverso. Di forte. Trascorre intere giornate a pensare, chiuso in camera sua. Di giorno in giorno il suo corpo prende peso e Brian avverte ancora quel forte senso di solitudine, di vuoto.


 

Metà Settembre

Tutto era pronto. Il giorno seguente Gloria non esita a scrivere a Cristina per comunicarle la meravigliosa notizia. Finalmente qualcosa di buono per lei. Finalmente un po’ di felicità. Ha bisogno di soldi però, quindi decide di lavorare notte e giorno in pizzeria.

Metà Settembre. E’ il giorno della partenza. Un volo per New York e poi San Francisco. E’ la prima volta che sale su un aereo. E’ la prima volta per tante cose. Gloria lascia in Italia tutto il suo dolore, pronta a vivere una nuova vita. Pronta a vivere davvero. Cristina e suo marito l’attendono con ansia e al suo arrivo non aspettano un minuto ad abbracciarla. Le piace Berkley ed è ansiosa di entrare nel campus.

Tra una settimana sarà il primo giorno di lezione.


 

Terza fila, in alto a destra

Non ho grandi amici nel mio corso. In gran parte sono ragazzini pronti a scherzare su ogni banalità. Il primo giorno di lezione è difficile trovare un posto vuoto in aula, ma quest’anno sono stato fortunato. Terza fila, in alto a destra. Mi avvicino e vedo una ragazza proprio accanto al posto vuoto, il che dovrebbe infastidirmi, ma stranamente voglio sedermi proprio lì. La osservo un po’ prima di raggiungerla: non da voce a chi le sta accanto, cerca di leggere un libro in mezzo a tutto quel caos. Sono vicino a lei. Qualche ragazza mi riconosce, mi ferma e mi chiede un autografo, ma lei niente. Non si accorge di nulla. Non si accorge di me.

Mi siedo, mi volto e le sorrido.

 

Brian: “Ciao. Io sono Brian, piacere di conoscerti”.

 

Gloria: “Ciao Brian, il piacere è mio. Io sono Gloria”.

Ha un accento italiano, continuo a farle domande. Mi dice di essere di Milano; ha vinto una borsa di studio in giornalismo qui alla Berkley. Pensa te, vuole fare la giornalista. Io odio i giornalisti quanto quelle stupide fan. Ma lei non sembra così sciocca. Ha una sorella in California, è arrivata da poco. E’ la sua prima volta che esce dall’Italia. Le piacerebbe vedere San Francisco. Anch’io la incuriosisco. Mi rivolge qualche timida domanda. Le rispondo vagamente. Preferisco sia lei a parlare, ma non riesco a sentire le sue parole. Mi perdo nei suoi occhi, ogni suo gesto cattura la mia attenzione. Come quel ciondolo d’oro che ha sul collo. C’è scritto qualcosa ma non riesco a leggere.

“Cosa c’è scritto sul tuo ciondolo?”

Lo copre in fretta con la mano. “Niente di importante. E’ solo un ciondolo”.

Mente. Non le chiedo altro, ma sono curioso. Devo capire cosa nasconde quell’incisione.

 

Da quanto ho capito non sa nulla di me e dei Beach Boys. Mi piace. La invito a uscire dopo la lezione e lei non rifiuta. Le ho promesso che le farò vedere ogni angolo di San Francisco e sono sicuro che riuscirò a stupirla.

Decidiamo di mangiare un panino mentre passeggiamo. Sembra una bimba. Si stupisce di ogni cosa. E’ bellissima.

Ci sediamo su una panchina. Mi metto accanto a lei. Tanto vicino da farla allontanare un po’. Quella distanza la mette a disagio.

D’improvviso inizia a parlare come mai prima d’ora. Lo fa cercando di nascondere l’imbarazzo. Non ci riesce.

Il mio sguardo fermo la emoziona ancora di più. Si blocca. E’ in quella breve pausa che la bacio. La stringo forte e lei si lascia baciare.

Mi stacco e la guardo. Ha gli occhi lucidi e sorride.

Ora le sono vicino. Vicino alla sua bocca, ai suoi occhi, a quel ciondolo.

“Chi ti ha fatto questo regalo?” cambia subito espressione, il suo volto si fa triste.

“Una persona cara. Una persona importante”.

“Ma c’è inciso qualcosa?”

“Si. Un pensiero. Un ricordo. Qualcosa in cui credo”.

“Posso leggerlo?” Ci pensa un po’ e poi mi avvicina il ciondolo, tenendolo in mano. E’ in italiano. Lei me lo traduce: “Ti svelo un segreto: tutti i migliori sono matti”.

Cosa? Perché mai questa frase. E’ malata? Chi gliel’ha regalato? E perché?

“Che vuol dire?”

“Questo era di mio zio è morto prima della mia partenza. Soffriva di solitudine. Aveva paura di tutto, era sempre ansioso, angosciato. La depressione l’ha ucciso”.

Rimasi immobile. Le sue parole mi entrarono dentro, come un pugnale. Non riuscivo a credere a quello che avevo appena sentito.

“Che hai Brian, tutto bene?”

Lei stava parlando di me. In quelle parole c’ero io. Con la mia depressione, le mie paure, le mie insicurezze. Lei non lo sa.

“Niente Gloria. Mi dispiace per tuo zio ma credo si sbagliasse”.

“No” risponde lei decisa. Mi guarda, chiusa in un silenzio determinato. Stringe la medaglietta nel pugno. Poi ripete: “Ti svelo un segreto: tutti i migliori sono matti”.

Come se mi leggesse dentro aggiunge: “E’ sbagliato sentirsi gli unici a soffrire”.

Ma che mi succede? In un attimo sembra che tutto sia senza senso. Le mie paranoie, la solitudine, tutto! Mi sento strano. Che mi stai facendo Gloria.

La guardo e vorrei contraddirla, ma qualcosa mi blocca. Forse ha ragione.

 

Torno a casa e tutto mi appare diverso. I mobili, le stanze, persino il soffitto! Tutto ha un’aria nuova. Tutto mi parla di lei.


 

SMILE

Trascorrono le ore, i giorni e qualche mese ma Gloria continua a essere il centro di ogni mio pensiero. Ora lei sa chi sono. Le ho raccontato tutto, dei Beach Boys, della depressione, della mia passione, la musica. Da quando c’è lei, ho ripreso a suonare insieme alla band e mi segue in ogni concerto. Voleva vedere San Francisco e ha visto tutta l’America.

 

Quel pensiero non mi tormenta più. Non soffro e riesco a dormire e non amo più starmene da solo. Dopo mesi di lavoro in studio ho prodotto un nuovo album: Smile. Solo musica, quella che avevo in testa, che non riusciva ad uscire. L’ho dedicato a lei, al suo sorriso. A detta di tutti è un capolavoro senza precedenti, è in vetta alle classifiche in tutto il mondo.

 

Gloria mi ha portato a Milano, giusto il tempo di salutare il Professor Riva e fare un salto al cimitero. Mi ha raccontato di quanto ha sofferto, dei suoi genitori e di suo zio Raffaele; della sua vita in Italia, del suo lavoro e della sua solitudine. Deve essere stata dura per lei, ma chi meglio di me può capirla. Ora però non ci pensa più.

 

Decido di lasciarci alle spalle tutto e di vivere insieme. Per sempre. In un mondo diverso. Che se non avessi incontrato Gloria, per me non sarebbe mai esistito.