Marzemino, capulì, grashè, uova sode e salame

Sono le sette e trenta del mattino, come d’accordo ci incontriamo al bar, per bere velocemente un caffè, scambiare quattro battute con i presenti, rispondere alle curiose domande della barista e partire: la meta è Merano; i compagni di viaggio sono mio cugino Misa ed un grande amico di adolescenza, soprannominato Unoedieci per la bassa statura. L’obiettivo del viaggio è quello di andare a fare visita al figlio di mio cugino che, in quella località, sta trascorrendo volontariamente il servizio militare. Mentre esco dal bar percepisco il rumore della serranda del vicino negozio, che si sta alzando e vedo la proprietaria che, con un ampio sorriso (residuo positivo di un amore adolescenziale mai consumato), mi saluta. Ricambio e saliamo in macchina, un suv Pajero di seconda mano. Imbocchiamo la strada che conduce prima al Tonale, poi in Val di Sole, e, successivamente, attraverso il Passo Palade verso Merano. Il viaggio è tranquillo, privo di imprevisti degni di nota. Il dialogo è impostato prevalentemente su temi relativi al clima e al paesaggio trentino. Il giudizio è positivo: “Loro sì che ci sanno fare!” è l’esclamazione corale. Ogni volta che attraverso Vermiglio ho sempre la sensazione di qualcosa di già visto. Forse sarà per la trisnonna originaria di quelle parti.
Verso le dieci arriviamo in città, mi rendo conto di come la cittadina sia cambiata rispetto a quando, negli anni settanta, era animata da migliaia di militari. Siamo in giugno ed è una bella giornata di sole ma, ciò nonostante, quando varchiamo il portone il piazzale della caserma C. Battisti mi appare grigio, stessa impressione di quando lo vidi per la prima volta, dopo un lunghissimo viaggio in treno, da Cuneo a Merano, seduto su sedili di legno della tradotta. Forse, allora, sarà stato per la stanchezza, oppure per il timore di subire la severa disciplina militare ed i pesanti scherzi degli “anziani”, ma tutto mi è parso buio quel tardo pomeriggio di fine luglio 1970. Lì ho trascorso il servizio militare. Forse il grigiore era dato anche per la diffusa tristezza che regnava in quelle caserme. La malinconia, forma grave della tristezza, ha la capacità di annullare i colori ed i raggi del sole. I pochi attimi di felicità vera si percepivano quando veniva distribuita la posta. Chi riceveva lettere di fidanzate, di mamme, di sorelle e fratelli era visibilmente felice. Ma questo stato d’animo veniva subito sommerso dall’infelicità di chi attendeva invano lettere da morose che li avevano abbandonati. Certo c’erano momenti di allegria e di cameratismo, quando a cena, davanti ad una bottiglia di vino si diventava euforici, ma l’allegria, se è data dall’alcol e/o droghe, è un surrogato della felicità e pur provocando le stesse reazioni chimiche nel cervello è effimera. La felicità vera è lo stato d’animo di chi è in pace con il proprio giudice interno ed il suo agire, è coerente con il senso della vita, non termina con un mal di testa, non dà dipendenza da dover continuamente aumentare la dose.
Fra i ricordi positivi di quel periodo vi è quello di una notte trascorsa a imbiancare la mensa. Verso mezzanotte, dopo aver verificato che non ci fosse in giro la ronda per i controlli, aprimmo i frigo e cucinammo una frittata con le cipolle enorme. Il profumo attirò il sergente che, invece di punirci, si unì ai commensali. Il vino non era un granché, risentiva probabilmente della cresta che l’acquirente aveva fatto sull’acquisto. La successiva ripresa della tinteggiatura risentì dell’abbuffata.

