Sono tornate le lucciole

Tratto dal libro “La casa rosa” Capponi Editore di Pulsoni Diana

Dall’intreccio dei ricordi di Felicita è emersa la figura della nonna, una donna coraggiosa che ha saputo vivere la vita da protagonista

Sei con me nel tumulto delle giornate
troppe piene di luci e di rumori,
quando riempio gli armadi
carichi di superfluo.

Come facevi, mi domando, a vivere con poco,
senza la disperazione del domani, lieta
al mattino all’alba, e serena la sera?

Sei con me nelle giornate di festa
nel volto dei miei figli,
nei ricordi che si accendono
fra i rituali della cena.

Come facevi , senza aver letto Marx,
a conoscere i diritti dei mezzadri,
a farli valere , senza esitazione alcuna?

E’ questa lucciola solitaria,
stasera ritrovata
ai piedi del mio tiglio,
che mi illumina, a sprazzi, l’essenziale.

E allora, come una nave in mare,
scelgo porti ed equipaggio,
usando la tua rotta.

In questa serata calda di fine Giugno, per trovare refrigerio, mi siedo ai piedi del grande tiglio.
E’ da pochi giorni in fiore e l’aria è intrisa già del suo profumo.
I pensieri della giornata, concitati e confusi, ora tornano a fluire limpidi, come le immagini in un fotogramma, e uno strano benessere mi possiede.
Ad un tratto, fra le fronde della siepe d’alloro, vedo una lucciola, erano anni che non ne scorgevo una.
Quando vedo le lucciole, io penso sempre a mia nonna.
Erano tante nelle calde serate estive di quando ero bambina, in una vallata quasi buia e silenziosa.
Lei viveva, con la mia famiglia, in via Cantalamessa, una strada affiancata, da entrambi i lati, da minute case, per lunghi tratti le une attaccate alle altre.
Sul lato della via, verso valle, a tratti, si aprivano d’improvviso degli spazi, colorati come un quadro nife.
Per me e mia sorella quella strada rappresentava il mondo; potevamo rimanere fuori tutto il giorno, correre a perdifiato per la sua lunghezza e nascondersi nelle viuzze strette , giocare a campana , a corda, a nascondino con gli altri bambini fino a sera.
Non eravamo mai sole: la via era un luogo popolato, durante il giorno, da una folla ridente e calorosa: chi cantava lavorando al tombolo, qualcuno raccontava le sue peripezie intrecciando vimini, c’era sempre Luigia, seduta su un banchetto all’ombra dell’uscio socchiuso, a ricamare con perizia i lenzuoli da sposa delle giovani del luogo.
I nostri genitori lavoravano tutto il giorno, possedevano un bar al centro del paese di Colli ed era mia nonna che si occupava di noi, in loro assenza .
Era una donna intelligente e d’azione che mostrava in ogni comportamento la forza vitale dei suoi pensieri che la rendevano esplosiva, come un torrente in piena.
Era una “compagna”, di quelle prime donne che credevano fortemente nella riscossa della povera gente e nella lotta per ottenere il diritto a condizioni di lavoro migliori, in particolare dei contadini, che rappresentavano una larga parte della popolazione di Colli di allora.
Non aveva avuto una vita facile: le era morto il marito partito per la guerra e l’aveva lasciata sola, senza soldi, con tre figli.
Ecco un’altra lucciola.
Erano le lucciole che rischiaravano il cammino di nonna Peppina quando, con il carro, lasciatole dal marito, partiva da Colli al mattino presto per raggiungere i parenti in montagna; lì barattava le verdure fresche del suo orto con un po’ di legna e di carbone.
La giornata del primo Maggio la viveva in trepidazione ogni anno: gli uomini del paese avevano già piantato il tronco di pioppo accanto alla chiesa di santa Cristina e la bandiera rossa si vedeva sventolare da lontano.
Mia nonna raggiungeva i “compagni “ della marina, partendo da Colli il mattino presto e con le bandiere rosse in mano, sfilava in corteo lungo viale De Gasperi.
Erano inutili le rimostranze della sorella che viveva a San Benedetto, come governante, presso una famiglia benestante del posto.
Le aveva strappato, timorosa della reazioni dei signori della casa, il fazzoletto rosso dal collo, ma nonna, con un gesto rabbioso, se l’era rimesso al suo posto e orgogliosa l’aveva salutata.
Ricordo poi le giornate al mare: arrivavamo a Porto d’Ascoli con la littorina e percorrendo a piedi la strada che portava alla spiaggia, facevo a gara con mia sorella a scorgere per prima il mare che mi appariva, all’improvviso, luccicante, come pieno di lustrini.
Mia nonna aveva con sé l’ombrellone e una borsa a righe verdi dove riponeva con cura il necessario per la giornata .
Ma era l’ora di pranzo che aspettavamo con ansia: mia nonna ci conduceva in un albergo dove lavorava come cuoca comare Menica : la donna ci apparecchiava in cucina e fra i fornelli fumanti e il rumore dei piatti sciacquati in un grande lavandino grigio, gustavamo degli spaghetti con il pesce, profumatissimi.
Sono passati molti anni, ora sono una donna adulta immersa in giorni pieni e concitati.
Oh nonna, se tornassi ora , riusciresti a capire e dare significato a quello che faccio?
Sicuramente mi prenderesti per un braccio, come facevi quando volevi farti ascoltare, poi mi guarderesti con il tuo sorriso amorevole per leggere i miei pensieri.
Sai, nonna, troveresti la forza dei tuoi, sono rimasti gli stessi.
Sono le armi che mi danno la forza di combattere ogni giorno le tue stesse battaglie, perché, vedi, quelli per cui tu lottavi, ora non li riconosceresti più: vestono abiti uguali agli altri, si parlano solo con strani apparecchi o senza conoscersi di persona, ma come allora, spesso non contano.
Lo so, lo so ….devo continuare a combattere.


