LA NOTTE DI KHIVA

Il tempo inesorabile scorre
anche a Khiva uzbeka,
porta d’Oriente,
dove pure sembra essersi fermato tra cento minareti meno uno
che indicano il cielo.
La notte rincorre il giorno tra i vicoli di ichan kala,
mentre il vento caldo d’agosto
corrode le mura di fango
e lascia scoperte le tombe
su cui si innalzano,
qua e là,
i vessilli bianchi del Profeta.
Rakhmat,
grazie,
notte di Khiva uzbeka.
Arrestata per un attimo infinito la tua rincorsa del giorno,
ti ritrovo seduta con me
davanti la Porta del Padre,
mentre confondi la mia mente,
e più il mio spirito,
regalandomi
l’illusione
di una sopportabile eternità.


MITICO LACERANTE NOTTURNO BLUES

Questo orologio scandisce il tempo
come un blues,
un blues triste
che divide in pezzi la mia vita,
una vita che ho ridotto ad un ammasso
di inutile sofferenza,
distribuita a piene mani
e non recuperata.
Si può ripercorrere il tempo
di un profondo triste blues ?
Posso ridare senno ad una vita smarrita ?
Ritrovare il sonno naturale ?
Circondarmi, di nuovo, di serena incomprensione ?
Smettere di registrare angoscia ?
Un blues suonato con un orologio,
niente basso, percussioni o chitarra,
un blues cantato dalla mia incolpata anima,
niente calda voce della grassa cantante nera.
Un blues che si ascolta di notte,
quando mi sveglia togliendomi il sonno.
Un blues che fa domande
Che non sa dare risposte.
Un blues che non consola,
ma anzi turba e spreme la memoria.
Un blues che mima un assolo
Con il cuore che forsennato si scuote in gola.
Un blues, un blues, un blues.
Mitico lacerante notturno blues.


L’ATTESA

Lei era seduta con le gambe accavallate ad uno dei tavolini del piccolo bar della piazza grande.
Passando notai i suoi capelli sciolti, lasciati liberi di ricadere sulle spalle nude; mi soffermai a guardare il gioco della gonna che, mossa appena dalla brezza della sera, di tanto in tanto scopriva
un ginocchio.
Ricordai il suo profumo e fui subito pervaso dal desiderio di sentirmene riempire la testa sino ad inebriarmi.
E così, ignorando l’offesa, permalosa, mia ritrosia, mi avvicinai al suo tavolo sussurrando appena la mia contrarietà, stemprata, ormai, dalla magia del suo respiro calmo ed odoroso.
“Tutta la notte ho aspettato, invano, che venissi – le dissi – perché ti prendi gioco di me ?” –
ma mentre profferivo parole di sdegno, era come se, in realtà, la implorassi di permettermi di sacrificarle ancora una notte, per struggermi nell’inutile, oziosa, dolcissima incertezza del suo scontato non arrivare.
Sorrise.
Poi carezzando la mia mano rispose:
“Ma tu sapevi che non sarei venuta.
Io non posso giungere.
Mai.
Io sono l’ultimo gradino mai salito della scala che conduce alla felicità.
Io sono colei che ti rende inquieto perché non ti appartiene, colei che ti rende succube perchè sai di appartenerle.
Io sono l’immagine non finita, il desiderio inappagato: io sono l’ATTESA.