Ma ecco che da in fondo al viale ci viene incontro la recluta. Dapprima saluta suo padre, successivamente il sottoscritto ed il mio amico Unoedieci. Usciamo a pranzare in un ristorante, durante il quale ci scambiamo le reciproche informazioni: lui ci informa sulla vita di caserma e noi lo aggiorniamo su cosa succede in paese: chi è morto, chi è nato, chi si è sposato, come vanno i lavori in campagna, ecc.. Questo schema di scambiarsi informazioni è eterno: ognuno comunica all’atro le proprie esperienze e informazioni. In tal modo si ha la possibilità di “vivere” in più contesti contemporaneamente. A tavola le spezie particolari del cibo altotesino risvegliano in me ricordi di quelle pochissime volte che sono uscito a mangiare con i miei amici. Purtroppo ero fra quelli che non ricevevano grandi aiuti da casa e quindi quando i miei amici mi chiedevano di uscire a cena inventavo la scusa che avevo mal di testa. La stessa giustificazione che usano le donne quando non hanno voglia di fare all’amore. Sarebbe stato troppo umiliante ammettere che non avevo soldi. Secondariamente il cibo della mensa non era malvagio: c’erano due primi, due secondi e si mangiava nei piatti di ceramica e non nei vassoi di acciaio come nel vicino battaglione degli alpini.
La giornata trascorre velocemente e, verso le 17, imbocchiamo la strada del ritorno. Giunti a Pelizzano -uno degli ultimi paesi prima della salita del Tonale- ci fermiamo ed entriamo in un negozio per comprare dei prodotti locali. Fra gli acquisti non poteva mancare lo speck. A questo aggiunsi un vino trentino, il Marzemino, che non conoscevo ma di cui avevo sentito parlare nell’opera di Mozart, Don Giovanni. Fatti gli acquisti saliamo in macchina e ci apprestiamo al ritorno. Durante il viaggio mio cugino tira fuori di tasca uno dei primi telefonini e chiama la moglie per informarla che tutto è andato liscio e che sta arrivando. Nella conversazione dice alla moglie (alludendo a chissà che cosa): “Preparati che sto arrivando” – ma subito lei ribatte – “Per fare che cosa?” Come per dire: non metterti idee impossibili per la testa. Che dire, le velleitarie ipotesi di mio cugino sono state archiviate prima ancora di essere messe alla prova. La conversazione mi fece ricordare quell’antropologo che affermava che la coppia umana si forma e resiste perché la donna è sempre disponibile. Bah, o era troppo vecchio per ricordarsi di come erano le donne, o troppo giovane e non le aveva ancora conosciute. Le donne sono tutt’altro che sempre permeabili: hanno certe emicranie a grappolo che compaiono sempre la sera. Debbo però ammettere la produzione dell’ormone ossitocina, che consolida i legami di coppia, ha molto a che fare con quanto affermava l’antropologo. Questo argomento non interessava all’amico Unoedieci che, come da lui pubblicamente ammesso, aveva già raggiunto la pace dei sensi, nonostante fosse poco più che cinquantenne. Si vede che era stato precoce da giovane. Al Tonale ci fermiamo per una breve sosta e per una doverosa visita al Sacrario eretto in memoria dei caduti della grande guerra. In questo punto passava il confine tra Italia e impero Austroungarico. La gente che vive a ridosso dei confini vive in modo più drammatico, rispetti agli altri, gli effetti della guerra. Il Comune di Vermiglio venne sfollato e gli abitanti mandati a centinaia di chilometri, nella periferia di Vienna, per la paura che potessero simpatizzare con il confinante nemico. D’altronde i Solandri desideravano da secoli di essere liberati dall’oppressore, prima conte del Tirolo, poi impero austroungarico. Giunto a casa consegnai gli acquisti trentini a mia moglie. Lo speck viene messo in frigo, mentre la bottiglia viene posta nella credenza per “riposare” in quanto sbattuta nel viaggio. Dopo una settimana è giunto il momento di assaggiare il vino che era piaciuto e influenzato anche a Mozart. Apro la bottiglia, ne verso metà bicchiere, lo lascio ossigenare e lo avvicino, prima al naso e poi alla bocca. Inaspettatamente il profumo non mi è nuovo e l’aroma mi porta indietro nel tempo e nello spazio: mi ritrovo poco più che dodicenne, seduto