Dopo la tempesta

Un’iri squarcia il torpore esteso

alla scena, cessato il fortunale.

Sembra di ammirare l’olio lucente

di un maestro. A quell’epifania,

ci accomuna un sentimento gioioso,

fremente, all’ineffabile ripetersi

dell’eterno, un palpito che deplora

la durata. Ci vince interiormente,

ogni volta più intenso, essenziale.

Così, a distanza di anni, il ricordo:

una luce difende la bellezza

strenuamente, e la onora, è il tributo

di un fiore che eterna la poesia.

Qualcosa che vive in noi, oltre di noi.


 

 

L’approccio all’opera d’arte non dev’essere né nozionistico, né dogmatico. La vertigine di fronte a una copia del Cristo di Hans Holbein ce l’ha ben descritta Dostoevskij. Il Cristo “senza potere” si trovava al centro vertiginoso di un coinvolgimento emotivo, “irrazionale” del principe Myskin. Trovarsi nel centro è diverso dal trovarsi in una posizione predominante. È il centro fideistico di un Istante che ha scelto il visitatore come “logos spermatikòs”, l’attimo che resta fuori da una “ricaduta” temporale. In quell’attimo non c’è tempo per interpretare l’Altro dell’opera d’arte. È uno “studio” che sposta il visitatore al di fuori del proprio centro, e senza neppure scegliere di sentire Sé come soggetto che guarda, l’Io non risponde più a se stesso, non governa l’energia dell’Essere e la dynamis, espropriata dell’Io, favorisce un depensamento. L’io non è padrone in casa propria – per dirla con Freud. Il fruitore ideale è un “apolide”, senza più luogo, e alogico, che non vuol dire illogico. Il visitatore è lì per sottrarsi a favore dell’Altro, e nell’oblio di Sé trascende il significato, con l’affermazione di uno sguardo puro.


 

L’abbraccio dell’arte

La vita è quieto desiderio di albe

e tramonti; nei convegni d’amore,

ebbi l’Uomo come maestro: un giorno

prese la forma di un roveto ardente,

e un nastro argenteo di eterne sillabe

sciolse il silenzio in un caldo torrente.

E nato al canto, qui felice plaudo

il dono delle foglie non più mute,

ma salmi estemporanei, all’esordio

della Natura che materna accoglie,

nel suo grembo, umili e diseredati.

Il Verbo parla a chi si crede indegno.

L’arte è un fiume che ha sete di vita,

il fiume perenne di tutti gli uomini.


 

 

Il silenzio prende vita

Coloro che verranno dopo di me

troveranno qualche brandello di creta:

la traccia sta in un gioco di magia,

la vita che nasce ogni giorno in silenzio;

non può rimanere a lungo quel drappo,

sotto, è il busto di un antico uomo.

Le ombre si allungano sul porticciolo,

assaporano la notte, favorendo,

al di là, un bacio, meno esoterico

di un tuo bacio, che non ebbi mai.

L’ho atteso per anni: con la stessa

ansia, il bimbo attende il gioco di prestigio,

la mano che scolpì il velo disceso

sulla fronte del santo.


Al di là della scrittura 

Non serve la scrittura a incoraggiare

la poesia: è un dono silente,

la parola interdetta alle pause, alle albe;

di là da venire, la madonnina

stilizzata che frequenta ancora i sogni.

Per coloro che muoiono ogni giorno,

l’amorevole dono di una lacrima

e una parola che evita il dolore

sono voci d’ignota poesia.

La madonna stilizzata presente

nella memoria del bambino sorge

dalle lacrime raccolte in silenzio.

 


Mancano pochi tratti

Giochi d’ombra avvolgono un’ultima isola

di silenzio, ove trema la candente

luna. E dispare il furore del giorno.

Sono pochi attimi, per l’esistente,

mentre a noi arride l’immaginario.

Con il sonno, la natura offre un filtro 

magico, per i tuffi temporali.

La mia anima è in tumulto, nasce,

rinasce; una preghiera di rugiada 

bagna la foglia autunnale, l’istante

tradotto nella lingua del mattino.

E non vado oltre, qui e ora, sempre.


