E suvvia, siamo onesti!

La donna è composta da numerosissimi pezzi, moltissime situazioni sbagliate, una marea di contraddizioni, signori miei!

E che vi piaccia o no, non sarò io a spiegarvi come bisogna assemblarli. Se lo avessi saputo, sarei stato milionario e avrei avuto un motivo in più per amarvi ancor di più tutte!

Una cosa ve la dico però a riguardo, cari ascoltatori-lettori incuriositi:

quando ad una donna tutti questi pezzi di cui vi ho parlato e che non conosco di preciso nella loro singola composizione, sono nel modo “giusto”, diventano creature fantastiche, irraggiungibili, amore e basta. Ecco cosa sono forse le donne quando girano per il verso giusto, quando nessuno gli ha messo in disordine tutto: sono “Amore e basta”.

Perché vedete cari miei, la donna è complicata, ce ne siamo abbondantemente accorti in questi anni di martirio, però può diventare semplice, se solo sapete riordinarle i pezzi del cuore, se assemblate il puzzle, se le ricomponente i pensieri rivoltati dalla parte del cartone. Scoprite tutte le figure, componete le immagini, ribaltate le idee, perché ci vuole pazienza senza dubbio, ma la costruzione di tutto, sarà soltanto opera del vostro ingegno, del vostro onore.

Insomma, una donna è un rompicapo e cari miei, se la testa ce l’avete dura, dimenticatevi di avere a che fare con esemplari del genere, di quelli potenzialmente perfetti, anche se messi momentaneamente a soqquadro. E non prendetevela, non è sessismo, è oggettività, amici miei.

La donna è tutto. Mettetevi l’anima in pace, rimboccatevi le maniche e rigirate tutti i pezzi, e beh, se non ci riuscite, innamoratevi anche delle tessere che non siete riusciti a voltare.

Perché quello è un po’ l’amore, amare anche i difetti, anche quello che rovina la visione finale, anche quello che ti allontana dalla perfezione e ti costringe ad amare qualcosa che non ti aspettavi, ma che c’è e, a sua volta, ti ama proprio per quello: per i suoi vuoti, per i suoi tasselli di incompiutezza e per i suoi spazi che con tanto amore hai colmato e curato.

 


 

 

Nell’affetto che ho da dare riassumo quella giornata tutta uguale.

Identica alle precedenti,

e che anche se non lo so, sarà medesima alle successive. Ad ogni modo lo ingoro. Stringo i denti.

Ho ancora tanto da poter offrire a voi che non ci siete mai, che per scelta avete vissuto senza di me. Non vi biasimo affatto, alla mia età forse potrei averne le competenze per quanto ho vissuto e conosciuto più di voi, ma ve lo ripeto, ho troppo affetto per poter essere triste di questo. Posso sembrare a voi sconsolata, ma dal mio balconcino osservo il vostro mondo giovane e vi assicuro che non è poi tanto più triste di quanto sembro io ai vostri occhi sempre troppo impegnati per me. La mia giornata si riassume nell’osservarlo, nel sorridergli. Non trovo nessun difetto che non potrei attribuire anche a me. Questo mi fa sorridere, mi rincuora, mi fa credere che non sono poi così male, o almeno, non sono peggio della maggior parte delle cose al giorno d’oggi che vedo da qui su, anche se sono al primo piano, e “su” proprio non è. È per questo che sono in silenzio con i miei gatti. Loro ci sono, esistono, beh insomma, sono qui di fianco a me. Sono dei grandi osservatori, loro hanno capito che un po’ sola lo sono. Come faccio a saperlo? mi direste voi con quello sguardo da finti sapientoni che mi credono andata per via dell’età. Semplicemente quando sono triste non mi manca mai un gatto sulle mie ginocchia, andate a sgretolarsi con gli anni insieme alle vostre attenzioni. Sembra quasi che la vecchiaia sia un repellente d’affetto per i propri cari, sembra quasi che con la vecchiaia non ci sia più posto per l’amore. Si pensa che si abbia già dato tutto, che ci si sia svuotati. Non mi sento un peso, insomma, sono ancora in grado di camminare. Quando posso, vado ogni mattina a fare la spesa. Non è lontano il piccolo salumiere in fondo alla strada, forse per questo ancora ci vado. Sarà piccolo, ma ai miei occhi presbiti sembra un vero e proprio supermercato. Insomma, ci trovo tutto quello di cui ho bisogno. Il pane è sempre fresco, non è il migliore che ci sia in zona sicuramente, non è nemmeno come quello che mi preparava mia mamma da bambina, ma è pur sempre un ottimo pane.