fuori della cascina giù alla vite, con le spalle appoggiate al muro, in compagnia della zia Gnes, la zia Maria, lo zio Tone ed i miei fratelli maggiori. Si stava facendo la pausa pranzo dopo una mattinata di duro lavoro per riportare a monte la terra che, per la gravità e la zappatura, era scivolata a valle. Prima di sbadilare, a monte la terra, veniva distribuito, sotto il muro, il letame e le patate da semina in modo che venissero ricoperte dalla terra di riporto. Ma, là dove è stato distribuito il letame, prima c’erano i capulì (radicchio rosso, lasciato lì durante l’inverno, protetto dalla copertura di rami di rovere) e i grashei (valerianella) che la zia Gnes il giorno prima aveva raccolto. Questi prodotti me li trovo nel piatto, conditi insieme a uova sode e fette di salame di media stagionatura. A completare il pranzo c’era il pane di segale, pancetta, guanciale e formaggio prodotto l’estate precedente in malga. Il tutto innaffiato da un buon vino, bevuto dalla scodella comune, prodotto con uve di Barzamì (Marzemino), spillato direttamente dalla botte. È stato il suo profumo caratteristico ed il suo aroma a farmi rivivere quella particolare giornata agreste, con un pranzo consumato seduto per terra, nello stesso posto dov’era seduto mio nonno (non ancora trentenne, con quattro figli piccolissimi ed uno ancora in grembo alla moglie) il giorno prima di emigrare in Australia, da lì non più tornato, morto nel 1950, un anno prima che io nascessi. Di lui ho ereditato il nome, il soprannome e, forse, l’anima. Più in alto, vicino all’architrave della porta, era conficcata nella parete, con la funzione di appendiabiti, una vecchia zappa, usurata dal lavoro. Quell’umile attrezzo, ora riciclato in altra funzione, chissà quanta terra ha dissodato agevolando la crescita di prodotti che hanno sfamato tante persone. Non c’era il tavolo, per sedersi attorno, ma una tovaglia a quadretti allargata sul ripiano tra una botte e un tino. Non c’erano borse di plastica perché il tutto era stato avvolto in quella tovaglia. Forse il nostro cervello archivia i ricordi associandoli a profumi in base alle emozioni vissute. Noi non ricordiamo i profumi, ma questi, quando li risentiamo, ci fanno rivivere parte della nostra vita e le emozioni collegate.


Ti ho “portato” con me

Monte Pasubio, 10 dicembre 1917
Carissima Lucia
ho ricevuto la tua lettera, con la quale mi aggiorni della situazione drammatica che si è venuta a creare con lo sfollamento del nostro paese, avvenuto il 5 giugno, venticinque giorni dopo che ero partito per il fronte.
Perché proprio in giugno, il mese dell’allegria? Quando l’estate, con i colori dei prodotti maturi, della fertilità, fa sentire la sua presenza; quando, dopo aver falciato il maggengo al piano, si sale falciando i prati in quota, di cascina in cascina, verso i segaboli dell’alta montagna; quando i campi delle patate, appena colmati, e quelli della segale mostrano la loro generosa fertilità, riconoscenti dell’ottima concimazione autunnale.
Era tutto pronto per trasferire le mucche, le capre, le pecore, verso le malghe in quota ma, di fretta e furia, avete dovuto abbandonare le nostre case, il nostro bestiame e caricare sui carri quelle poche cose caricabili. Quanta pena c’è nel tuo racconto, di donne che tiravano per la cavezza l’asino che trainava il carro, mentre altre da dietro lo spingevano, di vecchi che faticavano a stare in piedi, di giovani madri con in braccio i loro bambini di pochi mesi e quelli un po’ più grandicelli attaccati alle gonne, mentre i ragazzini mantenevano in fila le mucche, i maiali, le pecore che affamate tendevano ad invadere i confinanti prati. Non c’era lo spazio per piangere, le lacrime rimanevano dentro fino a soffocarti il respiro.
Tutti in fila, per andare dove? Non si sapeva quale fosse la meta.
Gli ordini erano stati chiari: bisognava abbandonare immediatamente il paese perché, essendo a ridosso del confine, era già stato, nei giorni scorsi, bombardato causando delle vittime innocenti. Inoltre c’era il sospetto che qualcuno potesse passare delle informazioni al nemico che stazionava a pochi chilometri.
