L’uomo che sussurrava alle macchine

Di solito scrivo i miei pensieri immerso nello schermo del portatile nel mio studio, la scrittura è molto fluida, scorrevole, tanto poi, si può sempre intervenire e correggere, spostare, copiare e incollare.

Questa è una sera particolare, ho appena letto la notizia che nei giorni scorsi ha chiuso i battenti l’ultima azienda al mondo che produceva macchine per scrivere e la tentazione di usare la mia vecchia Lettera Trentacinque è forte.

Chissà cos’è che mi provoca tutta questa nostalgia, forse il romanticismo celato dentro di me, in apparenza sono  perfettamente integrato nella modernità e sempre al passo con le innovazioni ma di nascosto sono ancora innamorato di quegli oggetti che hanno contraddistinto una buona fetta della mia vita.

La verità è che sono un po’ fuori dal tempo, per esempio, avrei preferito continuare ad ascoltare i trentatré giri come da adolescente anziché l’Ipod.

Appartengo a quella generazione di mezzo che pur avendo preso parte attivamente allo sviluppo dell’informatica ha vissuto anche l’epoca della carta carbone e dei registri polverosi sui quali annotare diligentemente le informazioni.

“Per accendere il suo terminale è sufficiente premere il tasto on, attendere che il microchip legga il bios e faccia l’upload sulla ram del sistema operativo. Quando windows sarà avviato, potrà utilizzare word per scrivere o excel per i conti, facendo click con il mouse sulle rispettive icone del desktop”.

Mentre lo spiegavo a colleghi con qualche anno di lavoro più di me, cercando di semplificare il più possibile, con tristezza, sentivo di partecipare all’inizio di un’era molto più frenetica di quella che stava svanendo, tanto velocemente quanto era stata lenta e di cancellare sensazioni e stili di vita che i ragazzi di oggi non potranno mai provare.

Io, invece, con l’accompagnamento del ticchettio delle tastiere sono cresciuto.

Ho visto mio padre alto, giovane, forte.  Profumava di brillantina.

“Ho cominciato come fattorino: ritiravo e consegnavo le macchine riparate in bicicletta”.

“Tecnico specializzato nella manutenzione e riparazione delle macchine per scrivere”, così si definiva con orgoglio.

La carta che scorreva, i braccetti che si alzavano a tempo, i rulli e i meccanismi che permettevano di andare a capo e ripartire con più vigore di prima mi facevano compagnia anche di notte perché spesso per guadagnare di più lavorava anche a casa fino a sera inoltrata.

Ho visto mio padre distrutto da ore di lavoro addormentarsi sul divano e alzarsi la mattina presto per andare al lavoro, odorava di benzina.

Fu scontato per me ricevere in regalo a otto anni la prima macchina per scrivere, non avevo mai espresso l’idea di volerne una tutta mia e, infatti, quando mi ci trovai davanti ricordo che pensai che non ci avrei combinato molto … i miei giochi preferiti erano altri, sognavo di fare il pilota di aerei oppure il calciatore, ma mai avevo giocato a fare lo scrittore.

Iniziai a usarla, era un giocattolino, la consumai in pochissimo tempo … era di plastica.
La portavo ovunque in casa e fuori insieme alle risme di carta per avere sempre qualcosa dove scrivere.

Ho visto mio padre, ridere per Jerry Lewis e la sua versione del dattilografo, felice di passare il proprio tempo libero con i figli e con  la moglie.

Anche quando il destino lo costrinse ad armarsi di pazienza e sopportazione.

Profumava di serenità.
Quando la macchina giocattolo dovette andare in pensione, subito dopo arrivò un’Olivetti nella sua valigetta di plastica color crema con maniglia nera.

Cominciai a sognare di fare il giornalista sportivo, perché mi era piaciuto il personaggio di un vecchio film in bianco nero, con un entusiasmo così grande da convincere mio padre a mostrarmi la redazione di una grande testata dove periodicamente controllava le macchine.

Ho visto mio padre orgoglioso di portarmi con lui. Odorava di serietà.

Ogni volta mi fermavo a guardare i giornalisti al lavoro. Tra il fumo delle sigarette, perché allora si poteva, battevano veloci con due mani sulla tastiera. Poi alzavano la testa, guardavano fisso nel vuoto, e si ributtavano a capofitto sulla tastiera.

Questo loro atteggiamento mi affascinava, la necessità di non fare errori per non dover riscrivere il pezzo o mandarlo in tipografica con troppe correzioni a mano li costringeva a pensare, a fantasticare per punti. Creavano tutta la frase, da un punto al successivo e poi la battevano veloci sul foglio.

Il risultato era una scrittura essenziale, ritmata: soggetto, predicato, complemento oggetto. E via di nuovo. Un concerto musicale.

Ho visto mio padre soffrire mentre mi diceva che il suo stipendio non gli permetteva di pagarmi l’università. Profumava di onestà.

Dalle sue mani operose passarono le mitiche Olivetti Lettera Ventidue, Trentadue o Quarantaquattro, l’Everest modello novanta, la tedesca Continental. Tutte smontate, riparate e riconsegnate nelle mani dei proprietari che ringraziavano felici in cambio di poche lire.

Con la macchina per scrivere era necessario decidere prima che interlinea adottare, stabilire i margini e le tabulazioni, non c’era scelta di caratteri, non si poteva utilizzare il corsivo.

Quando arrivò “Lui”, il computer, a cambiare la storia, il modo di scrivere e il concetto di “Lavoro”, in pochi anni le macchine per scrivere, anche elettroniche, finirono in archivi e magazzini polverosi.

“Adesso tocca a te che hai studiato l’informatica … il mio tempo è passato” mi disse.

Ho visto mio padre distrutto quando a cinquantacinque anni un manager gli disse che era troppo vecchio per le nuove esigenze … ma anche umiliato, odorava ancora di dignità.

Poi arrivò il tempo dei piccoli musei e dei collezionisti e siccome gli oggetti di antiquariato comprati nei mercatini sono sempre sporchi e mal funzionati, ricominciò a smontare, togliere polvere, avvitare bene le viti e oliare gli ingranaggi.

Ho visto mio padre in pensione uscire da casa col viso sorridente quando era chiamato da un famoso critico televisivo rimasto fedele alla sua vecchia macchina per la sostituzione del nastro e la pulizia degli accumuli d’inchiostro sui tasti.

Scoprii chi era quando fui costretto a rispondergli io “Mi dispiace sig. Placido, papà non è più in grado di venire” e decisi di fare io il fattorino per lui.

Ho visto mio padre, curvo e debole, sistemare la sua ultima Olympia, dentro tanti tasti una vita.