Questa vita di un giorno

 

Questa vita di un giorno

Ti ritrovo nell’onda che si scinde

e assume più voci, agili animule,

varchi che commuovono ancora, smuovono

il cuore protetto da una valva,

tacito negli abissi, come un’opera

da scoprire, rara perla sinfonica.

La forma evoluta è quel suo silenzio

che parla: a volte un sorriso interiore

sfugge alla sua natura solitaria,

e cerca la tua voce tra i flutti.

La conchiglia si apre: la perla è libera.

E prima che la metafora sfoci

in catacresi, il cuore sarà tuo.

.


L’anima del mare

Ti carezzi i capelli: un gesto semplice
reca una grammatica di emozioni
che i gremiti strati della coscienza
raccontano, figli di una poetica
attinta al ciclo quotidiano e lice,
intorno a te, viva condivisione.
Il mare, sogno azzurro, sfida i sogni,
fuori dalla finestra, provoca immagini
che giocano con la memoria in festa
per l’Idea che rimane fanciulla:
l’anima del mare offre quell’eterna
carezza, e dà ancora ciò che mi desti.


“Umile e alta più che creatura”

Ancora urge il ricordo dell’effigie:
il riflesso del devoto sul vetro
protettivo, sotto le fioche luci
di un’ultima stazione abbandonata
da Dio, alla periferia del mondo,
tra province deserte di germogli
e di sorprese, dove qualche treno
arriva trascinandosi l’odore
di una solitudine irrazionale.
Non c’è più un uomo che gli stia di fronte:
nel deserto, lui parla a un’effigie,
ci vuole qualcuno che ascolti bene,
e l’unica parola di conforto
la ritrova nel silenzio di un volto
a cui non si chiede la voce orale,
e davvero è l’oltre di chi è solo,
astrazione che riconduce agli angeli
la luce di quello sguardo interiore.


 

 

Il Tutto da dire

 

Non disperdono i rintocchi dell’ora

le altre ore, briciole d’eternità

di un tempo che sovrasta la rincorsa

folle dei minuti, il rapido volgere

degli eventi nel condizionamento

da una fisica caducità,

cui diventa oggetto il Tutto da dire,

senza miti silenzi,

frazioni espressive che ricarichino

di senso il nostro contratto dialogico;

se recuperassimo il nostro tempo,

discetteremmo della sua funzione,

non più oggetti, ma soggetti attivi,

per l’intrattenimento su quel Tutto

da dire irrisorio verso transienti

falciature, all’annuncio dell’occaso.


 

Anisotropico Aldilà

Se per l’intesa di un’intima logica

dovessi anche, vibranti sfumature

e l’affaccio vivace di Iperione,

guardare, senza luce, dentro inquieti

occhi di metallo, in danza di elata

rondine, crescente enigma per àuspici,

mi tufferei subito nell’istante.

E salutando ogni esordio, da iri

a iri, nell’ebbrezza corale,

giunto già al di là, non più mi occorre

una dimostrazione matematica

dell’esistenza di Dio.


 

 

Infinito e Attimo sono categorie accessibili a una concettualizzazione, ma non verificabili. Io posso ricorrere linguisticamente alla cosa infinita o alla cosa chiamata “infinito”, ma non posso realizzarla o identificarla con un ente: la rappresentazione di simili concetti avverrà attraverso metafore o simboli di cose finite, nel camuffamento della loro finitudine. In questi casi, il percetto, l’oggetto della percezione, supera la percezione stessa. La linea su cui il cielo tocca il mare offre un’idea di infinito. E avremo l’infinito orizzonte marino. Ma analizziamo un altro concetto, quello di Amore. Troveremo che anche l’Amore sia irrappresentabile, con o senza maiuscola. In Dante, l’Amore addirittura è ed esprime l’identificazione con Dio, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. E Dio è per l’appunto un concetto irrappresentabile, nella sua assolutezza. Per quanto l’Amore possa avere una “nozione”, un’idea, un “valore”, e non una “cosa”, noi però possiamo innamorarci veramente. Noi, esseri finiti, possiamo vivere e realizzare un attributo infinito. L’Amore è una realtà infinita.