Il coraggio (Storia di un uomo)

Era per strada un uomo solo,

Un inetto, un disadattato,

Aveva le altrui persone in odio,

In disprezzo il mondo

E il mondo forse in disprezzo lui;

Lo vidi un giorno impietrito

Pianger ad occhi asciutti

Osservar scorrer la vita sua

Insieme al fiume sotto il ponte laggiù

Con la voglia forse di buttarsi dentro

E di farla finita per sempre,

Ma gli mancò il coraggio di tuffarsi.

Da quel giorno non lo vidi più.

Pensai spesso a quell’uomo

E al dolore che provava

E allo schifo che della vita

Nelle vene gli scorreva.

Poi, d’un tratto, lo rividi:

Il suo volto non era più solcato

Dalle rughe della tristezza

Né dalla voglia di morire

Né dalla grigia cupezza

Di chi vive morendo,

Ma nel suo volto si stagliava

Il sorriso più luminoso

 Che un uomo possa avere:

Il sorriso dell’amore.

Aveva infatti accanto

Una donna dolce,

Dall’aspetto radioso,

Occhi azzurri color del cielo,

Capelli rosso passione

Che lo teneva per mano

E che lo conduceva a scoprire

Le bellezze del mondo

Che egli aveva dimenticato.

Vista la scena, una dolce lacrima

Scese lesta sul mio viso

E mi riempì di gioia il cuore

E mi fece sentir felice

Per quell’uomo che aveva riscoperto

La gioia di vivere.

  1. S. Ah, non vi ho detto una cosa:

Quell’uomo sono io.


Il mestiere di pittore

 

Il vento forte e ghiacciato comincia ormai a sibilare con sempre maggior insistenza sulle mie membra logore e stanche. 

La vista non è più quella di un tempo e l’udito ha cominciato ad indurirsi sempre di più e non mi consente di percepire tutto ciò che mi viene detto; tuttavia, questi miei due difetti non mi impediscono ancora di svolgere la mia amata passione, colei che ha da sempre animato il mio cuore, fin da quando dentro di me bolliva l’ardore della gioventù. Certo, quest’ultimo sta ormai venendo meno, ma il resto è rimasto pressoché lo stesso, compresa la mia abilità che, a detta di qualcuno, pare sia anche cresciuta nel corso degli anni, salvo poi calare un po’ nell’ultimo decennio.

Ho superato da circa un triennio i settanta, da due anni circa se ne è andata anche la donna con cui ho condiviso quasi quarant’anni di sogni e speranze, di gioie e dolori, di amore e delusioni, la mia amata Clotilde. È stata lei a non farmi mai mollare anche quando i frutti del mio lavoro non venivano riconosciuti per quello che era ed è il loro reale valore, è stata lei molto spesso ad aggiungere la nota conclusiva ai miei lavori, senza mai volere che io mettessi anche la sua firma nelle mie opere, nemmeno una volta.

«L’opera è tua, no? E allora mettici la tua, di firma!» era solita rispondermi quando le proponevo di mettere la sua firma a completare una delle mie opere. 

Non ne ho mai capito il perché.

Ricordo soltanto che una volta, al termine della presentazione della mia opera Volteggi di nuvole, in cui su di uno splendido cielo terso si stagliano nuvole di ogni forma che sembrano proprio giocare e volteggiare libere e felici come uccelli, io ringraziai pubblicamente mia moglie seduta tra il pubblico per l’ultima mano data al mio quadro e lei di tutta risposta si imbarazzò a tal punto da diventare rossissima in volto e da infervorarsi con me una volta giunti a casa: «Non avevi nessun diritto di dire che ho finito io quel quadro! L’opera è tua e io ne voglio sapere!»

Non mi parlò per quasi una settimana.

Quella fu forse l’unica volta in cui lei mi tenne il muso, per il resto siamo stati una coppia normale e potrei forse dire felice, anche se non abbiamo mai avuto figli. Il motivo non lo saprei dire, so che li abbiamo cercati e voluti, ma non sono arrivati. Clotilde non pareva soffrirne molto la mancanza, ma ho sempre pensato che mal sopportasse il mio mestiere di pittore perché considero ogni mio quadro come un figlio e quando con qualcun altro dicevo che un dato quadro è come un figlio per me e lei era presente, abbassava lo sguardo in modo triste e non diceva una parola. Sul momento non gli davo peso, ma ora mi rendo conto che forse la parola “figlio” la faceva silenziosamente soffrire in modo terribile, proprio per il fatto che lei non abbia mai avuto un figlio suo.

