UN LEONE ALLA DERIVA

La nave andava. Quelle onde tranquille e regolari scandivano un tempo che non aveva fretta di trascorrere, rendendolo ancora più insofferente.
Il mare ondeggiava placido e il suo cuore martellava di dolore. La natura aveva il suo ritmo e lui non poteva seguirlo. Si sentiva estromesso dalla quieta pace di quell’ oceano di beatitudine che lo circondava ovunque. Relegato nell’angolo della vita per una colpa indelebile: quella di non saper amare.
Ci aveva provato. Ma era andata male.
Una parte di lui urlava senza voce contorcendosi di dolore. Ma l’altra tirava un sospiro di sollievo.
L’amore era così, estasi e terrore.
Una linfa miracolosa che accende di vita ogni senso. Una linfa che potrebbe però essere negata in qualsiasi momento. Potresti più farne a meno? Potrai?
La vita aveva brillato. Ora era di nuovo il buio della solitudine.
Un cuore che non ama è un sole che non splende, un fiore che non profuma, un uccello che non canta.
Perché quella nave lo stava allontanando sempre di più da lei? Perché non gli era concesso di fluire con le onde, finalmente felice e appagato?
Perché non poteva anche lui essere dentro la vita? Cosa avrebbe dovuto fare diversamente?
Quella frase, quel gesto, quello sguardo, erano stati loro la causa di quell’ esilio straziante?
Lei si era già rituffata nel mare e lui un naufrago alla deriva verso un’isola arida e deserta.
Ma quella parte di lui che godeva sadicamente di una simile sofferenza, quella parte che affondava sempre più crudelmente la lama nel suo cuore incrinato, quella parte maledetta, da dove nasceva? E se fosse stata lei la causa di tutto?
Se, fin dall’inizio, avesse tramato nell’ombra perché venisse scritto un tragico finale?
Perché permetteva a quella parte di decidere per lui? Perché aveva affidato a lei la sua felicità?
Doveva smascherarla e ucciderla o lei avrebbe ucciso il suo già flebile cuore.
Ma la temeva. La sentiva forte, cattiva e determinata.
La sirena della nave urlò.
Si destò dai suoi pensieri.
Andò in cabina e dormi’ un altro sonno di lugubri sogni senza fine.
Due leoni si stavano fissando. Uno bianco, magro, ferito e tremante era rinchiuso in un’ angusta gabbia. L’altro nero, feroce e avido di sangue ruggiva libero oltre le sbarre. Appesa al collo una catena dalla quale pendevano una chiave dorata e un coltello affilato.
La paura rendeva fetida l’aria.
Salito su un albero si accorse che le sbarre non avevano nulla intorno e che il leone bianco era in realtà libero.
Dietro il leone nero una cassaforte di cristallo custodiva un cuore pulsante.
Sullo sfondo uno schermo proiettava freneticamente le immagini del suo passato; persone, tradimenti, dolori, aspettative infrante.
Si destò.
Lì, sperduto e solo, doveva scontare una colpa indelebile: la paura di amare.


UNA MINUSCOLA STELLA

Il buio era impenetrabile. Come avesse gli occhi chiusi. E avere gli occhi chiusi, da svegli, costringe a guardarsi dentro.
Nel silenzio senza uscita della notte, neanche un rumore al quale aggrapparsi per fuggire da se stesso.
L’inquietudine era in agguato.
Il pericolo non era di vedere la sua ombra. Per vedere la sua ombra sarebbe servita un po’ di luce. Il pericolo era scoprire che l’ombra era dentro di lui. Forse lui stesso era ombra. Un’ombra mascherata da uomo. Ma se, in quel buio che lo bloccava dentro se stesso, non poteva usare un gesto, un sorriso, fosse anche inventato, una parola destinata a perdersi nel nulla, cos’altro gli rimaneva per distrarsi?
Anche respirare sembrava pericoloso. Come se attraesse quell’oscurità pesante verso di lui, ad opprimerlo ulteriormente.