Faccio sempre la spesa per mio figlio, è un grande dottore, primario, così mi sembra abbia detto l’ultima volta che l’ho visto qualche mese fa. Non lo vedo molto, come potete aver compreso, ma in compenso mi chiama spesso, tutte le volte che può, dice. Ad ogni Natale è il primo a telefonarmi, di tanto in tanto anche a Pasqua. Il giorno del mio compleanno mi manda sempre un mazzo di fiori, dei più profumati che ha trovato dal fioraio vicino casa sua, mi ha sempre detto. Nella busta mette sempre un biglietto d’auguri, di quelli simpatici. Non lo scrive lui, ma l’augurio è sincero, lo so. E comunque il biglietto mi fa sempre sorridere. Li ho conservati tutti, dal primo all’ultimo. Non conservo molto, ho poca memoria, però quelli non li dimentico mai, non confondo mai dove li ho nascosti come fossero gioielli. Sono tutti nel cassetto delle lenzuola, in fondo a tutto, un po’ sulla destra. Li nascondo perché ho paura di dimenticare dove possano essere finiti. Di gioielli non ne ho più molti purtroppo; con gli anni a poco a poco sono diminuiti, un po’ perché io sono smemorata e non so a chi delle mie nipotine li ho regalati e un po’ perché qualche cameriera, sono convinta -anche se mio figlio dice di no- se li sia portati con lei come buona uscita. È un vero peccato, amavo molto impreziosirmi con quei pochi gioielli che mio marito con tanto sforzo e fatica, nel corso degli anni mi aveva regalato. Era sempre un via vai di badanti in questa casa da quando lui non c’era più, fino a che io mi sono rifiutata.

Come un poeta che è schiavo del flusso d’ispirazione che non può non ascoltare, che non può evitare di tradurre su carta il prima possibile, prima che svanisca, che si tramuti in un vuoto desolante, cosi è un po’ il mio affetto. Non posso non dargli sfogo.

Sono in pensione, ero una maestra e i soldi li ho visti passare molte volte nelle mie mani, pochi ma, ringraziando iddio mi sono sempre stati sufficienti. Con gli anni ho capito che non valgono più di tanto. Se potessi darei a mio figlio anche quel poco che mi rimane per poter vivere ogni settimana. La mia vita è mediocre lo ammetto, vent’anni fa non me la sarei immaginata così. Abito in un vicoletto da 30 anni. Tutte le mie amiche che vivevano lì a poco a poco sono venute a mancare, ne è rimasta solo una. Ogni tanto la vedo ancora che prova a sgranchirsi le gambe passeggiando per il viale. Penso a mio figlio quando la vedo, che abita in un meraviglioso attico in centro, mi ha mostrato una foto della vista che c’è da lì una volta. Se fosse la signora Ida ad abitare lì, non potrebbe nemmeno fare due passi, ci metterebbe troppo a scendere in cortile. Dice che è per questo che non mi porta a vivere con lui e sua moglie, mio figlio, o almeno così mi sembra abbia detto quell’unica volta che glielo chiesi.

Ha pensato alla mia salute, mi ha detto. Ci credo, mi vuole bene, però forse non ha pensato anche alla mia solitudine, a che a poco seguirò le mie amiche, forse proprio prima della signora Ida.

E chissà che fine faranno i miei gatti, anche perché nel condominio di mio figlio non è permesso tenere animali…

 


 

 

Che forse in un mio iscritto ci sia l’ombra di una verità di qualcosa di bellissimo ma  troppo indelicato ed effimero per essere sfiorato da me, semplice uomo contraddittorio?

Rozzo e brutale è ciò che leggo dopo averlo scritto. Poi lo rileggo ed è grazioso, accurato.

Alla terza volta che lo rileggo lo detesto, detesto i periodi, la forma, il significato, persino la punteggiatura. Non riconosco i miei stessi pensieri.

Non riesco a risalire al modo in cui ho ragionato.

Ai miei stessi occhi risulto uno sconosciuto confusionario.

Lo correggo.

Ultimate le correzioni lo rileggo fino a che nuovamente non mi piaccia. Lo rimodifico, lo perfeziono, anche se molto spesso, cercare di perfezionarlo implica un peggioramento.

È un rituale, una continua modifica che porta all’orrido, al disgusto delle mie stesse identiche parole che mischio alla rinfusa per creare concetti, immagini che in forma più o meno immediata cerco di trasmettere a voi che credete di leggermi ma che in realtà non lo fate affatto. Ciò che credete sia un mio pensiero è una menzogna. È un elaborato mediocre, approssimativo, frutto dei miei continui, periodici e incessanti mutamenti da uomo mediocre e indeciso fatto di crepe e debolezze inguaribili.

Voi non mi leggete, voi leggete un me che non esiste più, e che se potesse, avrebbe ricancellato e riscritto tutto da capo, senza lasciare alcuna traccia di queste semplici e banali parole. Voi leggete un me che esisteva, che sì, senza dubbio c’era ma che ora come ora non vi è se non sotto forma di queste poche righe che leggete.

Ecco spiegata la mia schiavitù alla scrittura. Ecco spiegata la sua immortale coerenza e decisione e la mia immediata e scontata subordinazione ad essa. Esiste immodificata, al contrario di me. Non smetto di esserci, mi modifico in qualcosa di più complesso, mentre i miei periodi, per quanto complessi e sgrammaticati, ricoprono lo stesso ruolo che avevano in precedenza. Sono immutati, immobili, fissati nel medesimo concetto che era stato elaborato da me in passato e che non rispecchiandomi più, ora appartiene solo a loro.

Derubato dei miei stessi pensieri. Ecco come mi sento ogni volta che mi trascrivo su carta, perché tanto so che in breve tempo sarò oltre tutto quell’elaborato e di quel pensiero non ne resterà altro che una breve e concisa testimonianza scritta e  scaduta.