Il Nociaio

Racconto, ambientato sul TRENO da Perugia a Terontola e a Firenze
nella sala di attesa di 2° classe a Terontola.
IL NOCIAIO.
E’ possibile che odiavo tutto mentre dai finestrini del treno passavano gli alberi, i colori d’autunno, le foglie, il marrone delle terre, dei tronchi, i gialli ; avevo paura, la paura.
….ma il Sole e le cose sono più forti di me e ora dalla stazione di Tuoro cominciavo a riscoprire, a rivedere le cose; l’acqua, le erbe, il sole; sono i nostri occhi che fanno le cose belle, la nostra coscienza a renderle vivibili ed ora che anche il treno si allontanava da Perugia riuscivo a viverle: le zolle della terra, i pali di cemento delle viti, una serie di arbusti con foglioline piccole, piccole attaccate agli alberi ; mi divertiva questo gioco appena scoperto di abbassare gli occhi per pochi secondi e poi di rialzarli un attimo dopo per vedere il paesaggio trasformato già diverso: le case, la pineta lassù, due fienili, la casa colonica appena rimessa c’era ancora la gru là vicino, gli alberi, la campagna che si stendeva assolicchiata, non avrei mai finito quel gioco e non pensavo,
almeno mi illudevo di non pensare : non ce la farà, non ce la può fare, è tutto inutile !
Il treno intanto stava arrivando diritto, diritto nella stazione di Terontola, puntuale questa volta perché tanto la coincidenza per Firenze ci sarebbe stata solo un’ora dopo.
Un’ora di attesa nella piccola sala di seconda classe coi sedili di legno ben divisi
dai braccioli : avevo il tempo di riordinare i pensieri, di riordinarli tutti.
Per ogni volta che il gabbiano cerca di volare.
Per ogni volta che rimane ferito.
Per ogni volta che ritenta di volare
perché questo è il suo destino!
Mi ritornava in mente la tenacia e la vittoria di Jonathan il gabbiano perché assurda è la vita, la mente umana è assurda. Per anni avevo vissuto nella convinzione del tempo, che occorresse il tempo, per fare tante cose, oggi di fronte a Cesare il tempo non esisteva. Mia madre passava le ore tutte uguali, non so con quale forza sperando, però che arrivasse la sera ed avendo paura che ritornasse il giorno. Per Cesare il tempo non esisteva; per lui tutti i momenti e le persone non esistevano, non c’era nemmeno l’amore di sua madre, così tenace, così…. troppo immenso per darti la possibilità di donare; per Cesare esisteva il suo male, l’angoscia che livellava ed uccideva tutto.
Si alzava un martello spietato e “bang” un colpo tra i suoi pensieri, li metteva in disordine, non sapeva più scegliere, i problemi tutti li aveva lì presenti, solo i problemi, non c’era nient’altro e la impossibilità di scegliere, o meglio l’incapacità di scelta.
Il signore accanto a me continuava imperterrito a sminuzzare qualcosa che teneva nascosta bene fra la carta, potevano essere due fette di pane, ma a me piaceva pensare che fosse un pezzo di dolce; sminuzzava, faceva briciole, muoveva facendo quel rumore tipico di accartocciamento; la carta; vicino in un sacchetto, teneva della frutta, addirittura noci, come era rumoroso, come un nociaio e sbocconcellava.
Come è assurda la vita, la vita che delirio !
La signora alla mia sinistra parlava di gelati col figlio ; gli unici silenziosi erano: il signore seduto al tavolo che leggeva le pagine di un giornale completamente aperto, mi davano un’immagine che mi piaceva, erano come una tovaglia, un lenzuolo; silenzioso era anche un giovane dall’aria intellettuale come quella che di solito si assume a quell’età e il vecchietto dai capelli bianchi che proprio ora si stava alzando per andare a prendere il treno appena arrivato.
Le noci intanto non erano finite, i suoi denti diventati schiaccianoci continuavano, Ah, la vita !
Ah, la vita !
Non sapevo dare delle risposte non volevo darle, non sapevo di averle; il tempo si era fermato….non esisteva !