Profumava di mondo antico.

“L’uomo che sussurrava alle macchine” mi piace oggi chiamarlo.

Non sono diventato un giornalista … ma il vizio di scrivere tutto quello che passa per la mente, mi è rimasto, ogni tanto ho alzato la testa, guardato quel punto fisso nel vuoto e riascoltato quel tic tac della tastiera sul nastro consumato che ancora va, anche se a volte si deve riavvolgere un po’ …  spero mi aiuti finché lo tengo qui sulla scrivania insieme alla fotografia in bianco e nero del mio papà in officina col camice grigio da lavoro.

E’ quasi finita l’estate ma fuori in giardino sta arrivando un nuovo giorno ancora verde e colorato.

Le mani sono sulla mia malconcia e superata Olivetti Lettera Trentacinque tirano fuori dal rullo l’ultimo foglio.

Sarà sempre un pezzo del mio cuore.

In fondo condividiamo lo stesso passato, una battuta dopo l’altra, l’ho guardata scrivere da sola

la mia storia.


Senza parole

Anche quest’anno la voce dell’altoparlante con la sua cantilena  “Paola stazione di Paola”  gli dice  che  l’estate è  finita … è seduto sulla panchina della stazione indeciso …
“Lo condivido o lo tengo per me?
Chissà se piace?”
“Come mandare un messaggio dentro una bottiglia in mare …” pensa.
Alla fine rompe gli indugi e  infila dal suo cellulare nel mondo di Facebook  il racconto che ha scritto:

Colori di Calabria.
E’ un tramonto d’agosto, l’aria è calda, la gente si accalca per trovare un posto in prima fila per il sorprendente spettacolo:
i fuochi d’artificio che esplodono dal mare e fanno da cornice al sole e alla luna che si danno il cambio.
Si sente in lontananza il loro fragore, il vecchio promontorio di terra che osserva il suo mare si rende radioso di colori, mostrandosi in tutta la sua maestosa bellezza.
Si accende, borbotta, si spegne, si riaccende. Si tuffa possente nell’acqua incantata di un mare magico.
Una luce illumina la barca di un pescatore solitario, starà pensando alla sua donna, fra il fumo di una sigaretta e la compagnia del rumore delle onde, mentre si gusta la meravigliosa scena di luci e toni.
Lui è stremato, ha corso dallo scoglio di  Mà Taverna fino a Torremezzo poi è tornato indietro ed è arrivato su fino alla panoramica ma si ferma come gli altri a godersi lo scenario appoggiato alla balaustra.
Adora le sere d’estate passate a contare milioni di stelle, luminosissime in cielo, vederle cadere e perdere il conto dei desideri … che non devi poi raccontare altrimenti non si avverano.
Laggiù sulla spiaggia il mare s’infrange e riporta alla luce i ricordi che aveva coperto di sabbia:
“ E in Calabria? Ci sei mai stato?”
“Ci sono stato una volta da bambino, di passaggio mentre andavo in Sicilia con i miei”.
“Perché non vieni giù con me a casa mia questa estate? Dai ci divertiamo!”
Della Calabria conosceva solo una compagna delle scuole superiori … che gli aveva tolto il fiato, la ricordava uguale a un mondo di colori come quando il sole al tramonto si spegne sul mare e assume mille sfumature pastello, dal viola al turchese.
Gli anni scolastici erano volati.
“Mi hai convinto, ma resto solo un po’ di giorni”.
Invece era tornato tutti gli anni. Lì l’aveva ritrovata e adesso la sta aspettando.
“Bevete tranquillo, questo è un vino senza medicine, un Cirò schietto, il vino color rubino più antico del mondo, che regalavano ai vincitori delle Olimpiadi in Grecia”.
“Assaggiate il mio orgoglio: i peperoncini rossi più piccanti sulla terra”.
Un filo di voce gli uscì dalla gola in fiamme.
“Me ne sono accorto!”.
“Volete una fetta di soppressata c’è il peperoncino dentro”.
“No … adesso no … l’assaggio dopo, volevo chiedere Fiumefreddo è lontano da qui?”.
“No solo un paio di chilometri. Ma voi venite ad aiutarci scotoliare l’olive quando sono verde intenso, se volete l’olio buono, datemi una mano giovani! Che io non ce la faccio da solo”.
E lui, che l’olio lo voleva, scendeva da Roma riconoscente e lo aiutava.
“Qua c’abbiamo tutto, la terra nostra è apposto, ci dà ogni bene di Padreterno se la sappiamo curare come un figlio. È fragile, ma è la vita nostra, senza non siamo niente. Sono le persone lassopra che non la sanno valorizzare, i politicanti che la spremono come uno di quei bergamotti color arancio che crescono solo da noi, per non parlare dei micidianti ‘ndranghetisti, che crescono soprattutto in una Calabria marcia da insanare”.
Non gli importava, senza saperlo era arrivato già innamorato del suo profumo di terra e mare della sua gente che era stata subito buona e ospitale … dei suoi colori.
Perché alla fine un po’ gli somiglia: timido, ma che muore dalla voglia di raccontarsi.
Poi lei adesso sta andando da lui che non riesce ancora a crederci …
e ora ama il sole che bacia quella terra e che anche in inverno ti regala giornate meravigliose. Ama la sua costa che non è mai la stessa: scogli, ciottoli, sabbia bianca e soffice. Ama il 26 Dicembre in spiaggia e il 15 di Agosto al fresco di una pineta sulla Sila. Ama che te ne stai sdraiato sulla spiaggia e se improvvisamente ti volti scorgi le cime delle montagne. Ama le feste di paese e il profumo di mandorle caramellate nell’aria. Ama i fichi d’India gialli appena raccolti. Ama tornare dalla spiaggia con il sale sulla pelle e fermarsi per strada a mangiare una brioche con il gelato.
Nella mente sempre lei che fra poco con i suoi capelli neri al vento arriverà da lui che … ora ama l’acqua cristallina del mare, tuffarsi e dopo poco più di un metro tendere le dita dei piedi e accorgersi di non toccare più il fondale. Ama abbandonarsi in lunghe nuotate al tramonto. Ama il profumo del pane caldo appena sfornato e mangiarlo con un filo d’olio crudo e un pizzico di sale. Ama le tarantelle in piazza. Ama le persone che ti conoscono appena e già t’invitano a pranzi e feste. Ama il mare in inverno, sempre un po’ arrabbiato, che t’impregna i capelli di umidità e salsedine. Ama la scogliera di Pietragrande e i murales di Diamante, il tramonto di Tropea. Ama la baia di Caminia e le sere d’estate ad ascoltare musica live. Ama Scilla, che ti basta allungare lo sguardo per scorgere in lontananza la Sicilia. Ama il mare di Isola Capo Rizzuto, il Castello di Roccella e il Santuario di San Francesco a Paola.
Lei sta arrivando col suo vestito blu notte che brilla nella serata estiva e il suo modo scettico di guardarlo … perché lui infine  ama  lo scenario della sua terra …  sembra sia immenso ma ci sono persone che riescono a riempirlo così bene da lasciarti un vuoto incolmabile quando te ne vai.
E lo segue con lo sguardo, dal finestrino del treno, quasi a dirgli: “Hao! Vedi di comportarti bene che torno … che facciamo i conti, tu ed io. Mi devi tante partenze, compresa questa … “.
E quell’azzurro si fa sempre più lontano … ma sa che l’ha fregato, perché ha rubato con lo sguardo fino all’ultimo istante e se lo è lasciato scivolare dentro per restituirlo, con un sorriso, a chi quell’azzurro non lo conosce.
Spesso come questa sera va a correre mentre il sole lentamente scende, la spiaggia si svuota e il mare assume mille tonalità.
Gli occhi luccicano … anche per le gocce di sudore che ancora scendono dalla fronte ma finalmente la vede arrivare bellissima col suo sorriso bianco che si confonde col riflesso della luna nell’acqua.
Insieme ad i suoi occhi arrivano le stelle.
Lì in quel momento ha l’illusione di ritrovarla … è nell’aria ma il bacio della sua bocca porpora dura pochi secondi, il tempo che l’ultimo raggio di sole s’immerga nel mare chiudendo la scena spegnendo i … colori.
“Romano che fai ancora qua i fuochi sono finiti. Questa sera andiamo a prendere il gelato a Fiumefreddo. Dai che lassù è anche più bello. Vieni con noi?”
“No … sono stanco … resto ancora un po’ poi vado a dormire … ci vediamo domani allo scoglio”.
Le onde, meravigliose ma molto disordinate, fanno sempre quello che vogliono, eseguono le capriole che preferiscono e non avvisano mai se decidono di placarsi o infuriarsi tanto da farti naufragare senza tenere conto dei tuoi progetti per la vita.
Non potrebbero avvisarti nemmeno lo volessero … loro non tengono mai conto del futuro.
Noi invece, spesso facciamo progetti per il domani cercando di organizzare degli incastri proprio al punto esatto dove vorremmo, in modo che sia proprio come lo sogniamo, ma non sempre quei tasselli capitano, dove ci piacerebbe, e se ne vanno per i fatti loro senza darci il minimo appagamento.
Per vivere non esiste nessun disegno o schema da seguire, il caso è paradossalmente la regola di questa esistenza … degli amori smisurati, dei luoghi che vorremmo visitare, delle corse a perdifiato, dei momenti che ci piacerebbe non finissero mai di questa magnifica passeggiata che si chiama vita … di un desiderio che lui ha raccontato perché il destino ha fatto cadere la sua stella troppo velocemente e gli ha donato soltanto il palcoscenico del suo sogno impossibile da realizzare .
Già … le onde del mare, che sta guardando infrangersi sulle pietre non saranno mai una uguale all’altra, e non ne troverai mai una che voglia somigliare a quella precedente.
Misteriose, potenti, magiche, sempre incantevoli proprio grazie al loro eterno, costante disordine.
Al contrario di noi il caotico mare è felice così … e dispettoso ogni tanto rispedisce sui sassi … pescandoli tra tanti …  vecchi messaggi affidatigli nel tempo:
“Credo di essere la sola persona che aprendo le finestre sul mare ogni tanto sarebbe felice di vedere che piove.
Vuoi sapere come fare a farmi tornare il sorriso?
Basterebbe poco.
Dovresti … se potessi portare la luna, sempre cosi sola, al mare … dal tuo … nel tuo mare”.

