A mani giunte

Sporgenza o tempo
al muro
distanza mai colmata

Sull’orlo della gonna
arresi fianchi sfatti
vita e polvere

occhi nella smorfia
aspettano
consegnati al quadro

Tondo Doni
dei racemi che furono non resta
che sparuto racchio.


Vecchi

Si sta sul fondo
immersi di parole
color bistro
a trapanare ore
in sabbie mobili.


Giardino

Nessuna guarigione
a potare il cielo
fronde sgarbate
mutano la sostanza
del nome
identità sottratta
occhi di pavone
in carestia di ortiche.


IL tatuaggio

Uno
Liberi, liberi…
In questi giorni è accaduto che nelle orecchie penetrasse come un ritornello paradossale e proprio per questo autentico.
E così, “dentro la vita”, quella che ti è rimasta, stai lottando proprio per trovare la “via d’uscita”. Sono seduta accanto a te, a quello che resta di te, gli occhi li apri appena, quel tanto che basta a far entrare gli affetti e un miscuglio di passato e presente che si snocciola negli appelli. Già perché chiami sempre. I tuoi fratelli, il don, Relio, Checco, tua mamma e non puoi capire l’effetto che fa sentirti chiamare mamma come un bambino…allora, mi alzo, faccio due passi nel corridoio, quello dove ballavo Liberi liberi e con le pattine scivolavo con un perfetto sguish…merito della nonna che aveva passato la lucidatrice dopo aver steso per bene la cera.
Ritorno nella stanza, non sono triste. Sono concentrata sui tuoi movimenti. Uguali. Ognuno che compi varia a seconda dell’arto che muovi. Il braccio destro ogni quattro-cinque secondi; le gambe simultaneamente, unite; infilo le mani tra le tue ginocchia e la sponda del letto, così non ti fai male; però, quanti lividi, non sempre riesco a evitare che tu prenda qualche botta. Il dito indice della mano destra ha una cadenza di anche dieci minuti, un quarto di ora. E’ il gesto meno convulso. Mi chiedo cosa tu stia facendo in quegli istanti. Non trovo risposte. Ma di nuovo la sensazione di trovarmi innanzi a un neonato che compie tanti movimenti senza sapere ancora bene il perché.
Da dentro, mentre il mattino entra dalle fessure della tapparella, mi prende di nuovo il desiderio di canticchiare…liberi, liberi…dentro la vita, urlando, chiedendo qual è la via d’uscita. Buio. Notte. Già, ma è mattina. Una mattina di maggio asciutta e fredda. Quest’anno la primavera non c’è. Dicono che arriva Ginevra sabato. Temperature tardo autunnali. Crispoli! Tu dicevi sempre così. Soprattutto quando avevi piantato i pomodori e poi imprecavi (veramente qualche volta ricordo bene che te la prendevi un po’ troppo con Quello lassù) perché le piantine diventavano gialle. Segno inequivocabile che stavano soffrendo. Che c’era una sofferenza in atto.
Come la tua di adesso. Tu però non sei giallo. Un leggero pallore ti si è incastrato tra le rughe. Certi giorni hai un aspetto verdognolo, altri sei proprio bianco. Altri mi sembra di vederti addosso tutti i colori del mondo. Forse, prima di partire, starai pensando di fare incetta dell’arcobaleno.

Due
Poi ieri sera l’arcobaleno ha fatto capolino nel cielo. Dopo aver “fatto” tutti i tempi come dicevi sempre tu. Nel pomeriggio nubi bianchissime e spumeggianti avevano spinto da sud-ovest aggrottandosi nell’azzurro che lentamente sfumava nel grigio verso Milano. Si sono confuse con l’ennesimo acquazzone. Le ho seguite con lo sguardo finché si sono sciolte come la panna spray che lì per lì riempie la scodella e dopo pochi secondi ciò che resta sembra una chiazza di latte acquoso e scaduto.
…liberi, liberi…dentro la vita…
Maledetta primavera! Nei tuoi ultimi attimi sto comunicando attraverso titoli di canzonette. Osservo il cielo stringendomi nel maglione, la primavera maledetta della Goggi. Sono stata in biblioteca ieri pomeriggio, ho accompagnato A. C’è stata la presentazione dell’ultimo libro di Guido Quarzo. Titolo: La meravigliosa macchina di Pietro Corvo. Te ne parlerò. Senz’altro.
Devo lasciarti. Stamattina siamo intorno ai tre secondi. Sempre il braccio destro, stesso movimento. Mi chiedo se tu non sia stanco, sfinito.