Che sarà della nostra camera da letto che, con cura e tanto amore, stavo preparando per il nostro matrimonio di settembre. Avevo appena terminato di imbiancare le pareti con la calce. Mio padre mi aveva regalato il robusto cassettone in legno di ciliegio che aveva il solo difetto di risentire dell’umidità, rendendo difficile l’estrazione dei cassetti durante le giornate piovose. L’armadio a parete l’avevo invece realizzato posando due antine su una rientranza del muro. Il materasso lo stavano realizzando le donne sgarbinando la lana della tua pecora tosata l’autunno scorso. Il letto e i comodini sono quelli della camera di mio nonno.
Il nostro progetto di vita insieme era stato sospeso.
Adesso mi aggiorni, inviandomi il nuovo indirizzo, che vi hanno trasferito, caricandovi stipati su treni, in provincia di Torino a centinaia di chilometri di distanza del nostro paese, distribuendovi in varie borgate, con gente che non parla e non capisce il nostro dialetto. Mi tranquillizzi, però, dicendo che questi piemontesi sono brava gente, che ti non ti mancano di rispetto. Sono contento di sapere che i miei e i tuoi genitori stanno bene e che fate parte dello stesso gruppo.
Sono felice che lì non ci sarebbe la percezione della guerra, essendo lontani i confini, se non fosse che tutti i giovani validi sono al fronte e che sono rimaste solo le donne e le persone anziane a lavorare la terra.
Nella precedente lettera ti avevo chiesto informazioni dei miei coetanei partiti per la guerra: perché non me ne dai notizie, perché non ne hai o sono forse brutte e temi di preoccuparmi ?
Sono soddisfatto di sapere che mi pensi sempre e che aspetti con ansia che la guerra finisca per fare ritorno al nostro paesello e finalmente sposarci.
Ora che ho commentato la tua lettera vengo ad aggiornarti sulla mia situazione. Qui sto continuando a fare ciò che ho fatto fin dal primo giorno: scavare gallerie, costruire strade e trincee. In qualche modo faccio ciò che facevo anche a casa: il minatore/contadino. Solo che lì il minatore lo facevo solo nei mesi invernali, mentre il contadino lo facevo in primavera, estate e autunno. Qui invece faccio quasi sempre il minatore e solo qualche volta il conducente muli. A proposito di muli a queste bestie bisognerebbe fare un monumento per le fatiche che ci hanno risparmiato.
Abbiamo quasi terminato la strada che avevamo iniziato il 6 febbraio 1917. In soli sette mesi, con circa 500 soldati, abbiamo realizzato ben 6.555 metri di mulattiera, dei quali quasi la metà sono suddivisi nelle cinquantadue gallerie scavate nella roccia. La larghezza media, di due metri e mezzo, permette il transito contemporaneo di due muli. La diciannovesima galleria è la più caratteristica perché oltre ad essere la più lunga (mt 320), sale ad elica all’interno della montagna come una spirale. La strada inizia nel paesino di Bocchetta Campilia, alla quota di 1216 m, ed arriva alla quota di 1934 mt, poco sotto il monte Pasubio, dove abbiamo la nostra base. La roccia scavata è diversa della nostra, contiene strane lumache pietrificate che, mi dice il sergente, sono dei fossili, perché lì, sostiene sempre il sotto ufficiale, una volta c’era il mare. Non ci credo molto perché qui di acqua non se ne trova più nemmeno una goccia, perfino quella piovana viene assorbita immediatamente dal terreno e dalla roccia. Finalmente con questa strada si potrà rifornire i nostri soldati, protetti dalla montagna, senza essere presi di mira da parte degli austriaci. E’ appena stata ultimata che già si sente in lontananza un canto dedicato: < >
Non è vero, come dice la canzone, che non abbiamo paura. Qui la paura è la nostra compagna, non ci abbandona mai. E’ presente in tutte le sue più svariate manifestazioni: dalla paura positiva che è presente nella prudenza a quella negativa che esplode nel panico. Se non avessimo la giusta dose di paura saremmo già morti.