Circa quattro anni fa le diagnosticarono un tumore all’esofago che nel corso di poco più di un anno e mezzo la portò alla morte. 

Inutile dire che ha lasciato un vuoto incolmabile dentro di me.

Mi reco ogni giorno sulla sua tomba ad offrirle un saluto e a dirle che qui io, sì, sto bene, ma che senza di lei sento un vuoto terribile dentro di me e che presto la raggiungerò, ovunque si trovi. 

Da quando è morta non ho più dipinto nulla, ho abbandonato la mia passione e mi sono lasciato molto andare. Ho pochissimi contatti con il mondo esterno, che si limitano a mia nipote Paola, la figlia di mio fratello, mancato da oltre una decina d’anni, che una volta alla settimana viene a farmi visita e alle mie lunghe passeggiate nel bosco dietro alla casa in cui mi sono trasferito poco dopo la morte di Clotilde.

Pensare che da giovani io e Clotilde, anche per merito del mio mestiere, siamo stati viaggiatori indefessi, abbiamo visitato quasi tutto il mondo: molto spesso infatti le mie opere sono state esposte, sia pur per periodi brevi, in alcuni fra i più importanti musei del mondo, specie negli Stati Uniti (New York, Washington, Los Angeles), in America del Sud (Rio De Janeiro, Brasilia) e in Asia (Taipei e Shanghai), oltre che a Londra e nella nostra amatissima Italia. Le esposizioni più belle? Sicuramente quelle, purtroppo brevissime, al MoMa di New York e agli Uffizi di Firenze, dove le mie opere sono state osservate, apprezzate e anche criticate (talvolta aspramente) dai tantissimi visitatori di questi splendidi musei d’arte.

Come dicevo però, sono ormai due anni che non dipingo più, salvo alcuni brevi ritocchi che ho fatto a vecchi dipinti che conservo ancora nella mia piccola abitazione e che forse verranno conosciuti dopo la mia morte. Da quando è morta Clotilde, non sento più quel fervente fervore di dipingere le bellezze di questo mondo e ho spesso pensato che fosse il caso di abbandonare definitivamente il mio amato mestiere di pittore.

Qualcuno mi ha anche proposto di insegnare a qualche giovane aspirante pittore qualche tecnica per realizzare opere meravigliose, ma ho sempre declinato l’offerta dicendo che se una persona ha del talento nella pittura o in qualunque altra forma d’arte umana non ha bisogno di un maestro che gli dica che cosa deve fare. 

L’arte è qualcosa che l’uomo ha dentro di sé e deve essere ognuno di noi a volerla tirar fuori.

Nella mia vita posso dire di aver avuto fortuna, di aver fatto ciò per cui sono nato (il mestiere di pittore), di aver amato e sposato una donna meravigliosa con cui ho passato quasi quarant’anni di vita insieme, ma ora come ora, raggiunta l’età in cui la neve non cade al suolo, ma si ferma sopra la testa, non posso dire di essere o quantomeno sentirmi davvero felice.

Quando ero più giovane pensavo che da vecchio mi sarei sentito felice, perché sapevo di aver fatto nella mia vita ciò che volevo; ma ora che ho raggiunto questo ignobile traguardo della vecchiaia, sento solo il vuoto dei miei giorni che scorrono via senza che io sia in grado di dar loro alcun senso. Forse è stata la perdita di mia moglie ad avermi cambiato, forse credevo e speravo di andarmene prima di lei e quindi non ho mai preso in considerazione la possibilità di restare vedovo.