Il fischio del treno in partenza copre l’avviso della notifica di Facebook, sul cellulare una foto splendente accompagna il primo commento  arrivato :
“Senza parole☺ “.


Abbracci

“Ciao, buon ferragosto!  Un abbraccio”.
Oddio! Quale è il modo più carino? Come rispondere? Come si risponde a un abbraccio arrivato con un messaggio?
Si chiede se sia possibile sentire la mancanza di qualcosa che non si conosce, di qualcosa che non si è avuto, di un abbraccio che avrebbe voluto e che non gli ha più dato.
Perché non gli viene in mente nessun abbraccio di sua madre?
Ogni tanto guarda le fotografie dove lei lo tiene in braccio da bambino e si domanda perché non lo rammenta quell’abbraccio, quello che ti senti dentro quando sei solo, ti rannicchi, chiudi gli occhi e ti lasci avvolgere dal calore del ricordo.
Eppure prima deve avergliene dati. In una situazione particolare o per una caduta dolorosa.
Ha provato a cercarlo ovunque, si è detto “Due braccia che ti stringono sono un abbraccio”.
Purtroppo non è mai stato semplice.
Un’impacciata e un po’ rozza pacca sulle spalle di suo padre basta per fargli dire “Grazie, ora sto bene”, anche se qualche volta non è vero.
Nell’abbraccio dei suoi figli da piccoli ha provato tenerezza.
Ha avuto il coraggio di chiederglielo solo adesso, perché ormai non è più in grado di rispondere, qualche volta non lo riconosce e lo scambia con suo nipote. Continuava ad avere questo desiderio, questa nostalgia. Le ha chiesto quello che per tanti anni aveva tenuto dentro: perché non ha avuto più parole, affetto, amore? Cosa glii ha impedito di abbracciare e baciare suo figlio con slancio appassionato? Perché lo ha privato di ciò che è vitale: l’amore comunicato attraverso il contatto fisico di due morbide braccia che ti stringono e di una mano che ti accarezza dolcemente.
Solo ora che l’età l’ha resa debole e indifesa, che non è più dura, insensibile e resa incapace di dare affetto dalla malattia.
Solo oggi che è lei ad avere bisogno della sua tenerezza e del suo sostegno. Del suo di abbraccio.
Solo adesso che le parti si sono rovesciate funziona tutto tra di loro.
L’amore scorre anche attraverso il corpo, non si può far finta che non sia così, e lui non capisce ancora come abbia fatto suo padre ad andare avanti senza avere più un ritorno affettivo.
Una mamma e un papà che non si abbracciano e che non si amano… che esempio di unione danno?
Cresciuto in quel suono, in quella vibrazione, alla fine ha familiarizzato con quella sensazione. Il cuore diceva che i suoi genitori non erano più una coppia, mentre la mente che lo erano ancora perché era questo che loro gli volevano far credere. Questa scissione tra la sua mente e il suo cuore gli ha fatto dubitare di ciò che sentiva. Credeva di non potermi fidare del suo cuore, del suo sentire.
Se non hai mai abbracciato nessuno da giovane, per anni, per decenni. Perché bloccato, per l’educazione, per timidezza.  Perché appunto in famiglia non si usa, quando finalmente arriva l’occasione, perché alla fine arriva, sei come i sordomuti quando imparano il metodo vocale:
Si sforzano di far vibrare le corde vocali e ci contano di emettere quel suono, ma non lo sentono.
Guardano l’altro e se l’altro ha compreso, sono felici: ci sono riusciti, con l’impegno e il puntiglio, a farsi capire.
Così succede con gli abbracci, quando ti sblocchi, non hai gesti spontanei, studi come
muovere il braccio, la spalla, come stringere di più o di meno, sei emozionato e impaurito
ma felice, più degli altri che hanno sempre abbracciato, fin da bambini.
Felice della conquista, ma non sei sciolto, pensi l’abbraccio, in ansia che ti venga bene, gli altri se ne accorgono e credono che sia finto: invece è il più sincero degli abbracci.
Ci sei arrivato per strade complicate e quasi piangi mentre riesci a fare ciò che per altri è una cosa normale.
Nessuno se ne accorge mai perché, come l’abbraccio, anche lo sguardo e gli altri gesti sono troppo incerti, goffi, sgrammaticati e si resta perplessi, diffidenti, di fronte a una persona che in pubblico fatica nelle cose più semplici come mai ti aspetteresti.
Poi da sola in casa canta, balla, ride … scrive poesie e racconti.
Chi t’incontra dovrebbe capire che non si tratta di mancanza di empatia, non sei finto, ma il più vero dei veri:
fingi ciò che veramente fai perché paradossalmente non puoi senza simularlo, ma sei così vero che una volta sciolto riusciresti a volare per la gioia.
Chi ha in consegna la fiducia e il cuore di persone così dovrebbe sapere che una volta sciolte non possono essere deluse … forse tradite”.
La psicologa lo guardava sorpresa e visto che non commentava, proseguì.
“Io non me la sento di farla parlare con i miei, dottoressa, come mi ha chiesto. Sono troppo anziani e indifesi per dargli il dispiacere di parlare di questi argomenti, non voglio dargli una preoccupazione inutile.  Spero che quello che le ho appena detto le permetta risparmiare tempo e la aiuti a farsi un’opinione e proseguire nel suo lavoro. Il “Gioco degli abbracci” che ci ha proposto di fare a casa purtroppo non ha funzionato … mi sembra che a metterci impegno e costanza sia da solo … mi scusi, forse sono stato troppo diretto”.
“Non si preoccupi … le confesso che all’inizio ho pensato di trovarmi di fronte al solito narciso incapace di fidarsi, di trasmettere sentimenti, emozioni e paure … invece ho scoperto tutta un’altra persona e ho apprezzato molto il senso di autocritica, di partecipazione, il trasporto e la disponibilità con la quale ha si è messo ha disposizione, si è messo sotto esame nei nostri incontri.
A questo punto vista la mancanza di disponibilità a continuare la terapia familiare credo che sarà più utile consigliare sua moglie di farsi aiutare e proseguire da sola con un altro collega”.
Sono passati tre anni … l’ha aspettata lungo la strada che lo ha lasciato da solo a percorrere con gli occhi sorpresi e ingenui di un cane abbandonato.
Ha aspettato convinto che prima o poi sarebbe venuta a riprenderlo.
Adesso quegli occhi non la cercano, non ci sono più.
Da piccolo adorava guardare il riflesso del cielo nelle pozze d’acqua formatesi dopo la pioggia o dopo un temporale.
Dentro ci vedeva il mondo rovesciato e immaginava di potercisi tuffare per entrarci e trovare le cose cambiate come nelle favole.
Oggi ne ha trovata una sulla sua strada e si emoziona a scoprire che se si affaccia dentro rivede quello che fu il suo volto di ragazzo.
Deve riuscire a decidere, a trovare la forza, semplicemente per essere vivo e questo accade quando non si rinuncia alla felicità, anche se ormai si è abituato a questa situazione dentro la quale tutto si riordina e stabilizza, alla solitudine … l’unica cosa che vale la pena tradire nella vita.

Finiscono tutti così i messaggi che gli manda ogni tanto:
con un abbraccio.
Se sapesse, quanto lo rendono felice, anche se sono soltanto sullo Smartphone. Sono gli unici.
Lo ha aiutato a scrivere il racconto più difficile della sua storia, a volte basta poco a raddrizzare una giornata nata storta, ma lui lo sa che non è un caso, qualcuno lassù ha scelto il modo migliore per consolarlo.
Di solito risponderebbe “ Ciao. Buon ferragosto anche a te” perché gli viene difficile anche scriverlo, ma oggi cambia il finale:
“Ciao. Buon ferragosto e buone vacanze … un abbraccio anche a te”.


