Pensi sempre che non posso capitare a te… o peggio ancora, a chi ami, alla tua famiglia, alle persone per cui daresti l’anima. Sei disposto a offrire aiuto, supporto, coraggio, tempo, attenzione agli altri, alle persone di cui compatisci dolore e sofferenza con tutta la tua forza, ma e’ una forza che deriva solo dalla consapevolezza che sei per fortuna solo testimone, spettatore. La tragedia, la disperazione, l’angoscia….. no quelle non sono per te. Non sei tu che devi farci conto ogni giorno , ogni singolo momento della tua vita rivoluzionata.

Poi accade. E la parola cancro attanaglia la tua gola. Niente ha allora piu’ lo stesso significato, e’ come se venissi sbattuto d’improvviso inconsapevolmente, involontariamente in una dimensione parallela a quella della vita normale che ti sfila affianco e che non riesci piu’ ad afferrare. Perche’ la tua vita non e’ piu’ normale.

E’ stato cosi’ quando mio padre si e’ ammalato.

Ho ancora impresso nella mia mente ogni singolo crudele infinito istante del pomeriggio in cui io e la mia famiglia pronunciammo per la prima volta la parola cancro.

Mio padre era ricoverato da un paio di giorni in clinica per degli accertamenti medici. Non aveva ancora compiuto 63 anni. Non era un uomo capace di spaventarsi. Ed era sempre stato un uomo forte, razionale, equilibrato. Con un sorriso sornione, teso fondamentalmente a rassicurare la mia mamma sempre troppo ansiosa ed apprensiva, aveva accettato di effettuare i controlli necessari a comprendere il motivo per cui ,al rientro da una settimana di mare, aveva cominciato ad indebolirsi e a soffrire di dolori addominali

“Metastasi” aveva detto il medico internista quel pomeriggio. Tombale. Definitivo.

E lo aveva detto per primo a lui, al mio papa’, in un pomeriggio caldo e assolato, in una silenziosa e anonima stanza ospedaliera.

Mio padre era rimasto calmo e aveva telefonato a mia madre , fino a quel momento in attesa con me inconsapevole, al riparo ombroso di una panchina la’ fuori, nel parco antistante la casa di cura.

E lei aveva iniziato a correre.

Ricordo questo, ferale, devastante, penoso. La sua corsa.

Aveva iniziato a correre verso la clinica, senza nemmeno dirmi una parola, una sola. Piangeva e correva. Ed e’ stato allora che ho capito.

Ho il triste primato d’esser stata l’unica ad aver subito capito. Toccava a noi questa volta

Li’ in quel momento, da allora in poi….toccava a noi…soffrire, lottare, sperare. Ma senza speranza.

Perche’ io lo sapevo….non so spiegarvi come ma si’ io lo sapevo….avrebbe vinto lui. Il cancro.

Mi e’ stato chiesto spesso perche’ io sia stata fin dall’inizio pessimista, negativa, cruda.

Non lo so, cazzo non lo so, non ho mai saputo rispondere a questa domanda.

Avevo solo capito che era arrivato il momento di pagare pegno. La vita della mia famiglia ci presentava il conto. E noi li’ burattini di una tragedia scritta dal destino potevamo solo rincorrere qualche pallida speranza di poter essere piu’ forti della malattia, di poterle rubare tempo….. perche’ solo di tempo si trattava .

E’ allora che mi sono spenta, proprio in quel pomeriggio d’estate. Ho perso un pezzo di me…..un pezzo che mai sarei stata in grado di ritrovare.

E’ allora che ho eretto il mio muro piu’ alto verso il mondo al di fuori del mio dolore. Non ne avrei parlato, non sarei mai riuscita a farlo. Io guardavo.

Guardavo.

Ho affiancato mia madre e mio padre da quel pomeriggio in poi in ogni decisione presa….ogni ricerca, affannosa, disperata, speranzosa…non c’e’ stato articolo che non abbiamo letto, medico cui non abbiamo telefonato, visite ed esami che non abbiamo prenotato. Aggredivamo il tempo. Perche’ con la rabbia della disperazione soffocavamo il grido di dolore che ci scavava l’animo.

Mio padre e’ stato visitato, analizzato, preso ostaggio dalla medicina oncologica nel corpo e nell’animo.

E non l’ho mai visto piangere. Mai. Ha sempre e solo voluto non fossimo noi a farlo. Ci voleva forti. E protette.

Non ho mai avuto la forza ed il coraggio di chiedermi cosa provasse davvero dentro di se’.

Ricordo bene il suo calmo sorriso la mattina in cui venne operato a Milano. Entro’ da solo in sala operatoria camminando con una buffa andatura impacciata dalle ciabatte indossate , in un camice troppo grande e spoglio.

