Ippocastano

Venerdì di solito, era uno delle mie giornate preferite. La scuola terminava, e per due giorni; da quando qualche brava persona ha deciso che non si doveva più frequentare il sabato, ero libero dagli obblighi scolastici, libero di andare in giro con amici, libero di fare esattamente ciò che volevo, tutto questo grazie a mio nonno, con il quale trascorrevo le mie fini settimane, e le vacanze scolastiche.

I miei genitori, entrambi professionisti, lavoravano in città, e spesso i loro impegni li trattenevano lontano, cosi io rimanevo a casa del vecchio.

Lui era un uomo piuttosto schivo, non frequentava il bar o la piazza, soltanto di sabato, andava a fare compere, la mattina al mercato, verdura, pesce, e in prima vera, qualche semente per l’orto.

Del resto, lui passava il suo tempo costruendo oggetti utili per la casa, in ferro battuto o ceramica, aveva un laboratorio sotto casa, dove in mezzo ad una miriade d’attrezzi, fluttuava, compiendo magie con le mani.

Quando la stagione faceva bella, intorno a maggio e aprile, preparava l’orto.

La sera invece particolarmente durante l’inverno la passava davanti al camino, e in quelle occasioni mi raccontava storie, storie quasi mitologiche, di vecchi che aveva aiutato durante quest’o quell’altra impressa, dove riuscivano sempre a cavarsela, grazie alla loro astuzia. Raccontava di posti lontani da lui visitati, dove aveva scorso cose incredibili. Erano storie, penso, che tutti i vecchi di un tempo immagazzinavano, per poi proporle in una sorte di repertorio, a qualche nipote piccolo.

Io lo ascoltavo sempre, anche quando ripeteva un aneddoto o storiella che conoscevo a memoria.

Sapevo che mi voleva bene, e pensava di divertirmi.

In uno di queste occasioni, ricordo, gli chiesi perché non andava mai a lavorare come tutti gli altri, in fabbrica o per una ditta, per un attimo lui contemplò la domanda, poi alzando la sua faccia gialla; lui sedeva davanti al caminetto, su una piccola sedia, alta circa trenta centimetri, e impagliata con la rafia, tutti gli anni lo impagliava lui. Io ero seduto su una sedia al tavolo cosi che ero in una posizione più elevata. Mi disse, ”otto ore di galera, quello e il lavoro! Padroni che sfruttano le idee di persone capaci, persone che fanno funzionare le cervella, non scrocconi farabutti che hanno venduto l’anima al diavolo per denaro.”

Non capivo esattamente cosa volesse dire con quella frase, però con la veemenza con la quale la pronunciava, pensai che la cosa più saggia, era tacere. Ma dell lavoro, mi si formo una pessima immagine.

Quando la primavera arrivava, come ho già accennato, lui iniziava a preparare l’orto, io gli andavo appresso, dandogli una mano come potevo; lui lavorava di solito in silenzio, interrompendolo solo se trovava qualche erba nuova di qui spiegarmi le proprietà, nutritive od officinali, in materia pareva un’enciclopedia, secondo lui, tutti i mali potevano essere curati con le erbe, partendo dalle erbe più comuni, come i cavoli, per le loro proprietà anti-tumorali, o la menta per facilitare la digestione. Raccontava anche di rimedi utilizzando piante insolite, come ortiche per guarire l’anemia e la scrofularia per il trattamento della cancrena.

Come spesso accadeva in questi casi io non credevo a tutto quello che mi raccontava, certe cose mi sembravano improbabili, e non perdevo tempo a consultare qualche libro per verificare, sarei rimasto stupito di scoprire che sul conto delle erbe, lui non aveva torto. La prova, in ogni caso l’avuto un’estate.