Le mattonelle grigie e nere si ripetevano nella sala di attesa di questa stazione, sulle mattonelle il bambino non parlava più con sua madre, ora lei parlava con un’altra coppia. Che strano personaggio in cappello stava entrando dalla porta di fronte, ma niente poteva fermare il mangiare del nociaio.
Un Amore, sì un Amore di quelli che ti travolgono, che ti lasciano la possibilità di respirare e che ti porti su onde azzurre senza mai stancarsi, ma il tempo era freddo, l’aria entrava dalla porta aperta della sala di attesa; fredda era la luce delle lampade al neon e gli occhi e il mio corpo non sapevano colorare gli azzurri. Un amore che travolge le cose ed io che mi illudevo..sempre …
……sempre.
Cesare, su Cesare avevo perso le mie illusioni, le mie speranze erano chiuse in una durissima corazza di ferro di una fittissima maglia di grigie trame che si chiamavano angoscia, disperazione..,ma la più forte di tutte, la paura.
Non potevo più vivere nemmeno io?
Dovevo vivere io ? Chi ero io per vivere, per sorridere? Lui no ? Lui mai?
Il folle mangiatore, richiusa la sua valigia, si era alzato per scomparire dalla porta centrale e forse per sempre.
Nessuna delle cose lì aveva cambiato di posto: ne’ una mattonella, ne’ una luce, ne’ il signore che continuava a leggere il giornale aperto, ne’ l’intellettuale; eravamo nel momento fatato dell’attesa, dei passi che risuonano.
Il mangiatore era rientrato improvvisamente dalla porta laterale per sedersi proprio accanto a me ed ora leggeva il giornale in silenzio, questa volta senza nemmeno battere ciglio, assorto, molto assorto; al mio orologio erano le 16,10. Quaranta minuti erano passati e Cesare?
Cesare? Cesare? Mi pareva ingiusto che fosse ancora così, ma le mie proteste non erano ne’ saggezza, ne’ capacità…. forse disperazione, rabbia, insofferenza, malessere e mi sentivo male, non respiravo più; gli occhi sulla parete della sala di attesa mi ritornavano alla mente e proiettavo chiaramente i volti dei signori Genovese, il loro amore per Cesare, lui come un fratello, la moglie ne soffriva tanto di questa situazione e quando poteva portava a Cesare i dolci, le cose più strane.
La forza di tentare che ti davano gli operatori del CIM: Flavio Temperini, Gualtiero, Mario, la dottoressa Cerletti.
Ma la chitarra era nella sua custodia, Giorgio non riusciva a fargliela suonare.
La polvere era sulle sue lettere e sulle cartoline che riceveva tutto, tutto era immobile intorno a lui, nella sua mente; la grande fucina dei suoi pensieri, cattivi pensieri come diceva lui, era in funzione e si agitavano e l’agitavano senza creargli risposte, alternative speranze. La gioia che potevano promettergli gli amici: Floriana, Carla, Fabio, Gabriele, Silvano, Luciano, Cristina, Maria Grazia, Lucia, Giuliano, Giuseppina, Mariella…… non
riusciva a superare il muro della sua indifferenza .
” andate via.voglio stare solo “.
In quel momento, perdevo anch’io la forza di vivere. Un amore ci voleva la forza, la comprensione di un amore, ma io non sapevo, ne’ viverlo, ne’ cercarlo, anche nella mia mente c’erano delle assurdità, delle cose che spesso non volevo accettare.
Tua sorella Carmelina
Per circa due anni sono stata pendolare, al fine settimana, da Perugia a Firenze e viceversa vivendo sulla pelle che cosa vuol dire avere una persona a cui vuoi bene e che è dipendente da psicofarmaci…. Toccando con mano la grande sofferenza di mamma e papà, la loro dedizione, il coraggio, la speranza “solo ad una cosa non c’è rimedio”
(diceva mio padre)… trovando sulla mia strada, in quel tempo, l’ amore,
l’ uomo della mia vita :
9 maggio 1986….. per ricordarmi che:
NON ABBIAMO ALTRE STRADE CHE QUELLE DELL’ AMORE, anche a Cesare non posso che augurare di incontrare persone che gli vogliono veramente bene, quel bene che genera rispetto verso i nostri simili permette di vederne le doti e che ci impedisce di calpestarne la dignità. Anche Cesare ha il diritto di “VOLARE “ !!!