Avrebbe voluto scomparire agli occhi invisibili che gli stavano dissezionando l’anima ma, al tempo stesso, era terrorizzato al pensiero che potesse davvero scomparire, annullarsi e non essere mai più.
Forse poteva tentare di sfuggire a quell’orrore surreale pensando a qualcosa. I pensieri sanno fare baccano. Sono un diversivo perfetto per nascondere fastidiose verità.
Certe volte era in grado di costruirsi una realtà del tutto nuova nel mondo dei pensieri; un sogno lucido e perfettamente controllato dai suoi più intensi desideri. Così vivido da trascinarlo in un’estasi beata che lo pervadeva interamente, illusione di felicità. Fantasie nelle quali era tutto ciò che aveva sempre voluto essere e possedeva tutto ciò che aveva sempre voluto possedere.
C’era, però, un prezzo alto da pagare per quei fugaci momenti di autoipnotica realizzazione. Perché, a un certo punto, la fantasia si esauriva e il sogno, inesorabilmente, sfumava come un bellissimo film che sappiamo in procinto di finire. Ad un certo punto arrivano i titoli di coda e dobbiamo tornare alla realtà, sputati fuori dalla magia della pellicola. E la delusione della vita vera sembra ancora più dolorosa dopo la perfezione di un sogno così.
E prendere coscienza che quell’emozione era solo illusione senza sostanza lasciava una scia di malinconia, a volte per ore e ore. Perché le fantasie perfette sono come quelle torte che si vedono sui libri di cucina. Splendide opere d’arte che vorresti avere subito davanti per affondare un morso e assaporare il gusto della bellezza. Ma sai benissimo che, se proverai a cucinarla, per quanto tenterai con fatica e dedizione di seguire la ricetta, non verrà mai così bella come nella foto. Né sarà mai così buona come avevi sperato.
Basta. Non ce la faceva più. Stava per impazzire o, peggio, piangere.
In fondo non era buio ovunque, quell’oscurità non era assoluta. Non lontano da lui c’era vita. Le tre di notte. Beh, qualcuno ancora beveva in qualche locale, il metronotte e il netturbino percorrevano le strade, forse qualcuno passeggiava col cane. Doveva solo riconnettersi con la vita.
Sarebbe uscito in balcone.
Era aprile, non faceva poi così freddo. Anzi, un po’ d’aria che lo pungesse in viso gli avrebbe fatto riprendere il controllo, scacciando quei fantasmi d’angoscia.
Cosa c’è di più reale dell’aria?
L’aria la senti. L’aria ti tiene in vita. Forse è la vita stessa. Ma non si sa mai che aria tira. Questo è il guaio. Non era mai stato bravo a prevedere il vento né dove lo avrebbe portato.
Aprì la finestra e andò sul terrazzo.
Eccola, una via d’uscita; alzare lo sguardo. Cambiare visuale.
Dal buio nero della stanza ora, magicamente, ritrovarsi nel buio trapuntato di stelle del cielo sopra di lui. Il buio non era più paura e fine. Era una tela sulla quale miliardi di luci scintillanti potevano brillare, avvolgendo di infinito l’universo intero.
Andava tutto bene.
Finalmente i polmoni si rilassavano, riempendosi di fresco.
La notte era tranquillità e riposo, un tappeto di stelle da usare come soffice coperta.
Perché si era tanto angosciato?
Che bambino! Rise di sé. Era un uomo, per la miseria. Ci voleva un po’ di contegno. E sorrise di nuovo.
Fece per rientrare e godersi, finalmente, il meritato riposo che da troppo lo attendeva.
Ma, abbassando lo sguardo, gli occhi passarono bruscamente dallo scintillio del cielo all’oscurità del giardino sottostante.
E fu di nuovo buio.
Era davvero tutta questione di dove si posavano gli occhi.
Ma non si poteva passare la vita con lo sguardo all’insù. Il collo, prima o poi, avrebbe fatto male. Era destinato alla terra. E al suo buio.
Vivere laggiù e non in quel cielo acceso di speranza.
Guardò quel buio che, solo per abitudine, sapeva essere un bel giardino fiorito. E fu tristezza.