Chiuse le scuole a meta giugno, le giornate soleggiate e calde, io ed un paio di amici decidiamo di andare a pescare le trote nel torrente che scorreva a poche centinaia di metri dalla casa di mio nonno, preparammo il necessario e la mattina di buon’ora ci rechiamo al fiumiciattolo, iniziamo a pescare, e ovviamente col avanzare della giornata aumentò anche la temperatura, cosi facemmo anche il bagno nei pozzi più profondi. Con tutta la preparazione della pesca però non avevamo previsto gli asciugamani, cosi per l’intero pomeriggio rimanemmo bagnati, e col calare del sole, infreddoliti.

Al rientro la sera, mio nonno mi mandò direttamente a fare un bagno caldo, nel mentre, lui si affrettò a preparare un buon brodo di galletto; per scaldarmi dentro, disse lui. Tutto il tempo, comunque, lui brontolava di bambini incoscienti e irresponsabili, come se lui nella sua vita non avesse mai fatto quelle cose, una chiara contraddizione, perché nelle sue favole raccontava di aver fatto cose ben più pericolose, di un tranquillo bagno al fiume.

Dicendolo questo, mentre mangiavamo il brodo caldo, feci arrestare il tragitto del suo cucchiaio a metà, tra piatto e bocca, e lui, immobile cosi, rispose che lui era di un’altra generazione, allevata con ghiande secche di inverno e fave d’estate, non brioscini ed altre pappine finte, di questi giorni qua.

Aveva ragion lui, il giorno seguente, al mio risveglio, ero maledettamente raffreddato, la testa mi doleva e il naso colava, ero senza forza, nemmeno per scendere dal letto.

Chiamando con quel poco di voce che mi era rimasto, mio nonno entrò in camera mia, si fermò un attimo, e sempre scuotendo la testa borbottò “boccia d’oggi cioè “ragazzi di oggi” mi controllò la fronte per sentire se avevo la febbre, l’avevo!

Mi fece alzare e vestire, solo indumenti in lana però, si raccomandò, poi mi mandò davanti al fuoco, giù in cucina. Dicendomi di non spostarmi dal quel punto.

Lui usci per andare in drogheria.

Sentivo cosi male che non avevo nessuna voglia di spostarmi dal quel fuoco che mi scaldava e confortava, cosi rimasi li fino al suo rientro.

Portava con se un pacchetto di carta marrone, mi ordinò di togliere i calzini, troppo malato per chiedere il perché lo fece, nonno li ha appesi sulla griglia davanti al camino, e poi dal sacchetto marrone estrasse un altro pacchetto di carta, quando lui lo apri, vidi una polvere gialla, lui mi disse “senape”, proseguendo, riempi i miei calzini con quella spezie, quando sembrava soddisfatto annui, come per dire mettiteli!

Feci cosi, e seduto ancora davanti al caminetto, coi calzini pieno di senape. Non so come, iniziavano a scaldarmi i piedi e mi veniva da sudare, lui mi preparò un tè caldo da bere, fatto questo, mi annunciò che dovevo andare a letto, e che l’indomani non avrei avuto più niente.

Effettivamente cosi è stato, il giorno successivo non avevo nessun dolore o raffreddore. Per me questa è stata la prova indiscutibile delle sue conoscenze nell’uso delle erbe.

Passarono gli anni dal quel giorno, e quando terminai la terza media, rivelai a tutti che avevo intenzioni di proseguire gli studi presso un liceo scientifico.

I miei genitori erano contentissimi, cosi organizzarono una festa nella casa in città.

Tanti amici furono invitati, e quando qualcuno chiese come mai avevo scelto il liceo scientifico, risposi, “vorrei diventare un ricercatore medico, nel campo farmacologico!” E con questa risposta tutti applaudirono la festa continuò.

Mio nonno tornò su in montagna. Nelle settimane che susseguirono, fece, insieme con i miei, tutti le iscrizioni per il nuovo anno scolastico.