Mentre noi scaviamo, altri combattono, nelle trincee o nelle gallerie. La morte è sempre lì in attesa, ma, nonostante ogni giorno io veda dei morti caduti, per lo scoppio di bombe o di mine, non ho la consapevolezza di dover morire, perché tutte queste sono morti violente e non naturali e, pur essendo tante, riguardano solo una parte degli uomini presenti. Spero di continuare ad essere fortunato e di non trovarmi mai nella traiettoria di un proiettile, di una scheggia o di mina inesplosa. La percezione di essere giunti alla fine, del percorso della propria vita, la si ha solo quando, giunti ad una certa età, si vede morire i propri coetanei, uno dopo l’altro, per morte naturale.
Non so chi vincerà questa guerra, ma se non finisce presto, la vinceranno i topi, che ormai aumentano tutti i giorni a dismisura. Pare sentano l’odore del sangue e della morte e, dopo ogni battaglia, escono allo scoperto.
Sono però convinto che la vinceremo noi per il fatto che qui qualcosa da mangiare, seppur scarso, seppur non di qualità, l’abbiamo sempre, mentre dall’altra parte sono affamati ed hanno ricevuto indicazioni dai loro comandi di mangiare il trifoglio che è commestibile.
Ringrazio Dio di non essere mai stato costretto, in questi anni, ad uccidere un mio simile in un combattimento con la baionetta. Se ciò fosse accaduto, il senso di colpa mi avrebbe sconvolto l’esistenza.
L’altro ieri il mio compagno Giancarlo è stato ricoverato all’ospedale militare. Diceva di sentire delle voci, di ricevere degli ordini perentori che lo incitavano a partire per Roma, dove c’era la sua moglie e suo figlio ad aspettarlo. Lui non aveva né moglie né figli. Era diventato pericoloso perché saltava fuori improvvisamente dalla trincea e si metteva a gridare che suo figlio lo stava chiamando e che doveva andare. Qui, quelli come lui, li chiamano “scemi di guerra”. L’accaduto mi ha preoccupato perché anche a me capita di avere delle visioni, di rivedere nitidamente alcune parti della nostra relazione e del mio passato. A volte mi sembra addirittura di averti vicino. Pertanto ne ho parlato con il tenente medico Oliver, specializzato in matti, che però mi ha tranquillizzato dicendo che il nostro cervello quando è privato delle informazione raccolte attraversi i sensi (udito, vista, tatto, olfatto e gusto) può avere delle allucinazioni, ma che le può avere anche senza essere in uno stato di deprivazione sensoriale totale. La mancanza di una varietà di informazioni, può stimolare l’occhio interiore, producendo sogni, immagini vive o allucinazioni. Nel mio caso la mancanza della tua immagine e della tua vicinanza spinge l’occhio della mente a cercarla nella memoria. Lo chiamano il cinema del prigioniero. In fondo qui lo siamo.