A volte sono preda di questi momenti di scoramento e allora prendo e vado a fare una passeggiata nel bosco dietro casa mia. Oggi è una giornata splendida, il sole è alto nel cielo terso, la primavera comincia a scaldare le ali e i cuori degli uccellini che giocano e volteggiano nel cielo come le nuvole di quel mio vecchio e celebre quadro chiamandosi allegramente con i loro diversi cinguettii. Da bambino, quando mio nonno Anselmo mi portava nella sua casa di campagna, mi insegnava a riconoscere il diverso modo che avevano di chiamarsi questi straordinari animali capaci di volare ed io imparai presto a distinguere il verso di un uccello da quello di un altro: «Questo è un pettirosso…» mi diceva «questo un passerotto… quest’altro invece… ecco… lo senti? Si tratta di un picchio!» ed io così apprendevo quanti suoni meravigliosi sia in grado di donarci la natura che ci circonda.

Non so dire come nonno Anselmo avesse imparato a riconoscere subito i versi di ciascun uccello e a distinguere due versi anche molto simili; forse qualcuno glielo aveva insegnato a suo tempo, così come lui faceva con me, anche perché non aveva certamente fatto alcun tipo di studio al riguardo, ma era sempre vissuto in campagna con la nonna Giovanna e i figli.

Ormai però, a causa della sordità e dello spaventoso abbassamento della vista, non sono più in grado di cogliere di quali uccelli si tratti, ma pur non sapendolo mi godo il piacevolissimo rumore che fanno insieme a tutti gli altri elementi della natura.

In poco tempo e con una discreta agilità (le gambe, per fortuna, sono ancora abbastanza atletiche per la mia età) giungo sul punto più alto del bosco, da cui si può ammirare, oltre al volo degli uccelli, anche il paese che sta di fronte a quello in cui vivo. Esso si contraddistingue per un campanile che si staglia alto nel cielo oggi terso e par osservare dall’alto tutto il mondo circostante.

D’improvviso, sento un brivido. Per quattro lunghi anni sono venuto a passeggiare quasi quotidianamente in questo bosco ed infinite volte mi sono trovato dinnanzi questo spettacolo e non gli ho mai mostrato alcun tipo di interesse. 

Ma le cose ora sono diverse: il cuore comincia a battermi all’impazzata, in modo talmente vorticoso che non mi ricordo abbia mai battuto così violentemente in vita mia, tranne forse quando i miei occhi hanno incrociato per la prima volta quelli di Clotilde.

In men che non si dica, le mie gambe di vecchio iniziano a correre verso casa, senza sapere dove siano dirette: soltanto il cuore lo sa. Entrato in casa, mi reco nel mio studio, prendo il cavalletto e lo porto con me fin sul punto più alto del bosco, lo apro e dipingo en plein air quello straordinario spettacolo che mi si para davanti agli occhi.

Finisco la mia opera nel giro di due ore e decido di intitolarla Campanile in primavera

Penso che sia l’opera più bella che io abbia mai realizzato e, forse, l’ultima.

Soddisfatto, torno a casa e rimetto nello studio il cavalletto, lasciandoci sopra il dipinto da poco concluso con tanto di firma, per poi rimetterci mano una volta fatto un piccolo riposo che ho tutta l’intenzione di concedermi dopo aver realizzato una così bella ed improvvisa opera, anche se dentro di me c’è qualcosa che mi dice che potrei anche lasciarlo così, perché un capolavoro non si può ulteriormente abbellire, ma si può solo peggiorare.



P.S. Il vecchio pittore fu ritrovato privo di vita circa tre giorni dopo dalla nipote che era solita fargli visita una volta alla settimana. Egli si trovava disteso sul letto, era morto di infarto durante il sonno e non si era più risvegliato da quel suo piccolo riposo dopo aver terminato l’opera. Accanto ad essa ed al cavalletto la nipote Paola trovò un foglietto di carta con su scritto A te Clotilde.


Il professore

 

Non ho mai avuto le idee troppo chiare su di me. Sono una persona estremamente razionale, riflessiva, pensierosa, ogni cosa mi viene impossibile prenderla di petto e senza pensare alle conseguenze di una mia eventuale azione, sto sempre a valutare i pro e i contro di tutto.