Verso la fine di agosto, o per lo stress o per un virus, tutto ad un tratto mi salì la febbre, mi misi a letto, però, nell’appartamento cera qualcosa che mi rendeva scomodo, all inizio sembrava solo la mia agitazione, perché ero malato, ma dopo un po’, però, capì che volevo tornare dal nonno, ero certo che li sarei stato più tranquillo, cosi, dopo due settimane di malattia chiesi ai miei se potevo andare su da lui, sostenendo che l’aria in montagna mi avrebbe fatto bene, loro con tutti i loro impegni furono ovviamente d’accordo, cosi quel sabato di meta settembre mio padre mi accompagno dal vecchio.

Le scuole erano già iniziate, e a malincuore dovetti rimanere a letto, la febbre saliva e scendeva a volontà. Tutti i medici che mi visitavano erano sgomenti, nessuno sapeva cosa fosse la causa del malessere. Oramai erano quattro settimane da quando avevo iniziato con la febbre avevo perso parecchio peso, allora mio nonno, arrabbiato con tutti, chiamandoli ciarlatani ed imbroglioni, non permise più a nessuno di entrare in casa, affermando che mi avrebbe curato lui.

Dalla mia finestra, all secondo piano scorgevo la vallata sotto, anche il grande campo dove nonno faceva l’orto, in fondo, poi iniziava il bosco dove andavano talvolta a raccogliere funghi, li, quel giorno vidi andare mio nonno, proprio all’inizio del sentiero del bosco dove sorgeva un ippocastano gigante, nessuno sapeva l’età precisa di quel maestoso albero, chi diceva due, e chi tre cento anni, in ogni modo, mio nonno con un rastrello lungo, fece scuotere tutti i rami più in basso e raccolse i grossi ricci caduti, aprendoli, tolse tutti i frutti e riempì un cesto, fatto questo, fece ritorno a casa.

Dal letto oramai non mi alzavo più, ero debolissimo, e poi di tanto in tanto ero afflitto da un mal di testa terribile che mi costringeva a chiudere gli occhi per lunghi periodi.

L’attimo dopo aver guardato fuori per cosi a lungo scatenò uno di quegli attacchi.

Sdraiandomi sul cuscino cercando sollievo, chiusi’ gli occhi, e dovevo essermi addormentato perché non vidi ne sentì entrare in camera mia il nonno.

Al mio risveglio, per modo di dire, perché non so se avevo dormito o se ero svenuto, sentivo delle cose dure nel letto, con fatica sollevai le coperte e trovai tutte le castagne selvatiche che mio nonno aveva raccolto, nel letto!

Lui in quest’attimo rientrò nella stanza, e vedendomi sveglio, spiegò, “quelle assorbano la febbre, presto ti sentirai meglio, fidati!”

Non so quanto tempo passò, ricordo i miei che piangevano vicino al letto, il dottore tornato di nuovo, litigando col nonno e togliendo le castagne dal letto, io mi sentivo leggero, come se galleggiasse nell’aria, arrivò un prete e parlò a bassa voce con mia madre, la cosa strana è che guardando verso il basso riuscivo a vedere me stesso, che dormivo tranquillo fra tutta quella gente, non dovevo più guardare fuori la finestra per vedere i campi sembrava che ci volteggiassi sopra.

Vidi il mio vecchio nonno, lacrime negli occhi, avviarsi verso l’ippocastano, motosega in mano, e d singhiozzava, “non l’hai salvato, allora l’accompagni!”


Cinghiale

La notte buia era mia amica. Mi nascondeva dai nemici.

Attraverso la folta boscaglia scrutavo, poi, annusavo, di questo senso ero più fiducioso.

L’aria, in questa stagione, dopo le prime piogge, era pulita, e portava con se una carica d’odore.

Ad un naso fino, come il mio, tesseva una leggenda della zona in cui mi trovavo.