 

Imperciocchè

Il dizionario Devoto-Oli definisce “imperciocchè” come: “Perché, per ciò che, per il fatto che, con valore causale o dichiarativo. [Comp. di imperciò e che]. Questa parola, usata da Boccaccio nel suo “Decamerone”, Bruegel, Gaudí e il Castel di Poggio di Fiesole (FI) hanno ispirato la prof.ssa Carmelina Rotundo per la stesura di un film-fiaba che lei stessa così introduce:

«IMPERCIOCCHÈ: la parola strana, che sa di magico che ho incontrata leggendo il Decamerone di Giovanni Boccaccio, mi è subito piaciuta tanto da sceglierla come titolo di questo film-fiaba che nasce davvero in maniera singolare. Manlio Lapi che lavorava allora per la “Freccia Azzurra” mi chiese di scrivere una sceneggiatura per un film che doveva avere come destinatari i bambini e l’ambientazione a Castel di Poggio. “Non se ne parla nemmeno” risposi dato che mi dava solo una settimana di tempo. Sembrava imminente la sua realizzazione che invece non avvenne, Manlio non si scoraggiò e senza frapporre tempo mi venne a prendere con la motocicletta per portami al castello e lasciarmi lì un giorno intero dicendomi: “Non ritornerò a prenderti finché non avrai scritto la sceneggiatura”. Ciò che venne fuori è questa proposta nella quale si riuniscono le mie letture e “passioni” di quel periodo della mia vita.
Nel Decamerone di Giovanni Boccaccio imperciocchè è un vocabolo del grande scrittore del mille e trecento.
La fantasia di Antonio Gaudí di cui avevo conosciuto le meraviglie durante un mio soggiorno a Barcellona e Bruegel con i suoi quadri così movimentati e ricchi di particolari.»

Storia del Castello
Il primitivo insediamento, presumibilmente duecentesco, era stato edificato inglobando la sommità del Poggio, dal quale aveva derivato il nome e su di esso si era innestata la residenza di campagna dei Del Manzecca che fu demolita nel 1348 per decreto della Repubblica fiorentina.
Niccolaio degli Alessandri, imparentato con i Medici, nella seconda metà del XV secolo, fece ricostruire l’intero complesso caratterizzato dalle mura merlate, l’alta e robusta torre, la dimora signorile e la cappella.
Nel secolo XIX il castello subì alcune modificazioni come l’ampliamento della zona occidentale e il rinnovamento dell’edificio religioso.
Negli anni 1921-22 la famiglia Gamberetti, ultima proprietaria, affidò all’architetto Castellucci il rinnovamento in stile neo-gotico del complesso architettonico, la realizzazione della “sala d’armi” e le decorazioni in pietra degli interni.
Questi elementi, assieme ai pregevoli arredi mobili ed opere di varie epoche di provenienza, raccolti dagli Zamberletti e recuperati nella loro collocazione originaria, caratterizzano ancora oggi gli ambienti monumentali.

Il Castello ha ispirato Carmelina Rotundo portandola a scrivere una sceneggiatura per un film fiabesco scritto per i bambini e interpretato da loro. La presenza di adulti, infatti, è veramente limitata: si trovano solo un cuoco, una cameriera, un autista di scuolabus e un animatore che però non parlano mai. Dall’inizio alla fine i protagonisti sono i bambini con la loro fantasia, il loro rapporto speciale con la natura e la loro voglia di giocare ed esplorare.
La scena si svolge interamente nel Castello, che fa da sfondo alle scoperte di un bambino venuto da lontano, che utilizzando una pietra che risolve i problemi, prima scruta la natura e tutti i piccoli animali che trova nel giardino e poi viene incuriosito dai suoi simili. Il gruppo di bambini che troviamo nella storia partecipa ad un campo “solare” e, dopo aver fatto incuriosire il bambino, viene incuriosito a sua volta da lui. All’inizio il rapporto è complicato perché c’è l’ostacolo della lingua, ma loro riescono a trasformare in un gioco anche questa difficoltà e allora si può giocare tutti insieme!
… e questo è ciò che ha prodotto l’ispirazione di Carmelina.

