Rora

Faceva caldo, molto caldo. Talmente caldo che stavo morendo sete, ma il bar della stazione era stranamente chiuso. Ma non avevo fretta.
Mi sedetti, ingannando il tempo leggendo e mangiando caramelle che scovavo negli angoli delle tasche, quelle caramelle che piacevano tanto a Camlil, solo a lei, e come una bambina ne era avida.
Sull’unica panchina all’ombra, mi guardai intorno e notai che oltre un uomo anziano con un cane marrone a macchie nere e una valigia dello stesso colore, c’era una ragazza di circa venticinque anni, in evidente stato di agitazione, forse per il ritardo del treno, forse per il caldo, o forse per entrambe le cose.
Continuai a leggere, abbassando lo sguardo sulle pagine ingiallite dal tempo, e senza che me ne accorgessi mi ritrovai accanto la ragazza ansiogena. La sua agitazione mi irritava, perché prepotentemente sovrastava la mia tranquillità.
Era bellissima, e, dallo sguardo fugace con il quale avevo cercato di trarre più nozioni possibili dei suoi lineamenti, notai che aveva due occhi chiari come pugni nello stomaco. I capelli ramati e lunghi che le incorniciavano il viso erano legati con un elastico largo.
Il fatto che avesse con se solo una piccola borsa nera faceva intendere che non stesse per intraprendere un lungo viaggio.
Quel mio osservarla la rese ancora più nervosa e agitata, tanto che per calmarsi mi disse: “Le poste in città chiudono alle sette, vero?”
Io, naturalmente, non ne avevo la minima idea, e come un pesce boccheggi un “Sì, alle sette precise”.
“Ma secondo lei farò in tempo ad arrivarci prima che chiudano?” Guardai distrattamente l’orologio, erano le diciassette e trenta, e nonostante il notevole ritardo del treno ce l’avrebbe potuta fare. “Sì, tranquilla, adesso comunque il treno arriva”. Stranamente mi sentivo più sicuro, e di conseguenza più rassicurante. O almeno così speravo.
Tornai a leggere.
Dopo quattro pagine la sua voce tornò ad accarezzarmi le orecchie.
“Ma è sicuro?”.
“Di cosa?”.
“Che farò in tempo”.
Cosa poteva spingere una ragazza ad essere così preoccupata?
“Ci vorrà a malapena mezz’ora”.
“Grazie”. Per la prima volta sembrava veramente tranquilla.
Passarono cinque minuti e il treno arrivò sbuffando. Ci sedemmo sugli unici posti liberi, uno di fianco all’altra, e improvvisamente, senza che me ne accorgessi veramente, mi ritrovai ad offrirle una caramella e a parlarle di Camlil, piccola rondine del mio nido di preoccupazioni.
In mezz’ora sintetizzai quarantacinque anni di vita, senza un perché.
Lei stava ad ascoltare attentamente, in rigoroso silenzio e ieratica compostezza.
Arrivata alla sua fermata, quando mi accorsi che si stava alzando, aggiunse frettolosamente: “Comunque piacere, io sono Robert”, porgendole la mano. Lei la strinse e sorrise. “Rora”.
Scese e se ne andò, con la mia storia ancora che riecheggiava nell’aria, destinata a perdersi alle poste.


C’era una volta

Ho parlato di te
ad una sconosciuta sul tram
all’edicolante sotto casa
alla vigilessa all’incrocio.
Il tram si è fermato bruscamente sui binari,
l’edicola ha chiuso,
il traffico è esploso.
Hanno detto di conoscerti
di averti già visto
nei loro sogni
di bambine.


5 secondi

Le luci scorrono sopra di me, lo percepisco non con gli occhi ma con la pelle. anche perché il mio sguardo è fisso davanti a me, sul puntino luminoso. Una luce chiara e ben distinta è la mia guida, l’unica mia possibile fonte di energia. Tutto il resto è monotono buio, intervallato da queste strisce veloci che velano i miei occhi. Incomincio a frenare, l’automatismo del gesto mi rende più sicuro. Mi ha sempre reso più sicuro. Se non sapessi che in un determinato punto del tunnel io devo frenare, tutto andrebbe a rotoli. Tutto si sfalderebbe, a partire dai miei nervi. Come se essi non fossero già bombardati a sufficienza da stimoli esterni. Come se la vista della banchina gremita di concittadini e turisti non sia già la causa dei miei incubi notturni. La luce si fa sempre più vicina e sempre più luminosa, mi lascio il buio alle spalle e il muso del convoglio affiora decelerando. L’automatismo della frenata mi mantiene lucido, ma il mio sguardo percorre febbrile il branco di lupi affamati di un posto a sedere. Eppure.. Eppure so che tra di loro c’è una debole pecorella, c’è sempre. Cerco velocemente il suo manto bianco, la paura negli occhi, perché non voglio che quel terrore mi accompagni per tutta la vita. Assistere ad un suicidio, ed esserne il responsabile prescelto, è qualcosa che “ti cambia la vita, giovanotto” dicono i colleghi più navigati. E io non posso far altro che credergli, non voglio dover scoprire la verità da solo. Un quarto di banchina, il freno stride. Metà banchina, una scolaresca esagitata trattenuta dall’autorità di due insegnanti. Manca poco al successivo noioso buio, mi devo solo fermare definitivamente, attendere paziente, e poi riprendere il corso naturale della quotidianità urbana. Tre quarti di banchina, una donna con una carrozzina, una vecchina con il bastone e il cappello calato sugli occhi, uno sbruffone con un passo oltre la linea gialla. Sento il battito pulsarmi nelle orecchie, una ragazza a tre metri dal buio incrocia il mio sguardo. Occhi tristi contro occhi ansiosi. Non farlo, penso. Non tu, non ora, manca così poco. Fa un passo, freno più che posso stringendo i denti, il piccolo tamburo che ho al posto del cuore pare volermi saltare fuori dal petto. Non farlo. Non per te, ma per me. Sono troppo giovane per andare dallo psicoanalista. Ma è troppo tardi. La carrozzina è già sotto e neanche me ne sono accorto.