Il  pendolare Paperino

Pasticcione, testardo, perseguitato dalla sfortuna, ma anche generoso, sempre pronto ad aiutare il prossimo, volenteroso, anche se spesso la buona volontà non m’impedisce di combinare pasticci, pur essendo spinto ad agire dalle migliori intenzioni.
Chi di voi, almeno per una volta, in una giornata piena di sciagure, in una di quelle in cui va tutto storto non si è sentito proprio come lui, Paolino Paperino.
Da pendolare ormai esperto ho imparato che il tempo è un elemento essenziale per la riuscita della giornata, per questo la mia avventura non è iniziata la mattina, ma la sera prima. Sin dalle ultime luci del giorno ho meditato attentamente alla programmazione del tempo: a che ora andare a dormire per non essere troppo stanco il giorno dopo, a che ora mettere la sveglia, quanti allarmi impostare e a che intervallo, decidere l’abbigliamento, stirarlo e disporlo nei punti più strategici e facilmente individuabili della casa, due camicie per sicurezza non si sa mai, quindici minuti per la doccia, sette per fare colazione, tre per lavarsi i denti, due minuti per mettersi le scarpe e via.
In poche parole: ansia da ritardo al lavoro.
Sia chiaro, non c’è nulla di male in questo. Anzi essere puntuali, è una forma di rispetto che chi è sempre in ritardo non ha. Tuttavia il prezzo da pagare se la puntualità è “ad ogni costo” è altissimo in termini di stress.
Alla fine sono andato a dormire col sorriso, pensando che la mia innaturale sete di organizzazione, puntata sull’anticipo, questa volta mi avrebbe aiutato.
Destinazione, Roma, ufficio. Obiettivo arrivare in orario per la riunione con la direzione.
Ingenuo, l’universo punisce gli ottimisti, e soprattutto i nati Paperino.
La mattina della partenza succede sempre qualcosa d’imprevedibile che causa un progressivo e cataclismico scorrere del tempo: tre delle cinque sveglie non si attivano, i calzini che la sera prima sembrava dello stesso colore si sono magicamente trasformati durante la notte, il gatto ha vomitato la pappa nelle scarpe, la cravatta si tuffa nel caffè, il portafoglio si è nascosto in soggiorno, il traffico, lo smog, lo scooter che non si accende.
Ed eccomi qui, che vedo passare tracotante in tutti i suoi quintali di ferro, il treno che parte a due secondi dal mio naso
2 Luglio 30 gradi all’ombra. Ore 8,22 antimeridiane.
Un Giovedì che doveva essere da leoni invece si annuncia da co … ni.
Già in ritardo sulla tabella di marcia. La riunione è fissata alle 10,00 in punto.
Odio aspettare perché è il momento della giornata in cui mi sento più impaziente e impotente.
L’attesa è sicuramente uno dei momenti più terribili. Ci sono le pensiline a marcare il territorio è vero, ma assolvono quasi lo stesso compito del nulla. Ci si potrebbe spendere anni ad analizzare tutte le azioni delle persone mentre aspettano il mezzo di trasporto: c’è chi guarda l’orizzonte intensamente come Cristoforo Colombo in attesa di avvistare la terra, c’è chi bestemmia perché ha perso il treno per una frazione di secondo, chi fuma nervosamente.
La macchinetta distributrice della stazione ha inghiottito la mia ultima moneta senza erogare la bottiglietta dell’acqua nonostante l’abbia presa a calci, il fatto mi ha reso piuttosto irascibile e vendicativo come succede spesso al mio antieroe Papero e cosa di non poco conto di lì a poco so già che si scatenerà un panico a livelli cinematografici e che si farà sentire più forte che mai la discendenza degli uomini dagli animali.
Ogni mattina capita un po’ come nelle savane, quando si avvicina il cerbiatto succoso e, i leoni, che prima fingevano indifferenza pura, in un attimo gli sono addosso. Il pendolare, nel momento in cui avvista il treno, avverte un brivido. Credo sia una sorta di sesto senso che sviluppano negli anni i viaggiatori, sentono i feromoni del treno in arrivo e poi è solo un attimo: sbucano fuori dai cestini dell’immondizia, saltano giù dagli alberi, decine di pendolari incazzati che venderebbero l’anima per un posto a sedere, la tensione, fino a quel momento trattenuta, esplode al pari di quella dei marines americani durante lo sbarco in Normandia.
Quando riesco a sfuggire alla mattanza, mi sento sempre un po’ a disagio.  A volte penso se cedere o no il posto, ma no, non si può, nel pendolarismo non c’è spazio per i sentimenti. Quello che si deve sapere sui posti a sedere è molto semplice, negli anni ho racchiuso le mie esperienze in un assioma che nella sua semplicità racchiude il dramma del pendolare.
Esso recita così: “Sia a il pendolare, b il mezzo di trasporto e c il posto a sedere. Se a raggiunge c senza intoppi, con straordinaria semplicità e naturalezza, senza togliere il posto a nessuno, allora il mezzo b subirà un improvviso e inspiegabile guasto nel mezzo del nulla”. Postulato dell’assioma: “Sia a lo stesso pendolare di prima. Se nel mezzo del nulla il passeggero sarà raccolto da un secondo treno d, il pendolare a farà tutto il viaggio in piedi”.

Ore 8,35 . “Dlin Dlon, si avvertono i signori viaggiatori che il diretto Viterbo – Roma delle 8,40 è in arrivo sul binario tre e che farà straordinariamente tutte le fermate. Ci scusiamo per il disagio”.
Che tu, orrenda voce, possa macerare in eterno in un bacino di sudore bollente!
Ti sembriamo “signori viaggiatori” noi pendolari incazzati, sudati e martoriati dalla tua voce melliflua mentre corriamo al binario tre?
Arriva il treno e si creano immediatamente i soliti nugoli intorno alle porte, veri e propri buchi neri che sputano fuori tutto ciò che li sfiora ai bordi e risucchiano invece tutto ciò che si avvicina alla porta stessa senza avere la forza sufficiente a contrastare la sua attrazione gravitazionale:
Un signore anziano in attesa della nipote da Civita Castellana è risucchiato dalla porta della terza carrozza.
Mentre sento le sue grida ”Non devo salire … aiuto … aiutatemi”, decido di entrare nonostante sia molto rischioso. Gomitate, sputi e sgambetti si sprecano.
Ci riesco fingendo di avere con me un bambino … “Scusate … dovrei salire … sa … se poteste passarmi la carrozzina … ”, eh eh eh furbizia alla Paperino, un paio d’ingenue signore ci cascano, io salgo a bordo e le porte si chiudono: le vedo dal vetro che sbraitano come due mastini napoletani con la bava alla bocca e gli faccio segno che non posso prendere il carro successivo perché devo assolutamente arrivare in orario.
Il treno, infine, parte lasciando a terra una decina di poveracci, tre falangi, due paia di occhiali, sei scarpe spaiate e un parrucchino.
Per fortuna sono a bordo ma immagini apocalittiche si aprono ai miei occhi, un girone infernale da far paura al buon Dante e rizzare i capelli al fido Virgilio.
Io non ho potuto guadagnare di meglio che un posto in piedi appoggiato alla porta della toilette.
Ore 8,55.
S’intuisce subito che l’avventura è solo agli inizi dopo cinque minuti già siamo fermi.
Si riparte … poi di nuovo fermi sotto la galleria.
Per calmarmi e attenuare l’ansia da ritardo infilo le cuffiette e provo a estraniarmi dal mondo che mi circonda con la musica classica di Spotify.
I compagni di viaggio però sono quella costante universale che può decidere le sorti della giornata.
Quello perfetto che sogno non parla, ma preferisce leggere un libro, non si lamenta se il bracciolo non funziona e se sta dietro, non prende a pugni e calci la tua poltrona, non spalanca il finestrino il 10 di Gennaio, non ruba il posto in un momento di debolezza, non si addormenta e sviene addosso, non ti mangia kebab di fianco, non ti racconta le sue storie di guerra e soprattutto se non è riuscito a trovare posto, non ti guarda con aria affamata per tutto il viaggio.