Quello che più saturava il mio olfatto, era l’odore di terra, non solo quella che calpestavo, ma anche quella dov’ero diretto. La mia destinazione era una grande pozzanghera di fango. Negli anni passati ero sempre venuto in questo periodo, per farmi gli ultimi, meravigliosi bagni. Sapevo che il periodo freddo era prossimo, la mia percezione delle stagioni era quasi perfetta. Avendo superato cinque stagioni ero uno dei pochi maschi solitari di questo territorio.

Attraverso la boscaglia non vedevo ancora nulla, perciò dipendevo maggiormente del fiuto.

Se avessi avuto meno anni ed esperienza, mi sarei lanciato in modo sfrenato verso il bagno, ma questa notte qualcosa, un’impercettibile sensazione m’impediva di farlo.

Analizzavo gli odori, e sentivo bacche di mirtillo e lampone, ancora attaccati alle piante, da dove erano scampati agli uccelli, ma oramai troppo maturi, dolci nella loro putrefazione.

C’erano l le muffe, più intense invitanti, specie quelle che sapevo essere velenosi; Il branco in cui sono cresciuto vedeva bene di insegnare i piccoli quali fosse buoni e quali pericolosi. Poi cerano i tartufi, tuberi da scavare sotto l’humus con il grugno, che si riempiva di terra, madre terra. Infatti, questi deliziosi frutti, appassionavano ogni cinghiale più di qualsiasi altro alimento.

Sentivo l’odore di escrementi, quelli di una volpe, freschi, anche di scoiattolo, i quali riuscivo anche udire nelle loro scorribande notturne, raccoglievano castagne e nocciole per la stagione dei ghiacci.

Mentre rimanevo immobile, iniziai a ricordare il percorso della mia vita.

Tornando indietro ricordò quella prima stagione, quella della nascita. Era l’unico che passai senza accorgermi di cambiamenti distinti, né riguardante le stagioni, né riguardante lo sviluppo. Totalmente diretto dal branco e protetto da mia madre.

La seconda, invece, con lo sviluppo ormonale, mi rimasi impressa nella mente. Anzi tutto, certe femmine del branco iniziarono ad interessarmi, e non solo, quando il branco passava vicino (di solito a notte fondo) alle abitazioni degli uomini, le scrofe in calore mi eccitavano al punto da costringermi ad allontanarmi dal branco per rischiare un pericoloso incontro.

Gli uomini, si sapeva, a volte legavano queste femmine ad un albero, non lontano dalle loro abitazioni, proprio con la speranza che qualche d’uno di noi si avvicinasse per l’accoppiamento. Avevo sentito d’incidenti dove maschi di cinghiali, andati a montare queste scrofe di maiale, furono fulminati subito dopo, da uomini nascosti nelle vicinanze.

Un altro guaio consisteva nel imbattersi in qualche vecchio maschio solitario (proprio com’ero io adesso) che non possedeva più una femmina fissa, ed era spinta da tanta voglia, che lo rendeva aggressivo e scontroso. Ma queste scrofe, cosi diverse dalle nostre femmine erano morbide e accoglienti, e sembravano più calde, probabilmente perché privo di setole, o almeno con meno delle nostre, ed invitavano ad accoppiamenti lunghi e piacevoli anziché veloci nella nome della sopravvivenza, perciò valeva la pena rischiare.

Adesso sempre cauto, feci qualche passo verso la mia pozzanghera, sentivo il fruscio di un gufo, ali che tagliavano l’aria, gli scoiattoli erano azzittiti, avevano anche loro il nemico nel pennuto notturno. La volpe probabilmente si stava avvicinando a qualche pollaio, perché lontano nella notte sentivo il frenetico abbaiare di cani.

Feci altri passi in avanti, sempre con cautela, non era mai troppo, anche se due vecchie ferite dolevano e un bagno nel fango avrebbe alleviato questa pena.

Ah, si!

