Gipsy

Ero un ragazzino di sedici anni e, solitamente, nel tardo pomeriggio mi incontravo al

bar con gli amici dello stesso quartiere, per chiacchierare un po’ e far “progetti” sul

nostro futuro. Fu così che un giorno conobbi “Gipsy”, un cane randagio, spuntato non

so nemmeno io da dove. Anche lui sembrava desideroso di stare in compagnia; la

nostra. In realtà non aveva ancora un nome e “Gipsy” lo scelsi io, perché significa

“zingaro”, e poi anche perché gli stava proprio bene. Infatti, era abbastanza peloso:

quasi un “barboncino” di taglia media, col pelo color panna-avorio, e gli occhi neri.

Era buonissimo e si faceva accarezzare e coccolare da tutti, sin dal primo incontro.

Anche se ancora non conosceva nessuno, già si fidava di noi e non aveva proprio

nessun timore nell’avvicinarsi. Non so spiegare esattamente come successe ma, in

pochissimo tempo, io e Gipsy diventammo buoni amici.

Una sera stavo tornando a casa camminando per la solita strada. Il sole era già

tramontato da un pezzo e, arrivato all’ingresso del rione nel quale abitavo, mi accorsi

che il portico non era illuminato; evidentemente s’erano bruciate le lampadine. Fu

così che mi trovai costretto a percorrere una quarantina di metri sotto al portico, quasi

completamente al buio. Ma non c’era alcun motivo di preoccuparsene, almeno per

me. Il fabbricato era costruito in modo tale che, tra un portone e l’altro, ovvero tra un

numero civico e quello adiacente, c’era una rientranza nel muro esterno; una specie di

grande nicchia che, forse, serviva per metterci le biciclette o i ciclomotori. In realtà

non ho mai visto parcheggiare nessun veicolo in quegli spazi sottoportico.

Pensando ai fatti miei, stavo avvicinandomi ad una di queste rientranze, quando tutto

d’un tratto sbucò fuori un cane che mi abbaiava e mi mostrava i denti, proprio da

quella specie di nicchia. Sembrava volesse saltarmi addosso e sbranarmi, da quanto

era furioso, e mi sbarrava la strada, in tal modo che io non potevo più proseguire. Ma

non potevo nemmeno indietreggiare, poiché in ogni caso, quel cane rabbioso, mi

avrebbe sicuramente azzannato. Ero molto spaventato ma, nello stesso tempo, cercai

di riflettere per non fare mosse false e non andare incontro a qualche morso ormai

previsto. Quindi rimasi immobile nella mia posizione, e senza fiatare. Anche perché

non avevo alternative. Pensavo che di lì a poco il cane si sarebbe calmato, ma non

indovinai; anche se, restando fermo, ero riuscito a non farmi aggredire, tenendo le

distanze, lui continuava ad abbaiare. Ma il peggio è che eravamo solo noi due. Infatti

non c’era nessun altro nei paraggi, quella sera. E questo non mi consolava affatto,

poiché non sapevo più che fare. Non potevo certo rimanere inchiodato lì per tutta la

notte.

Passarono diversi minuti, non so nemmeno io esattamente quanti, e cominciavo ad

avvertire una certa disperazione che, comunque, non durò molto.

Accadde qualcosa che, in quel momento, non me la sarei nemmeno sognata: vidi

arrivare da lontano, a passo abbastanza veloce, un altro cane. Non lo riconobbi subito

ma, appena si trovò ad una ventina di metri circa dal posto dove stavo, mi accorsi che

era proprio lui: Gipsy! Ancora oggi non riesco a spiegarmelo cosa provai in

quell’istante; dire “consolazione” o “sollievo” non rende sufficientemente l’idea.

Ero felice, ma ancora non immaginavo bene che cosa avrebbe fatto per soccorrermi,

anche se sentivo che il mio amico mi avrebbe certamente aiutato. Infatti, appena

Gipsy arrivò sul posto, la prima cosa che fece fu quella di avvicinarsi al cane

inferocito, fargli due o tre abbai. Può sembrare incredibile ma, questo brevissimo

intervento fu sufficiente per zittire il cane che fino a poco prima voleva azzannarmi, e

a farlo ritornare, buono buono, nella nicchia dove si trovava prima che io arrivassi.