In pratica, il compagno di viaggio perfetto non esiste, non l’ho mai incontrato:

La bambina del sedile a destra, ha già comunicato a tutti che si chiama Maria Clara e ora comincia a spiegare alla sua mamma e a tutto lo scompartimento che il ciuccio era suo, proprio suo e non di suo papà, e nemmeno della mamma, e nemmeno della nonna e nemmeno del nonno e nemmeno … .
Un signore vicino a me di mezza età parla in modo concitato al telefono, usando una serie di espressioni colorite che farebbero storcere il naso a un avanzo di galera, urla talmente forte vicino alle mie orecchie arrabbiato che mi costringe a togliere le cuffie e a dimenticare la mia tecnica di rilassamento sia corporea che immaginativa.
E’ chiaro che sta parlando con il suo avvocato, la questione è spinosa non c’è solo un divorzio in ballo, c’è un problema di alimenti. “Non intendo pagare per il bambino – dice – non è mio figlio!”
Ascolta il suo interlocutore e poi scuote la testa, arrabbiato e impotente, poi continua urlando: “Dì al di giudice che mi rifiuto di fare il test del DNA, il bambino non è mio!”.
Un altro viaggiatore dal fondo della carrozza risponde infastidito e sarcastico “Perché deve fare il test? Il giudice non vede che il bambino è nero?”;
Al mio fianco un tizio sulla sessantina che intuisco subito avere un alito pestilenziale al topo marcio con retrogusto di fogna di Calcutta e alla mia sinistra una ragazza con i capelli tinti di rosso che ascolta musica come me, ma pretende di ballare a tempo di rock in mezzo metro quadro di spazio.
Passano altri cinque minuti e siamo ancora fermi in galleria … la gente inizia a lamentarsi … partono i primi soliti commenti e principi di rivolta … anche la ragazza alla mia sinistra attacca … io con la musica di nuovo a tutto volume vedo solo che muove la bocca come un pesce … rosso appunto.
Di nuovo costretto, tolgo le cuffiette e partecipo al lamentio comune … qui inizia il dramma:
Il sessantenne con l’alitosi, evidentemente non consapevole dei danni che può creare, vuole partecipare alla discussione … e attacca ad appestare l’aria con gli effluvi di fogna.
Ore 9,05. Rimango attaccato a un lumicino di speranza di arrivare in orario.
Dopo un po’ che passa a parlare con le mie spalle l’uomo fogna capisce che forse è meglio chiudere il tombino e si rassegna all’angolo … ma in quel momento mi accorgo di un nemico ben più insidioso che aleggia vicino a noi: il nostalgico logorroico!
Una specie pericolosissima, purtroppo, non in via di estinzione: un signore sull’ottantina che inizia a raccontare della sua vita dal 1934, con dovizia di particolari e intervallo periodico.  E nel 1938 … e poi nel 1943 … il guaio è che c’è un’infame maledetta vicino a lui che gli da spago. Lui finisce una frase e la maledetta parte con una nuova domanda.
Io e la ragazza pesce rosso la fulminiamo con lo sguardo ma lei imperterrita continua … “E sua figlia poi, nel 1957 che fece?”
All”altezza di Saxa Rubra, io, il pesce rosso e un gruppo di pendolari estremisti decidiamo che arrivato al 1970, partiremo con un blitz per scaraventare entrambi dal finestrino, confidando nell’omertà degli altri passeggeri.
Ore 9,10. Ormai ogni speranza sembra perduta, accantonate le cuffie arriva il momento della contemplazione del panorama.
Si alternano gallerie, cavalcavia, discariche abusive, cantieri abbandonati, ruderi e solo ogni tanto qualche sprazzo di verde.  L’aspetto più affascinante dell’abitudinarietà del pendolarismo, è che alla fine impari a capire la lontananza dalla destinazione non dai cartelloni, ma da piccoli dettagli che ti colpiscono: uno spaventapasseri vestito da donna in un campo di grano, una chiesa dal tetto a forma di cappello, campi rom, baracche. Uno dei motivi per cui “il dentista” non ha ancora surclassato “il pendolare” nella lista delle situazioni con più la più alta concentrazione di spettacoli deprimenti.
Ore 9,20. Stazione di Prima Porta.
Sale signora di colore vestita tipo esercito della salvezza America del sud, si piazza facendosi largo con decisione al centro del vagone, segno della croce e tira fuori dalla borsa un vangelo e un crocifisso di legno poi con voce stridula e cantilenante inizia la predica:
“Gesù il figlio di Dio è salito sulla croce per purificarci dai nostri peccati …perché Lui è lo Spirito Santo sceso sulla terra per salvare le nostre anime dai peccati … alleluia alleluia ”
Una signora spazientita “E basta co sta nenia tutte le mattine!”
L’evangelizzatrice incurante prosegue imperterrita e anche arrabbiata “Perché voi siete tutti peccatori e dovete pentirvi … se non vi pentite non conoscerete il Paradiso … Gesù è qui con noi per guarirci da tutte le malattie ma voi dovete pentirvi … pentitevi per il Salvatore … finché siete in tempo”.
Poi puntando il crocifisso  verso di me “Lei signore sta male?” mentre partono scongiuri che non descrivo mi guardo dietro le spalle sperando di non essere io l’interessato  ma come Troisi non trovo nessuno e lampo di genio forse mi salvo dall’anatema rispondendo “Sono un donatore di sangue del Bambino Gesù signora. Credo di stare bene. Grazie!