Un comportamento ritenuto indispensabile per quanto mi riguarda, un comportamento ritenuto spesse volte limitante e poco coraggioso da parte di molte persone che mi stanno intorno e, molto probabilmente, il motivo principale che non mi ha permesso di esprimere al meglio tutte le mie potenzialità e le mie capacità. 

Ho studiato per diventare insegnante e dopo anni di sacrifici posso dire di avercela finalmente fatta. Dopo circa dieci anni di precariato nel mondo della scuola sono riuscito a diventare docente di ruolo in una scuola superiore della provincia milanese.

Per la precisione, un liceo classico. Insegno latino e greco agli studenti del triennio, coloro che poi alla fine di questo irto e complesso percorso arriveranno al conseguimento della tanto agognata maturità. 

Un lavoro molto impegnativo e altrettanto gratificante, fatto di sacrifici miei e dei miei studenti, ma anche di grandi soddisfazioni.

Eppure, da qualche mese a questa parte c’è qualcosa che non va.

Non si tratta tanto del rendimento delle tre classi a cui ho il piacere di insegnare, quanto piuttosto di un problema che riguarda il sottoscritto. 

Da un po’ di tempo a questa parte non provo più lo stesso piacere che provavo anni fa a svolgere il mio lavoro. 

Non ci metto più la stessa passione, lo stesso ardore, lo stesso impegno dei primi anni. Fare il professore sta diventando e forse è già diventata una routine che ha ucciso ogni forma di piacere nello svolgere questa bellissima attività.

Entro in classe, spiego, interrogo, torno a casa, correggo i compiti in classe, rivedo costantemente i voti che do ai miei amati allievi e tutto questo mi sembra totalmente privo di interesse.

Credo che la mia vita sia invasa da un grigiore senza precedenti.

Come sono solito fare, tento forse vanamente di tenermi dentro tutte le mie inquietudini e le mie angosce, cercando di non far trapelare a nessuno il mio profondo malessere; ma purtroppo, coloro che mi stanno intorno se ne sono accorti e di qualcosa mi sto accorgendo anche io: in primis, i miei studenti hanno avuto negli ultimi mesi un calo drastico delle loro valutazioni, soprattutto nelle versioni di greco che do loro da fare: precedentemente, la media dei voti che le mie classi prendevano nelle versioni di greco si attestava attorno al sette e mezzo, con anche alcune eccellenze che non di rado superavano il nove; negli ultimi mesi invece la media si è incredibilmente abbassata, scivolando terribilmente ad una valutazione di poco superiore al sei, con un numero di insufficienze che sembra aumentare ogni volta di più.

In secondo luogo, la mia fidanzata con cui convivo ormai da un lustro mi guarda sempre con un’aria piuttosto triste quando porto a casa i plichi di compiti da correggere e quando lei si offre di aiutarmi (è insegnante di matematica, ma ha studiato anche lei il greco al classico) le rispondo piuttosto sgarbatamente e le dico di occuparsi dei suoi compiti in classe su derivate ed integrali. 

Alle mie ineducate risposte, lei abbassa lo sguardo e se ne va dicendomi che quando avrò voglia di parlare con lei e comunicarle che cosa c’è che non va lei ci sarà, ma mi ammonisce con grande energia dicendomi che così facendo allontanerò da me le persone e resterò solo.

In terzo luogo, quando mia madre ogni due settimane viene a farci visita la domenica preferisce passare il tempo con sua nuora piuttosto che con me, suo figlio ed un giorno prima di rientrare a casa si è voltata verso di me dicendomi: «Non sei più quello che eri, devi rendertene conto e lasciarti aiutare».

Le sue parole mi diedero molto fastidio e io le chiusi la porta di casa in faccia. Ricordo pure che questo gesto fece incazzare tremendamente pure la mia compagna, la quale per tutta la sera non mi rivolse parola e ci volle tutta la notte per farle passare l’arrabbiatura.

Essendo che da diversi mesi non sento più mia questa esistenza, ho pensato di cercare me stesso altrove, al di fuori di questa scialba routine scolastica: circa due settimane fa lessi su un giornale di annunci di lavoro che cercavano un impiegato di banca che fosse laureato in materie umanistiche e/o economiche e che avesse una certa dimestichezza con i mezzi informatici.