Subito dopo Gipsy si avvicinò a me e, prima ancora che io potessi accarezzarlo ed

abbracciarlo, fece un’altra cosa che non mi aspettavo e che mi riempì di stupore: con

la sua bocca mi prese le mani e i polsi, tastandomi con i denti e la lingua, senza

premere. Si capiva benissimo che il mio caro amico stava controllando se l’altro cane

mi aveva morso in qualche parte, cominciando dalle mani e le braccia, ma poi

annusandomi anche le gambe e le caviglie. E, soltanto dopo essersi accertato che io

non avevo subìto nessun morso, nessuna ferita, si fece affettuosamente abbracciare da

me, e scodinzolava contento. Certo, se avessi avuto la coda, l’avrei fatto pure io,

perché ero molto felice. Ma ero anche molto sbalordito dal comportamento di Gipsy.

Davvero, una cosa del genere non me la sarei mai aspettata. Dopotutto Gipsy era un

cane “randagio”, un vagabondo, un animale senza fissa dimora, dal quale tuttora, a

distanza di più di quarant’anni, nessuno si sarebbe mai aspettato un gesto del genere.

Oggi il mio caro amico Gipsy non c’è più, ma io conservo sempre nel mio cuore la

sua prova di una vera amicizia, che pochi esseri umani sanno effettivamente

manifestare. E pensare che c’è ancora molta gente, persino tra gli “addetti ai lavori”,

che si azzarda ad affermare che i nostri amici a quattro zampe non provano affetto ed

emozioni. Mah; io so soltanto che Gipsy mi ha insegnato molto più di quello che non

abbia fatto qualsiasi essere umano incontrato finora nella mia vita. Sono certo che, se

lui potesse in qualche modo ritornare, si ricorderebbe ancora di me e mi difenderebbe

da ogni pericolo, in un modo del tutto “disinteressato”; soltanto per amore!


 

Una bella partita a Dama

Un gioco che mi ha sempre affascinato è la dama italiana. Con le sue regole è

possibile costruire una serie indefinita di situazioni variabili, che nessuno riesce ad

immaginarsi. Certo, il gioco degli scacchi è molto più complesso ed articolato ma,

proprio per questo motivo, una partita a scacchi può durare molto tempo; anche delle

ore, se non addirittura dei giorni, specialmente se ad affrontarsi ci sono due esperti.

Mentre con la dama succede esattamente il contrario: più si è esperti e più veloce

diventa il gioco, tanto che una partita potrebbe durare anche meno di un minuto.

Tuttora preferisco la dama agli scacchi, perché si comincia con i pezzi (dodici pedine

ciascuno) che sono tutti uguali, senza gerarchia di alcun tipo; infatti, nella dama non

c’è una pedina che valga più di un’altra, ma tutte sono dello stesso livello. E questa

“uguaglianza” mi suona molto più umana e popolare che non negli scacchi, dove

invece ci sono addirittura due vere e proprie “monarchie” che si affrontano, e

ciascuna di esse ha dei pezzi di differente potere gerarchico ed anche di differente

valore, per quanto concerne il punteggio.

Io mi dilettavo spesso da ragazzo e, all’età di diciotto anni, divenni abbastanza bravo

da avere pochi avversari in grado di tenere testa alla mia abilità. E, comunque,

continuavo a considerarmi e a farlo come dilettante. Non mi sarei mai sognato di

prenderlo talmente sul serio da impegnarmi nelle gare ufficiali, e men che meno di

diventare un professionista.

Accadde un giorno che, con alcuni amici, camminando per le vie della città, ci

trovammo ad entrare in un bar, per consolarci con una tazza di cioccolata calda con

sopra della panna montata; noi la chiamavamo “nafta”. Fu così che, dopo esserci

accomodati ad un tavolo, scoprimmo che quel bar celava un’altra sala, molto più

grande di quella dove stavamo noi. La curiosità ebbe la meglio su tutta la nostra

timidezza e le nostre remore, ed entrammo in quella sala. Fummo al tempo stesso

stupiti e divertiti nel vedere che in quel posto c’erano diversi tavoli, ciascuno con una

bella e grande scacchiera sopra, dove un buon numero di uomini si stavano

affrontando, a due a due, al gioco della dama.

Eravamo finiti, non si sa come né il perché, in un circolo di damisti professionisti. Un

brivido mi attraversò la schiena, e provavo una sorta di tentazione mista ad un

ragionevole timore. Desideravo mettermi alla prova, e sedermi ad uno di quei tavoli,

per affrontare uno di quei giocatori che ritenevo molto più esperti di me. Nello stesso

tempo, però, temevo di fare una figuraccia indimenticabile, anche nei confronti dei

miei amici i quali mi consideravano già un esperto di dama, avendo saggiato

direttamente il mio talento, almeno dal loro punto di vista. Tutti i problemi che io mi

stavo ponendo nella mia testa furono interrotti dall’invito di un signore di mezza età

il quale, vedendomi alquanto interessato, mi disse di sedermi per fare una partita a

dama con lui. Ormai non potevo più tirarmi indietro; pure i miei amici mi spinsero

verso quel tavolo. Dovetti accettare, pur combattendo con una buona dose di paura,

quindi mi sedetti di fronte a quell’uomo che mi invitò. E non fu certo lui ad aiutarmi

a farmi sentire più a mio agio, tant’è che iniziò subito col dire che, tra l’altro, era un

campione di dama a livello nazionale.