Il diretto comincia a correre veloce. Ore 9,25.
Comincio a nutrire qualche speranza ma non posso rilassarmi …  i paperini come me dovrebbero essere sempre pronti ad affrontare i colpi traditori della sfortuna.
Il sogno di tutti i pendolari è sempre stato quello di veder una mattina salire in treno la donna della loro vita e, infatti, questa non è quella di mattina:
sento una voce lontana, in avvicinamento lungo il corridoio, che dice “Permesso … scusate … ” dopo qualche secondo si manifesta alla mia vista un donnone di circa 95 Kg, in evidente affanno da contenimento conati di vomito.
Mi rendo immediatamente conto del terribile rischio che corriamo io e gli altri prossimi alla destinazione della signora: le agevoliamo subito il percorso “Fatela passare, per carità di Dio, fatela passare!”
Lei avanza veloce … il volto paonazzo … l’andatura sbilenca e deformata da evidenti trattenimenti muscolari … si dirige verso di me che sono purtroppo ancora appoggiato alla porta della sua salvezza.
Per un brevissimo istante i nostri sguardi s’incrociano, il suo chiede pietà … il mio terrore … ormai è a mezzo metro da me, capisco che mi devo preparare ad affrontare qualcosa di terribile.
Mi sposto quasi prontamente … la bomba che sta per esplodere apre la porta e scompare all’interno del lurido tugurio.
La tragedia finale: non ho avuto spazio sufficiente a guadagnare la via di fuga e non ho salvato la camicia.
Sono costretto a far da sentinella al luogo dove si sta consumando il drammatico atto.
Echi di orrendo squallore si mischiano ai rumori di ferraglia del treno.
Maledetto il momento in cui ho deciso di non aspettare la corsa successiva questa mattina.
Non posso crederci: il treno è arrivato alla stazione Roma Flaminio con una precisione degna delle Ferrovie tedesche, spaccando il minuto.
Chissà quando ha recuperato il tempo perso.
Posso respirare, anche se la mia camicia manda effluvi nauseabondi, i quali però tornano utili a superare il nuovo assalto a Fort Apache per prendere la metro.
Ore 9,55.
Scendo a Repubblica.
Arrivo trafelato.
Forse ce l’ho fatta. Per fortuna ho portato la camicia di riserva.
Come non detto!  Paperino non deve mai pensare di avere fortuna … mentre la cambio una collega, entra senza bussare e mi becca a torso nudo, la indosso di corsa poi parto deciso mentre la stessa collega cerca di fermarmi inutilmente, allo specchio dell’ascensore per la Direzione faccio gli ultimi controlli … aggiusto la cravatta e poi finalmente sospiro di sollievo … si gliel’ho fatta niente ritardo.
Per  prima cosa la puntualità. Non  puoi pretendere una cosa dai propri collaboratori se non sei il primo dare il buon esempio.
10,00 in punto.
“Buongiorno signorina sono arrivati i colleghi per la riunione di oggi?”
La segreteria mi guarda e poi mi risponde sorridente:
“Il Direttore Generale ha avuto degli impegni imprevisti e questa mattina ha spostato la riunione alla prossima settimana. Non ha letto la comunicazione “.
Torno in ufficio disfatto mentre il telefonino segnala i messaggi su WhatsApp del gruppo degli amici si sempre:
Stefania “Buongiorno”.
Alessandra ”Si vede che stai in ferie eh … ”.
Maurizio ”E lasciala dormì pe’ na volta … ”.
Alessandra ”Buongiorno da San Teodoro, qui oggi come ieri mare e giornata stupendi”.
E no Ale così rosico … se l’avessi, mi mangerei il cappello come Paperino.
Non mi trattengo “Buongiorno e buon sole … per me invece brutta mattinata”.
Alessandra “Che succede Marco?”
“Un po’ di pazienza … poi ti racconto, almeno la sfrutto per scrivere, qui trentacinque gradi, avrei un paio di settimane di ferie che non ho ancora deciso di prendere ”.
Stefania “Come non sai se prenderle o no? Meglio adesso che ad Agosto … ad Agosto si sta bene in ufficio che non c’è nessuno”.
Hai ragione Stefy ma io adesso non ho nessuno con cui partire, Luglio o Agosto per me è indifferente,
pensavo di non farle proprio per non scrivere la storia di Paperino in vacanza dopo di quella di Paperino pendolare.
Ci sono momenti della vita in cui, percorrendo con e come un treno la nostra esistenza, ci ritroviamo a riflettere un po’ più del solito, su quale stazione scendere; se procedere ancora nella stessa direzione o cambiare carrozza e dirottare o essere dirottati verso altre destinazioni.
A volte scendiamo per poi cercare di prenderne un altro; altre volte cerchiamo di correre velocemente alla stazione per prendere questo famoso vagone, spesso non riusciamo per una manciata di secondi a salirci su, come quelle occasioni che passano troppo velocemente e non riesci a coglierle per un qualsiasi banale motivo; in altre purtroppo invece arriviamo troppo tempo prima, quando ancora non siamo pronti e  rimaniamo fermi in stazione in attesa del prossimo treno, della prossima corsa, della prossima occasione.
Così mi trovo in questo preciso momento della mia esistenza, fermo alla stazione, in attesa di quel treno che mi porta via e che prima o poi arriverà … ma un po’ invidio chi ha avuto la fortuna di avere gli stessi tempi ed è salito subito sulla sua corsa perché la seconda purtroppo non è mai uguale alla prima persa.