Gli occhi pesanti, il torace dolente, la testa confusa. Avrebbe pianto. Avrebbe pianto e sarebbe stata la fine.
Si sarebbe più risollevato?
Quando già una lacrima stava bagnando la sua vista, la vide. Una stella, proprio davanti a lui. Una minuscola stellina che si accendeva e spegneva fluttuando nel buio della sua disperazione.
La vita era di nuovo magia. Possibilità. Un’alba non troppo lontana.
Quella lucciola lo aveva salvato.
Quella piccola, bellissima creatura brillava per lui e accendeva il suo cuore stanco. Lei non lo sapeva, lei volava e basta, ignara del suo addome trasparente nel quale un enzima del suo sangue stava reagendo con l’ossigeno, producendo quella luce fredda pur capace si scaldare un’intera anima sperduta su un terrazzo.
Eppure era il suo angelo. In quella difficile notte, aveva custodito, per lui, tutta la luce dell’universo e l’aveva dedicata a lui. Da domani avrebbe potuto essere anche lui come quella lucciola. Avrebbe vissuto e, brillando, avrebbe illuminato la rassegnazione altrui.
Forse un giorno ogni uomo sarebbe stato una lucciola e ognuno avrebbe brillato per l’altro.
Con quella minuscola lucina nel cuore, si addormentò. Felice.


CONTROVENTO

Il vento. Il mare. Le nuvole. Il freddo. Grigio ovunque. Una fitta pioggia cadeva. Fitta e spietata. E quel vento. Il più forte che avesse mai tirato da quelle parti. C’era mai stato un vento così? No, forse no. Il rumore delle onde. Come un megafono, il vento lo trasportava fin lassù a ricordargli che, sotto quelle raffiche, il mare infuriava, arrabbiato. Da dove si trovava tutto sembrava essersi fuso in un umido, freddo grigiore. Mare, vento, pioggia, nuvole. Tutte le forze della natura parevano ergersi tra lui e la sua meta.
Ce l’avrebbe fatta? Cosa poteva, lui, contro quel vento e il suoi terribili alleati? Se ci fosse stato solo il vento, forse…ma quelle onde così alte e quelle nuvole così minacciose lo rendevano ancora più invincibile e invalicabile. Un muro d’aria determinato a respingerlo con ogni mezzo a disposizione degli elementi.
Contro aria e acqua aveva solo il suo fuoco per cercare di approdare alla terra oltre la baia.
Sarebbe stato difficile. E faticoso. E doloroso.
Ma le piume già fremevano, il cuore palpitava pronto a scandire il ritmo del volo, le ali ormai in posizione.
Non c’era davvero alcun motivo per aspettare ancora. Non si poteva indugiare oltre.
Il volo chiamava.
E al richiamo del volo non si poteva opporre resistenza. Era nato per volare.
Spostarsi dalla roccia sulla quale le zampe poggiavano sicure ad un’altra roccia al di là del vento era necessario. Un dovere. Un inesorabile dovere.
Come il vento non poteva che soffiare, lui non poteva che volare.
In fondo, non poteva neppure scegliere dove andare. Le sue ali lo sapevano per lui. Lui doveva solo obbedire, volare e andare là dove era deciso che andasse.
Le zampe ora si stavano flettendo per permettergli di avere la spinta necessaria, le ali si ripiegavano sul corpo per potersi poi dispiegare, il collo si stava stendendo per portare il becco in avanti a fendere l’aria.
Proprio mentre iniziava a sentire l’adrenalina scorrergli nel sangue in procinto di esplodere nella lucida follia di un volo impossibile e solitario, in quel minuscolo istante prima di spiccare il volo, quell’eterno istante al di fuori del tempo, fu colto da un pensiero. Non un pensiero. Un’intuizione profonda, viscerale, agghiacciante ed esaltante al tempo stesso. Una nuova e inaspettata prospettiva.
E se non avesse volato? Oppure se avesse scelto un’altra destinazione? Poteva anche aspettare che quel vento si placasse. Poteva camminare? O chissà, nuotare?