Quelle due ferite! Ero stato fortunato nel mio unico incontro con l’uomo. Fu due stagioni fa, mi ero allontanato dal mio branco per seguirne un altro dove alcune femmine erano in calore, volevo tentare ad unirmi a loro, magari scacciando il maschio dominante e occupandone il posto. Stavo scendendo un burrone ripido dove nelle stagioni piovose o dopo le nevicate, l’acqua scorrendo a valle creava questi corridoi dagli argini alti, perfetti per noi come sentieri, una volta secchi. Spinto dal desiderio, andavo a buon passo, sapevo che in fondo cera un lago, e pensavo che il branco sarebbe andato li a bere.

Nella fretta e con la foga che cercavo di contenere, non notai lo sgradevole odore di uomo, e non diedi nessun pensiero all abbaiare di un cane lontano, dopo poco tempo però mi fermai, istintivamente, una brusca scivolata nel terreno umida.

Rimassi totalmente immobile, annusando ed ascoltando, capii che il branco che seguivo, stava in sostanza sopra l’argine, e correva nella direzione apposta alla mia.

L’odore della paura del branco, la puzza dell’uomo e l’abbaiare dei cani, sempre più vicino, mi spinse a reagire, avvolto adesso anche io dal terrore, non so come, scavalcai l’argine quasi verticale, e intravedendo i primi cinghiali tra la boscaglia, corsi per unirmi a loro. In testa al branco cera un grosso maschio, affiancato da una femmina, poi due piccoli, seguiti dal resto del branco, qui m’inserii anche io.

Adesso capivo che cosa stava succedendo, era una cosa della quale avevo solo sentito raccontare, da qualche vecchio sopravvissuto. Era una caccia al cinghiale, organizzato dagli uomini; Loro individuavano un branco di cinghiali, e poi aizzavano dietro dei cani feroci. “Che tutto sommato” disse una delle vecchie, “presi uno ad uno, i nostri denti gli aprono la carne con la stessa facilità con cui si mastica un fungo, e le ossa non sono più dure delle amare ghiande autunnali, pero, t’impediscano di fuggire, e danno la possibilità all’uomo di raggiungerti con i loro bastoni fulminanti, perciò, meglio scappare.

Noi stavamo scappando come bagliori tra la boscaglia, nella confusione nessuno badava a me al fatto che ero un estraneo, mi ero immischiato nel branco, proprio in centro, guardando avanti vedevo la salita, ripida, il branco sembrava stanco, scorgevo tra la polvere e il bosco, un campo aperto, d’erba bassa, a quel punto saremo stati allo scoperto, e prima di questa distesa erboso cera un’ultima ripidissima salita, avrebbe rallentato notevolmente il branco nel momento in cui uscivamo allo scoperto.

Questi uomini avevano tratto una trappola astuta!

Il grosso maschio, con uno sforzo bestiale, superò la salita e si proiettò verso l’altra sponda del campo, dove poteva nascondersi di nuovo tra la boscaglia. La femmina gli era ancora vicino ma leggermente indietro.

Avevano percorsi una decina di lunghezze quando udimmo le esplosioni, prima una, poi diverse.

Il grosso capo branco, lanciato in avanti con tutta la sua potenza, ad un tratto sembrasse che inciampasse fece una capriola su se stesso. Cerco di rialzarsi con un ruggito di dolore; degno del cinghiale Calidonio. Lo spazio tra il branco e lui diminuiva rapidamente e vedevo il suo sangue scorrere dalle ferite, altre esplosioni, adesso da tutti i lati, eravamo in mezzo a questa distesa erbosa senza nascondigli, e l’unica speranza era correre, il capo era stato superato dal branco, nessuno rallentava e il pensiero collettivo era la fuga, raggiungere di nuovo il bosco, sentivo le esplosioni che sembravano senza sosta, l’aria puzzava di paura, sangue e piscia, di chi nello sforzo di scappare o per la paura non riusciva a trattenere i propri liquidi. Dopo quasi ogni esplosione l’aria già impregnata di rumori, era squarciata da ruggiti e strilli, compagni cadevano da tutti i lati, feriti e morenti. Il mio cuore impazzito, sembrava enorme nel petto e con ogni contrazione mi avvicinava all santuario bel riparo, la lucidità tornava ogni tanto, per scansare un compagno caduto o superarne uno più lento, poi tornavo ad essere un cuore battente.