L’Ultima volta delle All Stars rosse

Sistemava sempre i cambi di stagione dentro due grandi bauli, senza plastica a risucchio come si usa ora, solo con la naftalina, ogni volta che la andavo a trovare, sentivo il buon odore che non ricordavo mischiato a quello della naftalina.
Io non l’ho mai usata perché mi ricorda mia Zia che non c’è più, ma un baule lo conservo nel mio studio.
É grande, marrone e antico, dentro ci tengo vecchi ricordi, foto di famiglia e disegni che facevo.
Oggi mio figlio, mentre preparavo le ultime cose da portare via dalla casa che non è più mia, mi ha chiesto di vedere le foto.
Così ho aperto il baule.
C’erano anche quelle di mia Zia, in una aveva la faccia sorridente e teneva in mano una gallina morta che avrebbe forse cucinato a breve.
L’odore che sentivo, oltre a quello della naftalina che non ricordavo, era quello del brodo di gallina.
“Papà che fai? Alla tua età ti compri le Converse rosse? Le hai nascoste nel baule ti vergogni a metterle vero?”.
Non ricordavo più, dove erano riposte le mie vecchie scarpe da pallacanestro.
“Hai poco da prendere in giro ragazzino, siete voi giovani che pensate di aver inventato tutto! Quelle scarpe hanno più di trent’anni”.
Era una donna tanto dolce quanto decisa e diretta mia Zia.
“E sti cavoli! Difendi sempre le tue aspirazioni contro di tutto e contro tutti” diceva quando ero triste e scoraggiato.
Cosi ho sempre fatto nella mia vita.
Ho sempre creduto che debbano essere perseguite ad ogni costo anche aspettando anni prima di poterle realizzare … ma ci sono giorni nella vita dai quali è difficile riprendersi.
“Che palle! Non ti voglio vedere più con quella faccia, quante volte te lo devo dire che con tua madre poi ci penso io”.
“Che cosa devo fare, lo sai che quando le vengono le crisi s’impunta e non c’è verso di farla ragionare … se la prende sempre con me”.
“Facciamo come il solito lascia la borsa qui da me che ti faccio venire con una scusa, la prendi e vai alla partita … aspetta ho una sorpresa per te per domenica ”.
Direttamente dall’America un paio di All Stars rosse fiammanti.
Non ho mai saputo come avesse fatto. Un miracolo per quei tempi poiché all’epoca usavamo solo scarpe bianche, qualcuno al massimo le aveva blu.
Ricordo ancora quando andai al mio primo allenamento per evitare i compiti a casa.
“Ragazzo la pallacanestro è uno sport che guarda al cielo, smettila di vergognarti e tira su gli occhi che il canestro è in alto”.
Cominciai a fare compiti per evitare di stare in punizione e non andare a giocare.
M’innamorai subito della pallacanestro … la palla che accarezzava dolcemente la rete dopo un tiro perfetto in sospensione, l’energia devastante di un contropiede concluso in terzo tempo con una schiacciata, il lampo fulmineo di un assist illuminante, la confusione di una palla contesa a rimbalzo, la precisione di uno schema eseguito alla perfezione.