Nuotare! Che assurdità..non era mica un pesce! Lui era un gabbiano. E i gabbiani volano. Hanno sempre volato e sempre voleranno. E non si fermano certo perchè soffia un vento spaventoso. E non si soffermano neppure a decidere dove vogliono andare perchè la loro meta è già decisa quando loro sono ancora dentro l’uovo e, da quando l’uovo si schiude, non potranno che obbedire alla Legge dei Gabbiani.
E i gabbiani volano. Volano dove le loro ali li vogliono portare, piaccia o no. Così è stato, così è e così sarà per ogni gabbiano nei secoli dei secoli.
Camminare, fermarsi, decidere, nuotare….quanto era stato ridicolo quell’impeto di speranza.
Provò per se stesso un misto di tenerezza e ripugnanza per essere stato così patetico.
Come poteva un piccolo, insignificante gabbiano cambiare la sua vita anche se era una vita che spesso lo faceva sentire triste, solo e impaurito?
Chissà se anche gli altri gabbiani si sentivano come lui? Se fosse stato così, in fondo, non sarebbe stato davvero solo, ma unito a tutti i gabbiani che si sentivano come lui e sarebbe stato reso più forte e coraggioso da quelle moltitudini di cuori disperati che battevano accanto al suo e, da essi, avrebbe tratto la forza per liberarsi dalla schiavitù della Legge dei Gabbiani e, liberando se stesso, avrebbe liberato tutti gli altri gabbiani incatenati come lo era lui.
Immaginò l’estasi di trascinare verso la libertà e la speranza tutti quei gabbiani disperati e sentì l’Amore esplodergli dentro, in ogni cellula e traboccare dal suo cuore fino a bagnare i suoi occhi di calda emozione e pura gioia.
Ma quell’Amore non era forse reale? Quell’estasi non era forse più forte della Legge dei Gabbiani?
Sì, poteva. Poteva. Poteva essere padrone e artefice della sua vita.
Volare o non volare.
E se avesse deciso di volare, avrebbe volato per il piacere di farlo, avrebbe, finalmente, goduto del sole, della velocità, assaporato il divertimento di dominare l’aria in compagnia delle nuvole.
C’era una gran bella differenza tra volare per volontà e volare per dovere.
Andare a destra o andare a sinistra. Fermarsi o procedere.
Poteva solo, meravigliosamente, Essere.
Perché ci aveva messo così tanto a capirlo? Perché non aveva scoperto prima la sua essenza?
Perché aveva creduto a quell’assurda e innaturale Legge dei Gabbiani?
Eppure era tutto così meravigliosamente semplice e vero.
E proprio mentre si nutriva della sua nuova consapevolezza, un urlo lontano lo riportò con violenza su quella roccia sferzata dal vento.
Strizzò un po’ gli occhi per vedere oltre la pioggia. Gli sembrò di scorgere…sì…era un gabbiano che volava disperatamente verso l’altra sponda della baia.
Sentì nuovamente tutto il freddo del vento e della pioggia e il suo cuore si raggelò di nuovo.
Dov’era il calore dell’Amore?
Dov’era la sua Volontà?
Rimaneva solo la desolazione di essere un gabbiano come quello che vedeva lassù.
E i gabbiani volano dove le ali devono andare.
Una lacrima di dolore scese sul becco.
E poi volò.
Il vento lo respingeva indietro, il freddo intorpidiva le sue ali. E mantenere la rotta sembrava un’impresa al di sopra delle sue forze.
La sfida tra lui e la Vita era ripresa. E lui era solo a combattere là fuori, dove nessuno lo vedeva, nessuno lo incoraggiava. E, se fosse arrivato, nessuno lo avrebbe consolato della fatica fatta né lo avrebbe stretto a sé per dirgli: bravo, sei stato coraggioso.
Volava, e lottava.
E dopo questa battaglia il domani avrebbe portato con sé solo altri voli. E altre battaglie.
Lui era solo un gabbiano. E i gabbiani devono volare.
È la Legge dei Gabbiani.