Tre
Questa notte mi hanno riferito che hai dormito. L’iniezione di diazepam ha fatto effetto, pare. Perlomeno per qualche ora. Poi hai sicuramente ripreso i consueti movimenti delle braccia; braccio destro, a essere precisi. Il sinistro non lo muovi quasi mai. Usi la mano, stringi il lenzuolo con una forza sproporzionata alla debolezza che ti sta accompagnando giorno dopo giorno. Col braccio sinistro, però, non disegni arabeschi nell’aria. Ieri avevo dovuto usare tutta la mia di forza per separare ogni dito, dal pollice al mignolo, dal risvolto del lenzuolo. Il tempo di contare fino a tre e il pugno era di nuovo serrato dentro la stoffa bianca a fiorellini blu. Mi chiedo cos’è che stai stringendo con una tale presa, oltre il lenzuolo. Ah, la nonna dice che domani il letto è da cambiare. Dovrai pazientare sulla sedia a rotelle quel tanto che basta a sostituire le lenzuola pulite.
Oggi e domani non verrò. Ci sono gli altri. Preferisco non incontrarli. Lo sai. Lo sapevi. Lo hai e lo abbiamo sempre saputo. Hanno lasciato il segno della loro presenza. Il mensile, credo si tratti proprio di un mensile: Lions, qualcosa come Le attività dei Lions…non mi ci sono soffermata. Non me ne frega niente. Preferisco, quando siamo tu ed io, concentrarmi su di te e leggere il mistero della fine attraverso i tuoi zigomi alti e le tue labbra secche che hanno perduto il loro disegno originario inghiottite dalle guance dove sta ricrescendo la barba più ispida del solito. Io non lascio segno della mia presenza. Tutt’al più, potrei dimenticare l’unica cosa che sai io possa lasciare: un libro. Ma, non succede. Loro, i libri, viaggiano insieme a me.
Undici. Di cui due sotto la chioccia che sta covando. Le altre nove erano nell’altro giaciglio. Saresti orgoglioso e felice. Papà sta ripercorrendo la tua stessa strada. Diciamoci la verità. Ha costruito il pollaio per fermare il tempo in qualche modo. Ti è mai venuto in mente che le cose le ri-facciamo per questo motivo? Credo di sì. Comunque, andare a cogliere le uova fresche nella paglia e sentire il loro calore tra le mani è un’emozione grandissima. Sono sicura però che non immagini neppure lontanamente che le galline sono in realtà, dinosauri sopravvissuti all’estinzione. No. Questo non sono riuscita a dirtelo. Mi spiace.

Quattro
Il catetere come da copione ha fatto infezione. Il verdognolo dei giorni scorsi ha ceduto il posto al rosso che si dirama dalle guance alla fronte, con una concentrazione maggiore appena sotto gli occhi. Ti avevo detto che ti avrei parlato de La meravigliosa macchina di Pietro Corvo, l’ultimo libro di Guido Quarzo.
«Il corpo non è che un orologio (…). Concludiamo dunque coraggiosamente che l’uomo è una macchina». Julien Offroy de La Mettrie, 1747. L’infermiera venerdì scorso, nonostante i numerosi anni di esperienza, non ha saputo manovrare l’ingranaggio. Non è in gamba come Mastro Pietro Corvo, il protagonista del libro, l’orologiaio che non poteva sopportare l’idea che una sua creazione non funzionasse a dovere. Beh, mi dirai, il catetere non lo ha mica inventato l’infermiera e quindi non essendo una sua creazione, non ha nessun moto particolare che la spinga a controllare che funzioni bene e soprattutto che si trovi posizionato nella giusta sede.
Questa notte al pronto soccorso ti hanno dovuto fare un’eco per capire dov’era (il catetere): nella prostata e ovviamente rimuoverlo. Ma io continuo a domandarmi dove tu sia davvero.