Come tutti i giovani di quel periodo imparai sul campo dell’oratorio della Parrocchia, posto di fianco al piccolo cinema parrocchiale, costruito in cemento rosso e protetto da una rete verde a maglie larghe.
Ogni fine settimana, rigorosamente dopo la fine della messa, era circondato dai tifosi del quartiere e dai parenti e amici dei giocatori.
Su quel campo ci allenavamo e giocavamo le partite di giorno e di sera con i riflettori, sia d’estate sia d’inverno quando passava anche mezzora prima di riuscire ad avere la mano calda al tiro che provavo e riprovavo per ore.
Il tempo ha scolorito il rosso del più bel regalo della mia vita … ma io mi rivedo tornato indietro a quei momenti mentre lo allaccio negli spogliatoi tappezzati dai poster della rivista “Giganti del basket” per la mia prima partita importante, quella che non si scorda mai come il primo bacio a una ragazza:

s’infortunano due giocatori della squadra dei grandi che partecipa al torneo di prima divisione.
Caviglia e ginocchio. Un disastro perché la sfida successiva è contro la blasonata Eldorado Lazio. Così l’allenatore sceglie due sostituti dagli allievi che ogni tanto chiama per fare numero.
Il primo è Stefano, playmake con l’erre mancante, uno dei miei compagni di tutto da sempre … di squadra, di scuola, di passione … il secondo sono io … ala alta.
“Prendi la maglia e fatti cucire il numero”.
Sento ancora il profumo di nuovo di quella canottiera bianca con le strisce rosso blu sulle spalle e sui fianchi con il numero undici da cucire sul petto e sulla schiena.
La domenica della partita la Zia trova la scusa per farmi uscire e arrivo per fortuna appena in tempo per rispettare l’appuntamento dell’allenatore.
Durante il riscaldamento l’emozione è forte.
Roberto il capitano mi prende da parte e mi rassicura “Segui quello che ti dico e passami la palla se sei in difficoltà tranquillo, sei forte … e poi di che hai paura con quelle scarpe puoi volare”.
Gli avversari ostentando superiorità si lamentano perché il campo è all’aperto, fa freddo, non sono abituati a giocare sul cemento ma solo sul parquet e che i tabelloni di legno fanno schizzare troppo la palla.
La partita comincia, e andiamo subito sotto.
L’Eldorado gioca piano, non si spreca più di tanto, ci mortifica un po’, dopo il primo tempo è già sopra di dieci punti.
Il capitano lotta, ci fa  coraggio, ma sembra non ci sia storia.
Quando entro mi batto come un leone e riesco a conquistare un paio di palloni.
Nel secondo tempo tutto cambia. Ci riportiamo a una distanza più accettabile.
“Settantate a Sessantanove” urla Stefano dalla panchina.
Mancano solo due minuti, quando Roberto ruba palla e lancia Stefano appena entrato in contropiede. Arresto e tiro da sotto canestro e appoggio facile al tabellone.
Gli avversari cominciano a preoccuparsi. Cercano di giocare duro ma noi ormai siamo in trance agonistica. Difendiamo con le unghie e con i denti e sono costretti a sbagliare il tiro da fuori.
Rimbalzo preso dal nostro pivot. Palla al play e si va dall’altra parte.
Sottovalutandoci stringono la marcatura tutti sul capitano, impedendogli la ricezione.
Il play esita, ferma il palleggio ed è aggredito. Sta per perdere il possesso, quando mi vede nell’angolo.
Solo.
Gira la palla nella mia direzione.
Mi preparo al tiro. Il centro avversario recupera verso di me e questa volta prova seriamente a fermarmi.
Salta la mano protesa verso l’alto, ma la palla passa appena sopra alle sue dita e lentamente… un tempo interminabile per me …  comincia a scendere e finisce dentro il canestro sfiorando appena la rete. Il tifo esplode.  “ Settantate a settantate”. I compagni pure. Mancano quindici secondi. Il miglior giocatore avversario si alza dalla panchina, sulla quale era seduto da almeno sei minuti. Prova ad andare a canestro, ma deve fermarsi perché la campana è chiusa. Conquisto la palla, usando tutta la forza che ho in corpo. Palleggio in avanti, poi vedo il capitano vicino a me e gli servo l’assist per il contropiede.
Tre secondi.
Supera la metà campo.
Due secondi.
Arriva all’altezza della linea dei tiri liberi.
Un secondo.
Tiro in sospensione fuori equilibrio.
Parabola perfetta.
Il Settantacinque a settantate che ancora oggi chi fece parte di quella mitica squadra si ricorda cosi … senza la “R”.
Da ragazzo il basket per me era semplicemente tutto … la mia vita, il mio fratello maggiore, il mio sudore, la mia felicità, la mia forza, la mia grinta, la mia fiducia, la mia sicurezza, le prime lacrime di delusione per il sogno che il destino mi tolse a poca distanza dall’arrivo.

“Bella partita, un tiro da fuori fantastico. Dalla prossima settimana ti alleni sempre con noi sei pronto?”

“Dove sono i tuoi che ci voglio parlare, non è venuto nessuno a vederti giocare?”
“No … nessuno. Coach … adesso devo tornare a casa”.
Mentre guardo dalla finestra il tuo vecchio baule sul camioncino dei traslochi allontanarsi verso studio e vita nuovi non puoi che mancarmi di più cara Zia … da lassù saprai sicuramente perché… mi servirebbe proprio un bel “Ma va a quel paese … allora sei stupido … non ti arrendere vai incontro ai tuoi sogni” come me lo dicevi tu … ma forse non è un caso che ricevuto il permesso,  per il primo  allenamento sto rimettendo un’ultima volta le mie All Star Rosse, chissà se questa sera Stefano le iconosce.