Una tigre nera

Il principe fece entrare nella stanza dei ricevimenti il comandante delle guardie, il capitano Rhavi.

Seduto sull’antico seggio dei Re, ne ascoltò in silenzio il racconto. Mentre questi parlava, lo sguardo del principe si posò sull’occhio profondo del grande specchio sbalzato nell’argento ove si riflettevano i trofei di caccia che ornavano il muro alle sue spalle.

“Una tigre nera?”.

“In vita mia, Signore, ho veduto tante tigri e altri feroci animali della giungla! Quella, Signore, non era una pantera o altro. E’ una tigre. Una tigre nera!”.

Ramashanda, il principe di Surpanani, dopo aver congedato il capitano, si alzò dal seggio e si avvicinò ad una delle grandi finestre che si aprivano sui giardini della reggia. Stava calando la sera.

Aldilà delle palme che circondavano le ricche fontane, dopo prati dipinti da una ragnatela di fiori multiformi, oltre le statue abbracciate dai teneri rampicanti la jungla incombeva con la sua nera presenza vivente. Ramashanda pensò a suo padre il Marajah, ai suoi avi, alle antiche dinastie che per secoli avevano regnato su quelle terre, sulla jungla affascinante e inespugnabile. Pensò a quanto illusorio fosse tale potere poiché la jungla aveva continuato a dominare sola e ribelle, imprigionando le vestigia dei templi, divorando le statue e l’avorio, inghiottendo tesori e segreti, tacendo sul destino degli uomini.

Da quanto tempo lo straniero era lì? Chi era? Da quando era arrivato, non aveva fatto altro che osservare la jungla. Seduto sulle panche di antica pietra, passava ore interminabili a fissare lo scuro intreccio di vegetali che crescevano al limitare dei giardini della reggia. Si era presentato come uno studioso di etnologia orientale lo straniero biondo che veniva dalla lontana Europa. Ramashanda si era più volte sorpreso a pensare quanto diversa fosse quella terra dal nome così secco, quella amletica Danimarca che lo straniero aveva cercato di descrivergli in uno dei soliti lunghi colloqui mattutini. Il principe ne aveva apprezzato da subito l’animo dolce e lo spirito contemplativo, così differente dal carattere solitamente duro e spavaldo degli europei che aveva incontrato in precedenza.

Lo sentiva vicino alla propria sensibilità, ne apprezzava l’intensità dello sguardo, il pensiero pacato e profondo, la sua non comune capacità di attesa.

Eppure sapeva che mentiva, o quanto meno che non gli aveva detto tutta la verità.

Sapeva per contro che lo straniero era cosciente della sua consapevolezza.

Era come un patto, un patto tacito ma leale fra i due uomini e la curiosità non era certo malattia che si nascondesse nell’animo franco del principe.

In quegli ultimi mesi il principe aveva fatto tale abitudine alla presenza dello straniero che di certo avrebbe sofferto il giorno in cui egli se ne sarebbe andato.

Era così raro in quell’oceano verde e azzurro, incontrare una persona così disponibile alla franchezza, così disposta al lucido ragionamento come alla melanconica contemplazione dell’essere.

In cotale maniera andava ragionando che non si avvide del calar della notte e quando un raggio della lattea luna, sbucata per improvvisazione dal folto degli alberi, venne a cadere sul suo volto, il principe diede un balzo di subitaneo stupore.

La luce opalescente dell’astro della notte inondava ora i giardini all’intorno rendendoli ancora più meravigliosi, quasi irreali. Le forme degli oggetti avevano assunto la sommessa profondità del mistero.

Ramashanda uscì sul grande terrazzo e si appoggiò al marmo della balconata bagnata dal vento lunare per osservare il silente luccichio delle stelle. Chissà se lo straniero dormiva, su, in alto, nelle camere riservate agli ospiti? O se pure lui stava osservando la magnificente bellezza della notte! Com’era strana la sua maniera di vita. Il principe non lo aveva mai veduto dopo il calar delle tenebre. Quando all’orizzonte si infiammavano le ultime unghiate del sole ormai prigioniero, lo straniero pareva risvegliarsi dal lungo stato meditativo e si accommiatava per poi ritirarsi nei propri appartamenti senza consumare alcun pasto. A volte il principe ne incrociava lo sguardo trovandolo come vuoto. Sfinito. Il secco rumore distolse Ramashanda da tali pensieri. Il principe volse lo sguardo ma i suoi occhi non seppero discernere nulla tra le ombre scure degli alberi: la quiete della natura era perfetta, non uno stelo si muoveva sotto la coltre del cielo cristallino.

Ramashanda stava per rientrare nei saloni del palazzo, quando un fruscio ovattato ma distinto arrivò alle sue orecchie, molto più vicino. Il principe lentamente si volse e, fissando lo sguardo tra le forme vegetali che la pallida luce lunare disegnava sullo schermo della notte, la vide. La belva era lì. Ramashanda la poteva vedere in tutta la sua possente bellezza. Gli occhi vitrei dell’animale splendevano come due diamanti sulfurei nelle tenebre e il suo nero manto mandava riflessi d’acciaio sotto la fredda luce delle stelle. La tigre aveva fauci enormi e le sue zanne d’avorio lucevano esse stesse di bagliori scintillanti. La massa muscolare era uno spettacolo a sé, un’espressione di potenza inusitata nonché di superba definizione estetica. Le nervose venature che, partendo a raggiera dal centro della fronte, si ramificavano sotto la nera pelle sericea fasciavano come un guanto tutto il suo corpo.

Mai in tutta la vita il principe aveva veduto animale tanto spaventosamente sublime e ora lì, nella notte profonda, stava fissando gli enormi occhi della tigre nera.

Il suo animo non era peraltro pervaso da paura alcuna, da stupore certo, da meraviglia e da ammirazione altrettanto. Così, profondamente affascinato e turbato da tale straordinario contatto, non si avvide della presenza dello straniero se non quando gli fu a pochi passi.

Fu allora che il principe notò che, sotto la luna, il volto dello straniero era diverso, che i suoi occhi erano grandi e fosforescenti, le sue fattezze dure e regali e che la sua pelle, la sua pelle che pareva pallida e delicata sotto i raggi del sole, era adesso così forte, così lucida, così nera.

Ramashanda fu talmente colpito da tale impressione che si rese conto con un brivido di aver completamente abbandonato con lo sguardo la figura della tigre ma, volgendo di scatto il capo, si accorse che di lei non vi era più traccia, che si era dissolta nel nulla qual fosse stata una visione. Ramashanda ebbe un attimo di esitazione e parve abbassare lo sguardo; poi lentamente lo levò, lentamente lo levò in faccia allo straniero che si ergeva maestoso di fronte a lui e vide nei suoi occhi l’anima della jungla.