*****

IMPERCIOCCHÈ

Sceneggiatura per un film-fiaba da girare a Castel di Poggio di Fiesole con i bambini di un campo solare.
di Carmelina Rotundo

Giugno 1985

Sinossi
Un cancello si apre ed un bambino l’oltrepassa iniziando l’itinerario di tante scoperte. Lui è di un altro pianeta, ma è molto simile ad un bambino di dieci anni e può fare cose eccezionali grazie ad una pietra che porta al collo.
Arriva ad un castello dove un gruppo di bambini è impegnato nelle varie attività di un campo solare.
Il bambino invece di partecipare con gli altri si nasconde ad osservarli e rimedia,sempre da lontano, ad alcuni incidenti con la sua pietra magica.
Gioca e comunica invece con gli animali e le piante del bosco. Quando rimane solo nel castello di notte scappa fuori per andare a dormire sotto la luna.
Alla fine, tradito dalla curiosità, viene scoperto dagli altri bambini: saranno amici.

ESTERNO – CANCELLO. GIORNO
Un bambino è seduto su un muretto vicino ad un cancello.
Tutt’intorno c’è il bosco.
E’ un bambino di circa dieci anni dall’aspetto normalissimo, ma porta un oggetto particolare: una collanina con una grossa pietra.
La quiete del bosco è interrotta dal suono di un jet. Il bambino guarda in su, ma il cielo è sgombro.
Con un salto scende dal muretto e si accovaccia a terra ad osservare una fila di formiche. (Mentalmente) conta.

Voce di bambino (fuori campo)
Uno… due… tre… quattro… cinque…
Le formiche passano, si scontrano, ripartono.
Voce di bambino
Centocinque… centosei… centosette…
Il bambino accovacciato fa per appoggiarsi al cancello che si apre completamente su un viale fiancheggiato da cipressi.
Sul cancello aperto c’e la forma di un drago stilizzato con le fauci aperte. E’ il Drago del cancello realizzato da un architetto davvero geniale: Antonio Gaudí.

Conobbi, attraverso le opere, questo genio e ne rimasi tanto ammirata da scrivere al Professor Juan Bassegoda i Nonell, direttore della Biblioteca i Musei d’arquitettura de la real catedra Gaudí, il quale leggendo il diario spagnolo di allora mi rispose riferendosi al mio scritto su Gaudí “come se lo avesse conosciuto”.

ESTERNO – VIALE. GIORNO

Il bambino rialzatosi, dopo un attimo di esitazione, inizia a salire per il viale. Passando accanto agli alberi li conta

Voce di bambino (fuori campo)
Sei… otto… dieci… dodici…

Si avvicina agli alberi e tocca, come carezzando, la corteccia. I cipressi, dondolando le loro cime, sembrano rispondere.

S’incomincia a sentire delle voci lontane di bambini. Il bambino è incuriosito e corre lungo il viale in direzione delle voci che si fanno sempre più vicine e chiassose.

ESTERNO – DAVANTI – CASTELLO. GIORNO
Il bambino corre lungo il muro laterale del castello con il chiasso che si fa sempre più vicino. Arrivato all’angolo si arresta di colpo.
Meravigliato e sorpreso vede una cinquantina di bambini che stanno giocando chiassosamente. Alcuni bambini giocano con dei cerchi, altri a cavallina, c’è chi fa capriole, chi salta, chi corre, altri bambini si sono mascherati, altri ancora hanno allestito un corteo con tanto di re, di regina e di cavalieri ( Vedi I GIOCHI DEI BAMBINI di Bruegel)

All’improvviso un animatore richiama alcuni bambini.
Il bambino che era rimasto ad osservare i giochi di scatto si nasconde infilandosi dentro un portone
Un urlo di una bambina fa accorrere animatori e bambini. La bambina ha un ginocchio sanguinante e piange. Tutt’intorno c’è agitazione.
Il bambino sempre nascosto si affaccia al portone, porta la mano alla collanina e fa girare la pietra tra le dita facendola brillare.
Come d’incanto, il sangue sul ginocchio ferito della bambina non c’è più e la ferita è sparita. Lo stupore di tutti viene subito interrotto dall’arrivo del pulmino sul piazzale e da colpi di clacson che richiamano i bambini, che dimenticando d’un colpo l’accaduto prendono d’assalto lo scuolabus.
Il bambino continua ad osservare il pulmino stracolmo di bambini vocianti e rimane solo.