Avendo da sempre una grande passione per l’informatica e avendo una laurea in discipline umanistiche, decisi di mandare il mio curriculum vitae, all’insaputa di tutti, compresa la mia fidanzata. 

Pochi giorni dopo ricevetti una telefonata da parte della banca per un colloquio ed il giorno successivo alla chiamata mi recai in banca. Il colloquio andò bene e il direttore di quella banca mi propose un contratto che dovrei firmare domani e che mi consentirebbe di iniziare a lavorare la prossima settimana.

Domani mattina farò la mia ultima lezione, comunicherò ai miei amati allievi la notizia, dopodiché mi recherò dai miei colleghi e dalla Preside della scuola per comunicar loro la decisione, prima di andare in banca nel pomeriggio a firmare il contratto.

Alla sera lo comunicherò anche alla mia compagna e questo sarà per me il compito più difficile.

Questa notte non riesco a chiudere occhio e penso sempre a ciò che dovrò dire l’indomani ai miei allievi e soprattutto alla sera alla donna che mi sta dormendo accanto e che è semplicemente bellissima.

La notte è lunga per chi non riesce a prendere sonno, ma è terribilmente breve per chi l’indomani deve affrontare una grande prova di coraggio per la propria vita.

Mi pare che la mattina sia arrivata in un lampo e con il magone mi avvio verso la scuola dove insegno. Stamattina ho lezione in tutte e tre le classi e quindi posso comunicare a tutti i miei studenti questa mia decisione. 

Mi avvio nella prima delle mie classi, una quarta. Sono ragazzi molto intelligenti e caparbi, anche se un po’ vivaci, sono certo che capiranno. Comunico la mia decisione e dai banchi si alza un nooo paragonabile a quelli che si sentono allo stadio quando un calciatore sbaglia un goal a porta vuota.

L’ora successiva ho la mia seconda classe, una terza. I componenti di questa classe sembrano usciti da un romanzo di stampo foscoliano, mi ricordano molto Le ultime lettere di Jacopo Ortis

Alla comunicazione della mia notizia, la sola frase che sento arrivare è: «La vita è ingiusta, è meglio non nascere nemmeno».

Ammetto che questa frase mi ha lasciato un po’ interdetto e non ho potuto fare a meno di toccarmi dove non batte il sole; in fondo sto male, ma non ancora a questi livelli!

Le ultime due ore sono con la mia unica classe quinta, forse la classe più studiosa delle tre e in cui c’è un’ansia pazzesca per il fatidico esame di maturità. Alla fine della lezione, comunico la notizia e si scatenano pianti e lacrime senza sosta e frasi del tipo: «E adesso come facciamo? Abbiamo la maturità quest’anno! E adesso chi ci insegna greco? Ce lo avremo pure in seconda prova, cazzo!»

Uscito dall’aula, mi reco in sala insegnanti per dire ai miei colleghi che ho preso la decisione di lasciare l’insegnamento, ma prima vado in bagno perché tutta questa tensione ha avuto qualche piccola conseguenza anche su di me. 

Mentre sono in bagno, sento un vociare vorticoso di allievi, ma non me ne preoccupo, perché sta per suonare la campanella che pone fine alle lezioni di oggi. 

Esco dal bagno e per i corridoi non vedo nessuno. C’è un silenzio misterioso. Trovo strano che tutti gli studenti siano già usciti dalla scuola, ma non ci faccio caso e mi avvio un po’ mestamente verso l’aula insegnanti.

Mentre cammino incontro il professore di filosofia che mi dice di seguirlo in aula magna. Non ne capisco la ragione, ma accetto e lo seguo.

Lui mi precede, entra nell’aula e prima che io possa anche solo fare un passo per entrarvi, mi sbatte la porta in faccia e la chiude a chiave. Tento allora vanamente di aprirla, ma è tutto inutile. Busso con forza e chiedo spiegazioni. Per un periodo che a me è parso un secolo c’è solo silenzio, poi sento una voce femminile che mi sembra di conoscere bene che dice: «Entrerai quando sarà il momento».

