Ascensione

Voci che si turbano se interrotte
un inceppo di teleferica,
un ramo secco che non può volare
e appiccica di lamento l’aria,
fosse passato per un addio
invece raddrizza angoli e fessure
parole infilate come imballaggi
a mia disposizione.

E’ una parabola di fiati stretti
su sponda che pretende anche una
mela rachitica in posizione,
uno spasmo di passione per
la loro predica pastosa come
un fermaglio che ripara dopo
l’assolo che non accontenta.

Ho ripreso il tempo, qualcuno
chiama per una carta d’ufficio,
non scolora ed aspetta la lunghezza
d’un verso mutato su cui ricade il
lusso della mia esplorazione, un richiamo
dove c’è la dolcezza d’un corpo
che rimane diletta cadenza,
talora da vicino un dramma compatto
un’occasione da cui imparare,
un destino sulle acque volgendosi
a chi avanti (s)colpisce la vita.

Esco meglio dal lavoro che è
metà opulenza dura poi mi s’incollano
alle mani parole rinascenti non calcolate
per l’ascensione maniacale di perpetuità.
Mi hanno offerto un volo a cesta,
un giro largo da ogni tiritera ma
stanno accanto i parolieri instabili dell’impresa.

Non è un grande spazio lassù,
per quanto disadorno voglio
un cielo vuoto coi pensieri andati
senza colloquio, i tuoi occhi
di gerani verso me, sorveglianza
che riscalda la salita
il fumo ormai attività minima.


A cena

Han tremato nel dopocena per quell’uomo
ha sovvertito le parole un pietroso turbamento,
un salire d’onde che non danno fiato
al volto fisso d’ insonnia.

Sorride a volte lontano in un sacco
di bonaccia come se non fosse abbastanza
per lui il trascorso viavai prima d’imparare.
Si chiedono dunque se tutto torna in una distesa
d’acqua, un salino inferno che segna un pegno.
Un cigolio di ruote non un disastro di corpi
posseduti in fretta.

Chiarito l’ingorgo se fossi incerto fuori da
un vampo intossicato o una mano che additava
un’evidente prova. In un attimo solo scaglie di
contrattacco, un amuleto che divide la tua dolcezza
e strema le labbra in una colata fossile di passaggio.
Non un dramma ma un ossimoro d’eloquente carattere,
uno strano richiamo senza trarne vantaggio.

Non si tratta di decenza o di possibile bon ton,
una qualche astuzia per scolorire la malformazione
d’uno sguardo chiuso. A me non riesce mettere in fuga
il ristagno o indugiare in un mare scherzoso.
Serve esistere con un lieve lume di pensiero che t’inganna.


Principianti

C’era bisogno d’essere a casa lasciando alle spalle
un monumento di maturità,
qualcosa di più mutando i silenzi lupeschi
il giardino di rose è una sorpresa,
una saliva che scioglie la lingua di pietra
noi due denudati con le dita in possesso
sopra parole da sminuzzare, passetti
di tenere mischie di gatti.

La soglia ha briciole di qualche fragranza
ci siamo scambiati le variazioni d’una intera
giornata, in salvo da errate dottrine
da una eclissi di corpi senza più luce propria.
E’ un netto istante la raffinatezza di facce tosate,
un dono promesso che orienta nel viavai
di fenomeni opachi.

Le imperfezioni sono una necessità, un espediente
di tintoria coi vestiti piegati eppure gli stessi
alla consegna, a fianco un mentore sano
ancora molto che sale ed incarna un fondo da lucidare.
Hai sentito fili d’arpa pizzicati dall’arrivo della poesia,
contatto avvenuto di pelle e di ossa imparando
a cercarci davanti ad un epigramma di pergamena.

Non cerchiamo più definizioni, imbavagliano
zone mai dome in questa provincia di vita,
un crocicchio di fede pronta ad aprirsi come
ricci in un mare coi frangenti di sfida,
i bagagli sempre disfatti
alla vigilia di quel che si leva tra pieghe e bocconi
un trapianto di cieli per ricordarci.


Carte esitanti

 

Ricominciare bruciando

le carte esitanti, ricaricare

oltre il pensabile che amammo

come sola verità che sale le scale.

Squilli nuovi da mozzare i

rovi di vecchie sillabe che non

avevo più intese. Qui nei corpi

si accompagnano coi loro legacci

tenaci che fanno lenta ogni persona

nascondendo il viso. I desideri

tornano imprendibili, metafore

o espedienti in preghiera su ardue

materie d’ottima compagnia.

Con esse si ritessono i vizi in

tensione, parole ancora del mancato

piacere. Si mutassero in saggezza

sotto le scarpe di visitatori pellegrini.


Daccapo

 

Daccapo sempre con una

mente che riceve una veglia di

incognite, maturità che passa in

fretta, contrasta l’alba d’attese

cui rispondere senza menzogne

dolcezza d’indaffarati vocaboli

sventolati in un lampo  come i

pensieri più belli che non s’intendono.

Sembrano zuppe molli e rigonfie

nulla si stringe fra i denti, le mie

dita una numerazione di giorni

nell’invisibile che respira dalla

bocca un fiato di desideri.


A metà

 

Due corpi  in contrappeso

resistendo all’onda parlante,

disperde la loro riva sotto

la pelle di creta, distanze

irregolari  per un meccanismo

segreto che fuga la carne

senza zavorra, destinazione

sconosciuta come gabbiani

sul pelo dell’acqua con una lieve spinta.

Resta un labiale che confabula

dentro credendo a un motivo

congetturante ed è daccapo metà.