INTERNO – CASTELLO. TRAMONTO / NOTTE

Il bambino è rimasto solo nel castello. C’è silenzio.
Incomincia a guardarsi intorno: stemmi, finestre, alti soffitti a cassettone, scale.
C’è solo il rumore del vento. Inizia a salire. I suoi passi riecheggiano nella grande sala. Arriva ad una porticina, l’apre lentamente. All’interno di una sala vuota con delle alte finestre dalle quali svolazzano delle enormi tende c’è solamente un quadro ( Il Gioco dei Bambini di Bruegel).
Il bambino si avvicina al quadro e con il dito ripercorre i vari giochi rappresentati.
La porticina si chiude di colpo con un tonfo. Il bambino riprende l’esplorazione del castello. Affacciandosi ad una finestra vede il sole tramontare oltre il bosco. Il vento porta il rintocco di campane lontane. Alcuni oggetti cadono. Si fa buio. Il bambino comincia ad avere paura. Qualcosa come un’ombra lo spaventa ed il bambino di corsa attraverso porticine, corridoi, sale, scale fugge fuori alla luce della luna e si rifugia nel bosco tra gli usignoli. Si accovaccia e si addormenta.

ESTERNO – BOSCO. GIORNO

Il bambino viene svegliato da una capretta. Fa amicizia con l’animale ed insieme girano per il bosco, incontrando altri animali: galline, conigli, oche, uccelli. Il bambino gioca con gli animali e con le piante.
Riavvicinandosi al castello, vede spuntare da dietro un muretto un enorme cappello da cuoco ed un grosso fiocco blu che scorrono in fila. Incuriosito, il bambino segue questa strana processione per scoprire poi che altro non sono che il cuoco e la cameriera che stanno portando una torta per il pranzo dei bambini dietro al castello.

INTERNO – CASTELLO. GIORNO

All’interno del castello è stata apparecchiata una lunghissima tavola con tutti i bambini a sedere.
L’arrivo del cuoco e della cameriera con una torta è accolto dai bambini con urla di gioia e di evviva.
Mentre viene servito il dolce, il bambino si infila sotto la tavola tra cento gambe.
Finisce l’acqua ed un bambino si rivolge al più piccino del gruppo.
UN BAMBINO
Vai a prendere l’acqua che è finita.
Il piccino va a prendere un grosso recipiente pieno d’acqua che a fatica riesce a sollevare e barcollando si avvia verso la tavolata: ad un certo punto però inciampa e la bottigliona cade per terra rompendosi in mille pezzi.
Disperato, il piccino si porta le mani alla testa e viene addirittura rimproverato dal bambino più grande.
UN BAMBINO
Che hai fatto? Non ti si può far fare niente?
ALTRO BAMBINO
Ed ora, come facciamo che non c’è più acqua?
Il piccino è imbronciato e triste.
Improvvisamente il bottiglione si ricompone e l’acqua torna nel recipiente in mano al piccino stupefatto. Il bambino da sotto la tavola sta muovendo la sua pietra magica. Come se niente fosse successo, anzi festeggiando il piccino, i bambini riprendono a mangiare.
Il bambino tra le gambe sotto il tavolo allunga una mano e si frega un pezzo di torta lasciando un’impronta verde sulla tovaglia.
Alla fine i bambini si alzano e se ne vanno.
Il bambino rimane da solo sotto il tavolo in una luce dorata a continuare a mangiare tutto soddisfatto

ESTERNO – PRATO. GIORNO

Adesso i bambini sono sul prato impegnati a fare dei grossi disegni a gruppi con diverse tecniche. Il bambino da lontano è incuriosito di vedere i disegni che stanno facendo. Sbuca da dietro una siepe e si avvicina.
Passa da un gruppo ad un altro, quando un bambino lo guarda bene e gli chiede:
TERZO BAMBINO
E tu chi sei?
Il bambino non risponde. Guarda gli altri e scappa via. Prima uno poi due, poi tutti gli altri gli corrono dietro.
TERZO BAMBINO
Ehi vieni qui. Dove scappi?
Alcuni bambini gridano.
QUARTO BAMBINO
Rincorriamolo!
QUINTO BAMBINO
È andato per di là.

ESTERNO – BOSCO. GIORNO

Tutti i bambini sono alla ricerca tra i cespugli e gli alberi del bosco.
All’improvviso uno di loro grida:
SESTO BAMBINO
Eccolo laggiù! Venite!