D’un tratto il compagno al mio fianco fu abbattuto e spari dalla vista, un pensiero, come un bagliore, ero scoperto su quel lato.

BAM!

Tutto di un tratto mi senti stanco, qualcosa mi aveva colpito sotto la pancia, non caddi ma mentre correvo cercai di scorgere la ferita, sentivo l’odore del mio sangue e avevo paura, il mio passo però era rallentato e adesso mi trovavo dietro il branco, scalcia in avanti , e riuscii a raggiungerli di nuovo, perciò non ero ferito gravemente pensai.

Mancava ancora pochissimi ai boschi, alcuni cinghiale si erano già infilati e sparivano dalla vista.

BAM!

Uno strillo di dolore, la mia, strappato dalla gola.

Colpito sulla coscia, l’impatto mi scaraventò per terra, compiendo due o tre giri su me stesso, vidi il bosco poi il campo poi di nuovo il bosco, infine rimassi sdraiato, placcato al suolo dal dolore, affacciata verso il campo aperto.

Il dolore era immenso, ma alla vista degli uomini che si avvicinavano, la rabbia dentro mi spinse ad alzarmi, volevo caricarli, quelle bestie mi avevano ferito, spinto di nuovo dall’istinto però, lanciai un ruggito nella loro direzione e m’infilai nel bosco.

Zoppicante raggiunse gli altri sopravvissuti, erano radunati in una fitta roveto, guardando indietro si vedeva il campo dove le carcasse dei nostri compagni erano controllate dagli uomini, e due di loro scrutavano il luogo dove ero caduto, si limitarono solo a guardare, immaginai che avessero paura ad inseguire un cinghiale ferito nel bosco, tornarono verso gli altri uomini e capimmo che la caccia era terminata.

Dal nostro nascondiglio sicuro osservammo con orrore la mutilazione dei nostri compagni caduti, finirono squartati, e le loro interiora dati ai cani, mentre i maschi venivano castrati, fui colto da un improvviso tremore incontrollabile, mi avvicinai ad una femmina, era quella che aveva corso in testa al branco col capo branco; eravamo rimasti in pochi, un paio di maschi, quattro femmine e i piccoli. Anche l’altro maschio era ferito. La femmina inizio a leccarmi le ferite e il maschio non si oppose, cosi diventai capo branco, e con un ultimo sguardo verso il luogo dell’uccisione di nostri compagni, partii con gli altri a seguito.

Due lunghi stagioni rimasi con quel gruppo e vidi nascere diversi piccoli per merito mio, e sempre tenni il gruppo lontano dagli uomini.

Vecchio oramai, e solitario da una stagione, dovevo avvicinarmi alle abitazioni degli uomini, per fare i fanghi che tanto mi consolavano, ero pero sicuro della mia astuzia.

Iniziai a trotterellare verso la pozzanghera, sognante nei ricordi.

Raggiunto il bagno mi lasciai sprofondare senza ritegno.

Ah!!

Che delizia, fango, terra bagnata che mi accoglieva, madre natura stessa che mi teneva stretta al suo petto.

Questa era vita!

Il fulmine scoppiò nella notte. Mi colse di sorpresa, la notte era stellata, non poteva essere un temporale. Che cosa era questo bagliore? Il mio udito ronzava e un sapore strano invase la mia bocca. Cercai di alzarmi, ma il fango mi tratteneva. Sentivo l’aria calda nei polmoni uscire lentamente, mescolarsi al fango.

Per ultimo, vidi un uomo uscire dal buio, e madre terra mi portò via con se.