Aspetto dieci minuti fuori dalla porta dell’aula magna, poi sento la chiave girare, mi volto verso la porta tutto speranzoso e scorgo il professore di filosofia che mi guarda serio e mi dice in tono severo: «Entra!»

Non potendo fare altro ed essendo anche molto curioso, varco la soglia della porta e mi trovo dinnanzi una scena a cui non avrei mai pensato di assistere: tutta la scuola riunita in aula magna con un cartellone gigantesco che reca scritto a caratteri cubitali Professore, non te ne andare!!! 

Un grande applauso accompagna la mia entrata in scena, poi una delle allieve della classe quinta prende la parola e tramite un microfono mi dice: «Professore, lei non se ne può andare! Lei ci ha insegnato greco per tutti questi anni, solo con lei possiamo arrivare al meglio alla maturità! Rimanga con Noi!»

Dall’aula si alzano cori che inneggiano il mio nome, prima che un altro allievo, stavolta di terza, prenda la parola: «Non siamo solo noi a chiederglielo, ma anche gli altri professori, la Preside e soprattutto una persona a lei molto cara».

Prima di avere il tempo di domandarmi chi sia questa persona a me tanto cara, vedo spuntare vicino a quel mio studente di terza una figura femminile, la stessa che aveva detto poco prima che sarei entrato al momento opportuno. Quella donna mi dice che non ha senso abbandonare la mia vita a scuola, che le difficoltà si affrontano di petto, con coraggio e determinazione, che non si scappa dinnanzi alle proprie paure e quell’evento improvvisato in aula magna deve proprio farmi capire questo. 

Quella donna è la mia donna, è colei che amo e che mi ama. 

Le lacrime giungono presto agli occhi e vengo invaso da un’onda di abbracci di allievi e colleghi che non avrei mai pensato di ricevere in tutta la mia vita.

Giorni dopo scopro che i miei allievi di quarta, dopo aver ricevuto la notizia, hanno informato tutti gli altri allievi della scuola, anche studenti non miei e soprattutto la mia compagna che quella mattina non aveva lezione e che si è subito precipitata nella mia scuola.

Alla banca ho fatto poi sapere di non essere interessato e che la mia vita è a scuola.

Questo pomeriggio sono tornato a casa con un plico di versioni da correggere, corrette in meno di tre ore e con voti che non sono stati inferiori al sei e mezzo, oltre ad un paio di dieci meritatissimi.

Tutto è tornato come prima, ma manca ancora qualcosa, manca il coronamento di tutto.

Alla fine della scuola, non sono rientrato subito a casa, ma mi sono fermato a prendere una cosa molto importante.

Ora che è sera porto la mia compagna in camera da letto, mi inginocchio dinnanzi a lei, apro la scatolina contenente un preziosissimo e luminosissimo diamante e le dico: «Mi vuoi sposare?»

Lei scoppia in lacrime dalla gioia e mi dice di sì, dopodiché mi salta al collo e facciamo l’amore.

Il ventisette del prossimo mese ci sposeremo. 


Il colibrì

Tu sei come il colibrì
Un attimo prima sei qui
E un attimo dopo sei lì;
Fugge il tuo sguardo veloce
Vola la tua ala feroce
Mai ti fermi, mai ti stanchi
Non sei mai doma tra i banchi
Di nebbia eterni
Nemici o fraterni
Che ti si parano davanti
Come i miei occhi festanti
Quando incrociano il blu
Del mare tuo che sale su
Dalle ridenti tue ciglia
Dove talvolta si impiglia
Una lacrima di gioia tenera
Quando l’occhio non venera
Colui di cui è innamorato
E che un dì ha conquistato.
Questa dolce cantilena
Che par quasi un’altalena
Serve solo a ricordarti
Che c’è un posto dove ripararti
E dove puoi amarti
E questo ameno luogo
Dove è spento ogni rogo
È il mio cuore.