E’ stata l’ultima volta in cui l’ho visto camminare sulle proprie gambe.

Un intervento infinito….un postoperatorio assurdamente complesso e crudelmente sofferto. Come se quel dannatissimo cancro si fosse aggrappato ad ogni fibra del suo corpo e non volesse piu’ abbandonarlo, come se volesse infierire sulla forza fisica di mio padre per umiliarla e renderlo malato come tutti gli altri.

Non ne abbiamo mai parlato. Io e mio padre intendo. Non abbiamo mai parlato apertamente di cosa significasse per lui e per noi la sua malattia . Abbiamo parlato di medici, analisi, chirurgia, terapie, farmaci….ma non di cosa significasse per lui essere malato.

Perche’ sapevo che mio padre non avrebbe mai voluto essere compatito come malato.

Era arrabbiato, dannatamente, irrevocabilmente, definitivamente incazzato con il cancro. Lo intuivi dall’espressione che aveva conquistato le sue rughe di espressione. E dal silenzio in cui si richiudeva, inarrivabile, inraggiungibile. Perche’ il cancro aveva umiliato il suo corpo rubandogli la sua liberta’, la sua indipendenza….la chemio e la radioterapia stavano ancora tentando l’impossibile…ma le mestastasi ossee lo avevano brutalmente costretto a letto in un crescendo quotidiano di dolori lancinanti.

Mio padre si limitava a fissare la finestra di fronte al letto della sua camera di una casa che non poteva piu’ vivere e sentire propria . In silenzio

Non era stato sempre cosi’….e’ questo che non riesco a perdonare al suo fottuto tumore sapete? Questo avergli dato una piccola in fin dei conti insignificante illusione…una tregua a cui aggrapparsi in realta’ ineffabile, inaffidabile, impalpabile…..che si era tradotta in un paio di stampelle, che presto, troppo presto sono poi state sostituite da una sedia a rotelle.

Quante volte avrei voluto parlargli davvero, parlare al suo cuore. Abbracciarlo stretto per rincuorarlo, dirgli “un ti voglio bene papa’” che non riuscivo invece a far sgorgare dal mio animo. Io non cI sono mai riuscita in tutta la mia vita da adulta con nessuno dei miei due genitori

Io guardavo. In silenzio. E pregavo solo di avere piu’ tempo.

Io guardavo. Senza essere capace di dire nulla

Guardavo il dolore solcare il viso di mia madre e la vedevo sempre piu’ piccola, fragile, esposta alle sferzate di un dolore devastante che in realta’ le dava una forza titanica, la forza di sostenere mio padre. Nel corpo e nello spirito.

Non che mi dovessi stupire. Il loro era ed e’ sempre stato un amore unico, totale, completo. Fin dall’adolescenza. Diversi, a tratti complementari, ma danzatori perfetti di una sincronia di sentimenti puri e incontaminati dal vivere quotidiano. Erano partiti da un amore adolescenziale ed avevano iniziato a camminare lungo le strade di una vita non sempre facile e rilassata, eppure rasserenata sempre dalla granitica certezza della loro unione. Non era possibile pensare l’uno senza l’altro.

Non osavo nemmeno immaginare cosa avrei potuto dire, cosa sarei stata in grado di fare per mia madre quando si fosse ritrovata da sola. Perdendo pezzi di se’ giorno dopo giorno nello stillicidio della malattia….fino a restarne senza.

Perche’ per me era solo “quando” non “se”.

Adesso sono qui su questa sedia nell’angolo della mia camera da ragazza e lo guardo. Pensando a quando e non a se….e mi sento un mostro. Guardo mio padre steso sul letto difronte a me leggere faticosamente un libro. E penso a quanto potra’ durare questa sofferenza. Vorrei dire qualcosa, di sensato, di incoraggiante, di positivo e rassicurante. Ma io non sono cosi’….e non riesco a lasciare spazio ai miei sentimenti ed alle mie emozioni….io nascondo quello che provo, giu’ ed ancora ancora piu’ giu’, dentro, in profondita’, in qualche inesplorato angolo del mio animo. Perche’ io non sono mai stata capace di esplodere. Io so implodere, in un’autodistrazione di scientifica e indicibile efficacia.

Io non piango. Io non posso piangere.E non riesco ad asciugare le lacrime di mia madre. Io non voglio aiutare me stessa e preferisco soffocare. Come potrei aiutare lei? Io sono un ingranaggio rotto di sentimenti come empatia e compassione. Le mie braccia restano stese lungo il corpo, io non so abbracciare mia madre

Posso solo arrabbiarmi con me stessa od incazzarmi con questa mia vita sbagliata.

Perche’ questa sono Io.