Rassicurato che non sono uno “scemo di guerra”, ti racconto l’ultima mia allucinazione: eri seduta vicino a me, fuori dalla baracca del dormitorio, su un sasso piatto a forma di panchina. Ti raccontavo della prima fase del mio innamoramento, quando è avvenuta la tua “trasfigurazione”, quando da donna, pur bella, sei stata illuminata da quella luce che percepiscono solo gli innamorati, diventando stupenda. Alla bellezza delle forme geometriche si aggiungeva “quel certo non so che”, che appartiene solo alle grandi opere d’arte. In fondo l’amore è una grande opera d’arte. L’operazione di sublimazione/innamoramento era in atto, a mia insaputa da molto tempo. Mi ricordo nitidamente di ciò che avveniva la domenica in chiesa: entravo, prima che la messa iniziasse, per andare a posizionarmi nel posto ideale, sotto l’altare di San Luigi; da lì ti potevo osservare senza dare nell’occhio. Ti sentivo entrare, dalla porta in fondo alla chiesa, quella delle donne. Riconoscevo i tuoi passi e ti percepivo, senza vederti che prendevi posto, come sempre, sul lato opposto al mio, quattro fila più arretrata, nel banco sotto l’altare di Santa Agnese. In tale posizione era sufficiente che fingessi di raccogliere qualcosa sulla mia destra, per incrociare il tuo sguardo che, non so se per caso o per volontà, era volto verso di me. Come erano luminosi i tuoi occhi azzurri, avevo l’impressione che rischiarassero tutta la chiesa. Se non ti vedevo ti percepivo attraverso l’udito quando cantavi. Che dolce melodia è il canto delle donne, quando raggiunge le note alte. Ma non era solo l’udito ad essere interessato dal suono emesso dalle tue corde vocali, ma tutto il corpo, perché gli esseri umani ascoltano la musica e/o il canto con tutti i muscoli. Spesso battiamo il ritmo senza nemmeno accorgerci perché la melodia sollecita tutti i nostri nervi. C’è qualcosa di misterioso ed esclusivamente umano in tutto questo, forse ha a che fare con l’origine dell’universo e quindi con l’amore originario. Chissà quante persone si sono innamorate, senza accorgersene ascoltando lo stesso canto?
Non potevo però continuare a girarmi per incrociare il tuo sguardo e, pertanto, aspettavo il momento di quando saresti salita verso l’altare per la comunione. Ti guardavo mentre uscivi dal banco e, con le mani giunte, ti incolonnavi verso l’altare. Il tuo incedere lento mi consentiva di scrutarti, di immaginare cosa c’era sotto il vestito buono della domenica, di immaginare le tue nascoste forme di donna che non avevo mai visto. Non solo le tue ma non avevo mai visto il corpo nudo di nessuna donna. Eppure nel profondo della memoria, là dove sono criptati i ricordi di tante generazioni, c’era qualcosa che premeva sulla mia volontà. Fatta la comunione tornavi, verso il banco, con la testa reclinata verso il basso e con gli occhi socchiusi, in segno di rispetto. Durante il percorso, però, giunta ad un preciso punto, quanto la tua scarpa si appoggiava su una precisa mattonella, le tue palpebre si aprivano ed i tuoi occhi si collegavano con i miei. Dalle tue pupille usciva una luce misteriosa, forse cosmica, che solo io vedevo e che, incrociandosi con la mia, dava luogo, ad uno scambio di interrogativi, confronto, di informazioni.
Alla fine della messa uscivo di fretta, per osservarti mentre andavi verso casa. Mi rendo conto adesso di quanto ero timido. Solo dopo mesi, infatti, ho trovato il coraggio di affiancarti per dirti la frase più banale che si può dire in una giornata di sole: – < >. A questo punto la mia allucinazione terminava e mi trovavo, non vicino a te, ma a qualche soldato. Il giorno dopo, per fortuna, l’allucinazione ritornava, magari su altre cose accadute che ci riguardavano.
Ti ricordi le mie prime lettere? Tutte piene di errori, senza punteggiatura. Ora come potrai notare, quel sergente di cui ti ho parlato prima mi ha insegnato anche a scrivere in modo quasi corretto. Tra l’altro mi ha insegnato, che esiste anche la lettera zeta che prima non conoscevo e non usavo mai. Certo non ne percepisco ancora perfettamente il suono ed ogni volta che devo scrivere una parola con la zeta devo far scorrere nella mia mente un elenco di parole che ho memorizzato.
Spero che questa guerra finisca presto, perché al solo pensiero di passare qui un altro inverno a questa quota c’è da star male. Già adesso è caduta quasi un metro di neve.
Mi sembra una guerra talmente inutile che credo finirà presto ed avremo modo di dare compimento al progetto di vita che è stato sospeso il 10 giugno quando sono stato costretto a partire per il Pasubio. Questa è più di una speranza: sono certo che finirà, perché la guerra è una malattia e dalla quale, dopo tantissime vittime, si guarisce.
Ora ti saluto con la frase che diventerà famosa ed addirittura il titolo di un libro: “IO STO BENE E COSÌ SPERO ANCHE DI VOI”.
Un caloroso abbraccio, tuo Bortolo.