Non fu l’unica cosa che mi disse, ma cercò di scoraggiarmi con altre frasi che, per

fortuna, ora non me le ricordo più. Una cosa che non riuscivo a spiegarmi bene: la

stessa persona che mi invitava a giocare, mi demoralizzava. Al che già pensavo che,

indipendentemente da come sarebbe andata a finire, io non sarei mai entrato a far

parte di un circolo di “matti” del genere. Non so esattamente come ma, ad un certo

punto, io riuscii a trovare una buona concentrazione per poter incominciare la partita.

Non vedevo più nessuno intorno a me, ma soltanto le mie pedine e quelle del mio

avversario. “Devo cercare per lo meno di non facilitargli troppo il compito”, ripetevo

a me stesso. Mi ricordo che avevo impostato una strategia tale da non effettuare

alcuno scambio per diverse mosse, ed il mio avversario stette al mio gioco. Sapevo

che, da un momento all’altro, mi avrebbe attaccato e chissà quante pedine mi avrebbe

mangiato. Ma io tenevo duro. Continuai per quella strada, cioè evitavo qualsiasi

scambio e, più avanti si andava, più difficile era mantenere intatte tutte le pedine.

Non capivo il perché, ma le frasi umilianti, che il campione nazionale di dama mi

rivolgeva prima di iniziare quella partita e durante le prime mosse, ad un certo punto

si spensero come per incanto. Questo fu sufficiente a farmi comprendere che non ero

messo poi tanto male. Ma non osavo ancora pensare, troppo ottimisticamente, che

avrei potuto anche vincere. Per il momento mi bastava anche soltanto la

soddisfazione di aver messo un po’ in difficoltà il mio avversario. Arrivato a quel

punto avrei accettato di buon grado pure una sconfitta, e non me ne sarei affatto

vergognato, perché ero già contento di aver messo a tacere quel “pallone gonfiato”.

Sentivo che anche i miei amici trattenevano il respiro, per la situazione che si era

venuta a creare; forse non se l’aspettavano neppure loro e, ovviamente, tifavano per

me. Non li feci attendere ancora molto perché, dopo altre due o tre mosse, il “grande

campione nazionale”, ovvero il mio avversario, non avendo più alcuna chance, si

fermò esclamando ad alta voce: “Ho perso. Questo ragazzo mi ha battuto!”. Così che

lo sentirono tutti, perfino i suoi “colleghi”. Non vi dico la gioia dei miei amici oltre

alla mia, naturalmente, nel vedermi uscire vincitore da quel confronto. Un evento del

tutto eccezionale. Stranamente, quel signore che poco prima mi sfidò e cercò di

umiliarmi di fronte a tutti ma, soprattutto, anche di fronte ai miei amici, mi propose di

entrare a far parte del circolo, in quanto anche secondo lui avrei potuto gareggiare a

livello agonistico nei vari tornei nazionali. Ci pensai un attimo, ricordandomi tutto

l’accaduto ed il comportamento di quell’uomo, che era già arrivato in cima. Cercai di

pensare a come sarei diventato io, non soltanto come giocatore ma come uomo adulto

e maturo. Non riuscivo ad immedesimarmi, e non mi piaceva affatto l’idea di vedermi

pronto ad umiliare qualcuno, soltanto per essere diventato un campione di dama.

A me interessava molto imparare a giocare, ma desideravo altrettanto diventare un

uomo, non dico “saggio”, ma almeno assennato. Quindi, gli risposi che l’agonismo ed

il professionismo non facevano per me, e mi girai verso i miei amici dicendo loro che

potevamo andarcene. Salutai tutti, “l’ex campione” ed i suoi colleghi, ed insieme agli

amici uscii da quel circolo e dal bar, per non entrarvi mai più. Ogni tanto gioco

ancora a dama, perché lo ritengo veramente bello ed anche molto educativo, sempre

per via di quell’uguaglianza delle pedine, di cui accennavo all’inizio di questo mio

racconto. Probabilmente, alcuni giocatori non ci avranno nemmeno fatto caso o,

forse, se lo saranno dimenticato. Ma io lo tengo a mente, ad ogni partita che faccio:

nel gioco della dama, non c’è una pedina che valga più di un’altra.