Cinque
Nel giro di due settimane le tue braccia si sono svuotate. La pelle sembra l’unica superstite di tutto ciò che un tempo aveva formato un braccio forte e vigoroso. Tutto sparito: muscoli, tendini. Dai gomiti alle spalle è un susseguirsi di pieghe e pliche accartocciate su stesse.
Tatuaggi. Mi sono venuti in mente i tatuaggi nel corpo di un ultranovantenne. C. ad esempio, ne ha ovunque. Non riesco a immaginarla alla tua età con tutte quelle lettere e quei disegni rappresi come grumi di sangue sulla pelle. Meglio, riesco a vedere corpi che una volta sono stati giovani e tatuaggi esibiti anche a -10° a gennaio che di corpo e tatuaggio non hanno più nulla. Una rosa dei venti ridotta a un punto d’ordine; un nome diventato una linea scura sopra la pelle corrotta e corruttibile; una coccinella trasformata nel peggiore dei mostri e un cuore, il classico cuore, ridotto a uno sgorbio, quasi uno sbaglio del tatuatore.
Intuisco ancora una volta che il motivo è sempre lo stesso: fermare il tempo. No. La questione è più complessa. Illudersi che sia eterno. Ma è tempo. Non eternità. Stoffa diversa. La stessa differenza che passa tra il parmigiano reggiano D.O.C. e lo scarto di lavorazione che trovi nelle lande desolate di un LIDL.
Orrore. Non per la tua pelle. Per la scarsa consapevolezza che l’essere umano ha di se stesso. Una miopia incurabile. Converrai con me che non c’è disturbo della vista peggiore di quello che non ti dà nessuna possibilità di vedere te stesso.
Avevi ragione. L’uomo ha paura di invecchiare. Cioè di vivere. E allora che fa? Si fa fare un tatuaggio. Avevi ragione.

Sei

Hai trovato la via d’uscita. Ci hai impiegato cinque ore e venticinque minuti. Non un sussulto, niente rantolo spasmodico. Solo, all’ultimo, sembrava ti venisse da vomitare. In realtà la lingua andava giù, verso l’antro buio del tempo che stava consumandosi come a rincorrere se stesso irrimediabilmente e hai cercato di recuperarla. Poi il silenzio colmo dei momenti di tutta la tua vita che mi sono transitati davanti agli occhi uno ad uno, trasparenti come l’aria fredda di questo giorno di maggio. Il foulard di seta blu ti ha incorniciato gli zigomi per comporre le labbra chiuse nella pace che inseguivi; mi hai fatto tenerezza, una tenerezza infinita e mi hai ricordato le scenette comiche di uno in preda al mal di denti. Fortuna che nel giro di poche ore, quel lemboo di seta è stato rimosso.
Sono molto bravi. Dei veri professionisti. Mi hanno sempre incuriosito e affascinato. Valigetta, guanti in lattice, movimenti sicuri, gesti precisi accompagnati da un’umanità piena e delicata. La morte è (anche) questo.

Sette
Il countdown è cominciato alle 9,45. Sono arrivati puntualissimi, valigetta, fiamma ossidrica, scatolina di legno con viti in ottone dalla capocchia arrotondata. Siamo rimasti soli, tu ed io insieme a loro. La stanza si è improvvisamente svuotata come un lavandino colmo d’acqua quando si rimuove il tappo. A dire il vero lo zio è rimasto in piedi vicino a me col suo completo nero che non ha fatto altro che accentuare il capo canuto. Non me lo ricordavo così bianco. Comunque la sensazione era che ci fossimo soltanto noi due.
La saldatura all’ossidrogeno ha catturato la mia attenzione come fossi una bambina di otto anni che cresce a pane e curiosità. La rosa in rilievo sulla copertura di zinco, invece, mi è sembrata un orpello inutile. C’era qualcosa che strideva in quella rosa con la testa lievemente reclinata verso destra. Non chiedermi cosa. Non saprei risponderti. Tu amavi le rose. Quelle vere.
Hanno proceduto silenziosi. Ogni tanto si scambiavano qualche parola veloce. Sembravano chirurghi all’opera chini sul paziente. Hanno spalancato la finestra a causa dell’aria intrisa di uno strano odore metallico. L’odore della fine di tutto, mi sono detta.
Poi è venuto tutto il resto. A dire il vero delle persone che sono venute a salutarti, non ho visto nessuno. Cioè, le vedevo, senza vederle. Che me ne sia passata accanto una o nessuna o centomila quella processione ha avuto per me scarsa importanza.
Cosa è importante alla fine? Da qualche parte ho letto che è buona norma pensare sempre, al mattino e alla sera, alla morte. Qui gli uomini non sanno fare altro che esorcizzarla. Che dici? Sarà questione di allenamento? O il significato sta tutto in un tatuaggio?