ESTERNO – CASTELLO. GIORNO

Il bambino è accovacciato vicino al cancello ad osservare delle formiche.
Viene circondato dai bambini ansimanti per la corsa e gli chiedono:
SETTIMO BAMBINO
Come ti chiami?
OTTAVO BAMBINO
Quanti anni hai?
NONO BAMBINO
Che cosa ci fai qui?
DECIMO BAMBINO
Che cosa stai guardando?
Il bambino lo guarda e non risponde.
UNDICESIMO BAMBINO
Forse è muto.
DODICESIMO BAMBINO
Forse non ha la lingua.
TREDICESIMO BAMBINO
Sei straniero?
Una bambina si china accanto al bambino, prende una formica in mano e scandisce.
BAMBINA
F-o-r-m-i-c-a
Il bambino ripete piano.
BAMBINO
F-o-r-m-i-c-a
La bambina fa un urlo di felicità e lo abbraccia.
Nell’abbraccio le mani del bambino tingono di verde il viso della bambina.
Tutti la guardano e scoppiano a ridere.
Qualcuno chiede serio:
QUATTORDICESIMO BAMBINO
Perché hai le mani verdi?
Il bambino prende per mano la bambina e la porta ad un albero.
Le fa accarezzare la corteccia ed uno dietro l’altro imitano tutti il gesto, tingendosi le mani e le facce di verde

ESTERNO – VIALE. GIORNO
Allegramente tutti insieme con in testa il bambino e la bambina si avviano su per il viale verso il castello. Ognuno indicando qualcosa e dicendo il nome:
verde…
mano…
albero…
bosco…
sasso…
strada…
castello…
*****

I padiglioni della Finca Guell a Barcellona rappresentano un’importante opera di Gaudí, perchè prima sintesi tra innovazione tecnologica ed artigianato decorativo. La porta d’ingresso è una grande scultura di ferro in cui viene raffigurato un drago che richiama le gesta di Ercole, che lo vedono come mitico fondatore di Barcellona. La Finca simboleggia il giardino delle esperidi che può essere espugnato solo dal novello Ercole ovvero Eusebi Güell, facoltoso mecenate di Gaudí. Questo padiglione dava accesso all’antico spazio di divertimento proprietà della famiglia Güell,.

I padiglioni della Finca Guell a Barcellona rappresentano un’importante opera di Gaudí, perchè prima sintesi tra innovazione tecnologica ed artigianato decorativo. La porta d’ingresso è una grande scultura di ferro in cui viene raffigurato un drago che richiama le gesta di Ercole, che lo vedono come mitico fondatore di Barcellona. La Finca simboleggia il giardino delle esperidi che può essere espugnato solo dal novello Ercole ovvero Eusebi Güell, facoltoso mecenate di Gaudí. Questo padiglione dava accesso all’antico spazio di divertimento proprietà della famiglia Güell,.
Io e Carmelina Rotundo abbiamo voluto proporre questo film-fiaba come un invito ad entrare nel mondo della realtà con gli occhi della fantasia e allo stesso tempo del cuore, con l’augurio che il cancello di Gaudí apra ad un nuovo modo di vedere la vita.

Io e Carmelina Rotundo abbiamo voluto proporre questo film-fiaba come un invito ad entrare nel mondo della realtà con gli occhi della fantasia e allo stesso tempo del cuore, con l’augurio che il cancello di Gaudí apra ad un nuovo modo di vedere la vita.

Bibliografia:
http://tundoro.altervista.org/blog/index.php?id=c66a07b923

http://www.casteldipoggio.com/

http://www.gaudiallgaudi.com/CA014.htm

http://gardenofpraise.com/art28.htm
Visto da Monica


SULL’INTRECCIO,ancora non risolto,TRA I GIARDINI E LA MIA VITA
Storia dell’ombrello… che non voleva chiudersi!

Teneramente conquistata dai giardini di Firenze!
Ero così felice un anno fa, sotto la pioggia fitta, fitta, scrosciante con i sandaletti e senza calze; era per me la prima volta al giardino Bardini …e come l’avevo percorso per ogni angolo rimanendo conquistata dalle piccole pietre, i sassolini dei sentieri, dalla vegetazione, dalla scenografica scalinata, dalle statue, dal loggiato, dal panorama mozzafiato contraddistinto dalla distesa dei coppi color cotto dell ’Impruneta che da lì si gode di Firenze, di … e da te.