 

La malattia che fa dimenticare

Un brutto male un giorno mi colpì,
Ma non so dire quando,
Non lo riesco a ricordare.
Esso infatti cancella dalla mia mente
Ogni più dolce ricordo recente
E nulla mi rimane ormai
Del mio tempo presente;
Rimangono solo nitidi i ricordi
Dei miei tempi antichi,
Di giovinezza e fanciullezza
E della guerra che combattei
Sul gelido fronte russo,
Dove la fame e la povertà
La facevano da padrone;
Di essi tutto rammento,
Del presente nulla rimembro,
Ma una notizia mi consola:
Il saper che i discendenti mi ricorderanno
Anche quando questo brutto male
Avrà la meglio sul mio corpo,
Perché l’Alzheimer impedisce i ricordi,
Ma di una persona non ferma il ricordo.


La tua causa (Poesia per te)

Mi sono sempre chiesto
Che cosa fosse la felicità
Non l’ho mai capito nella realtà;
Mi sono sempre domandato
Se la causa di qualcosa di lieto
Io sarei mai stato;
Vie buie ho attraversato,
Luci del male ho incontrato,
Tra dolori, noie, sofferenze
Io spesso ho navigato;
Ma, ad un tratto, tutto è cambiato:
Lì, su quell’altopiano sdraiato,
Mi sono accorto che qualcosa
Improvvisamente è mutato:
Accanto a te, le mie mani
Il tuo dolce ventre a cingere,
Sono stato finalmente la causa
Dei tuoi sorrisi, delle gioie tue,
Dei tuoi occhi luminosi e vivi,
Tra l’infinità di baci e carezze
Che per ore e ore ci siamo scambiati;
in quel momento ho capito
di essere la tua causa…
… di felicità.


Gesti di gentilezza

Tanti sono i gesti di gentilezza
piccoli e grandi, palesi e nascosti,
Che ci sono nel nostro caro mondo:
Una porta che ci viene aperta,
Sul nostro volto una carezza,
Un abbraccio, un bacio, uno sguardo
Tra due persone, di complicità;
Il sentirsi dir sempre la verità
Anche quand’essa fa male
E dentro ci tormenta e ci addolora
Come un trattore che ci passa sopra
E ci fa credere ormai inevitabile
Che sia giunta ormai la nostra ora;
Ma tutti questi gesti di gentilezza
Che adornano il nostro caro mondo
Lo rendono ogni dì più amabile
E rendono sempre più insaziabile
Il nostro bisogno di tenerezza:
Perché essa, insieme con la gentilezza,
Ci fa viver più lieti e sereni
E più veri e più pieni

Come quando siamo travolti dall’onda d’urto
Forte e indistruttibile del divino Amor.


 

Sguardo di Luce (in memoria di Debora Rizzato)

Visito quei luoghi solitari
Ove trovasti infelice la morte
O ,forse, una nuova vita
Lontana dai malanni del mondo;
all’esterno della fabbrica viva
ove lavora moltissima gioventù
di te non rimane traccia, né ricordo;
nulla che rimembri quell’immane tragedia.
Chissà se invece dentro quelle buie mura
C’è chi ancora ti rammenta
c’è chi ti pensa
c’è chi ti ha amata e chi ti ama
per l’ amore e la dolcezza
che emanano i tuoi occhi lucenti
per l’ardor e l’ accuratezza
che di certo mettevi nel lavorar;
chissà se qualcuno di te
si ricorda ancora nella tua città
a distanza di oltre diec’anni
a parte la tua famiglia e me ;
chissà se qualcuno ti dedica mai
opere o pensieri
e se nei suoi sentieri
incontra persone uguali a te ;
questa mia umile poesia
non ti riporterà di certo in vita
ma ricorderà la tua dolce fatica
che mettevi nel vivere e nell’amare;
morivi quando compievi la mia età
e si spegneva in te ogni vitalità
e io, giovane e sconosciuto poeta,
vorrei ora parlarti e chiederti scusa
perché ,come tanti altri,
nulla ho fatto davvero per amarti;
e ti direi : “Scusa,scusami davvero
per la mia insensibilità,
per il mio distacco,
per la mia indifferenza
dimostrata in quegl’anniˮ
e vorrei tu mi dicessi: “Perdono,
ti perdono e così perdonai
colui che fu il mio aguzzino;
egli m’uccise; ma non uccise mai
la luce che emanano i miei occhi,
la luce della vita e dell’amore,
che ancor risplende, forte e lucente
nel cuore mio e tra la gente”.