I piedi era impossibile salvarli si andavano completamente, liberamente bagnando, ma la sensazione non era affatto spiacevole, anzi, a dire il vero, quelle gocce di pioggia mi stavano rendendo parte della natura come se la mia metamorfosi vegetale stesse per iniziare …
Per la testa al contrario nessun problema; il mio ombrello aveva deciso: rimango sempreaperto!
Imbarazzata mi ero così affacciata sotto il grande tendone del rinfresco, quasi, quasi stavo per andarmene, se non fosse venuto in aiuto un cameriere, il quale vedendo, forse anche divertito dai miei inutili tentativi di chiudere quell’ombrello me lo aveva preso di mano con gentilezza;
“ Troviamo un posto adatto anche per l’ombrello!”
Insomma era normale per lui, o almeno lo dimostrava con quel sorriso, rincuorante che
l’ OMBRELLO fosse rimasto aperto sotto la pioggia sempre più scrosciante.
Avevo così avuto via libera per tuffarmi in quel ben di Dio: tra cibi e bevande per poi ritornare a riprendere il mio bell’ombrello sempre aperto e davvero ben custodito !
Anche all’autista del pullman sembrò normale che l’ombrello non si chiudesse e così, con i piedi completamente bagnati di pioggia, con la leggerezza del cuore, meravigliosamente innamorata ero ritornata per i i viali di una Firenze che sentivo ancora più bella, profumata, bagnata di gocce una, due,tre,…. cento, mille e più gocce di pioggia, ognuna con un pezzetto di cielo dentro o almeno così sembrava al mio cuore.. Ricorreva la festa del Santo patrono d’Italia, San Francesco.

Oggi 21 Ottobre ritornavo al Bardini per puro caso. Non l’avevo preventivato, né ne avevo desiderio (anche il ritardo pazzesco dell’autobus sembrava non volermici: ricondurre quasi non desiderasse rendersi complice di questo ritorno). Forse io inconsciamente non volevo perché… il mio cuore innamorato aveva conosciuto il linguaggio della solitudine… la pioggia, però mi aveva sospinta fitta, fitta anche in questa ventunesima giornata d’Ottobre, ma non scrosciante; la pioggia come la prima volta!
Non più i sandali ai piedi e senza calze e con un ombrello più docile ai miei comandi di aprirsi e chiudersi; tutto nella norma!
L’esposizione fotografica: “1931, il giardino italiano in mostra”
non mi sollecita più di tanto; troppo, troppo affollata… troppo, troppo solitaria, troppo… e mi manca il coraggio di inoltrarmi per i sentieri, di ripercorrere con lo sguardo le meraviglie del giardino di Stefano, quello Stefano Bardini che tanto ha fatto per rendere Firenze un centro mondiale dell’antiquariato internazionale.
Mi manca il colore di cielo in queste gocce di pioggia, quel meraviglioso sentirmi leggera- innamorata, mi manca quel sorriso quel gesto del cameriere che aveva trovato un posto adatto al mio ombrello sempre aperto!
365 giorni e più erano passati!

SULL’INTRECCIO, ancora non risolto, TRA I GIARDINI E LA MIA VITA…… .
Da BOBOLI, appena giunta a Firenze da Perugia, mi sono trovata conquistata tanto da approdarvi quasi ogni giorno, per paura di perderlo per “rubarlo così con lo sguardo” ogni volta, come la prima volta. In quel tempo Pitti entrava nella mia “familiarità” per merito di una guida dolcissima, di Andrea, uno degli uomini meravigliosi della mia vita…..
Al BARDINI mi sono… per quei segreti sentieri del cuore che nessuno sa, neppure io.
Al BOSCO di FONTELUCENTE, conquistata dall’Osmanto dall’intenso profumo regalatomi, da onde di vento e dai secolari cipressi che, come obelischi egiziani, si innalzano verso il cielo ..ed immaginando già il patrimonio di sculture che Amalia Ciardi Duprè, la mia amatissima Amalia, avrebbe da lì a poco donato.
In mezzo al palpitare di foglie di ogni forma a misura…. mi piace qualche volta
toccarle, respirando profumi, godendo dei raggi del sole o sotto gocce di pioggia, teneramente a piedi nudi per amore del contatto con la sacra Terra, io piccola onda d’azzurro, leggero filo d’erba, foglia, fiore, spina, anello di una catena dove tempo e spazio si congiungono nell’infinito, io stavo amabilmente percorrendo i sentieri della vita nei giardini …

Senza mai dimeniticar le calle il mio fiore preferito, quello che non ho mai tradito !!!