Articolo pubblicato sul giornale locale “Liofante” di Diana Pulsoni

Violenza sulle donne

analisi di un fenomeno in crescita

Una ricerca dell’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali, presentata il 5 marzo 2014 al Parlamento di Bruxelles, evidenzia un dato allarmante: nel nostro continente una donna su tre, durante la propria esistenza, ha subito abusi di varia natura: fisici, sessuali e psicologici.
Si tratta di un’indagine durata tre anni : 42mila intervistate tra i 18 e i 74 anni, 1.500 per Paese, scelte su base volontaria e sottoposte a colloqui privati faccia a faccia.
E, a sorpresa, il record degli abusi va ai paesi dove i tassi di occupazione femminile risultano più elevati: Danimarca, Svezia, Norvegia.
Il dato fa riflettere: siamo indotti a pensare che la maggiore consapevolezza dei propri diritti porti la donna dei paesi del Nord Europa, notoriamente più emancipata, a denunciare gli abusi subiti, ma la percentuale
molto alta (circa 50%) riscontrata in questi paesi, fa concludere che molta strada è stata percorsa, ma tanta altra è da fare nel campo dei diritti delle donne.
La scrittrice Dacia Maraini, attenta analista del fenomeno della violenza al femminile, pensa che “essa abbia una matrice culturale con radici profondissime: l’identificazione dell’amore con la proprietà, il pensare io ti amo, quindi ti posseggo”.
“Non a caso, continua, “un uomo che dice di amare una donna, intendendo così di possederla, non tollera se lei rivela una volontà di autonomia; va in crisi non solo il suo sentimento, ma anche la sua identità di maschio. Tanto è vero che molti uomini, dopo il delitto, si suicidano”.
Eppure negli ultimi quarant’anni è cresciuto il livello d’istruzione delle donne con un conseguente inserimento nel tessuto produttivo del paese, inoltre risulta più facilitato l’ accesso a strutture sanitarie e sociali di supporto ai loro problemi.
E allora? Perché il fenomeno non è scomparso, anzi è in crescita?
Io penso che nonostante tutto, la donna oggi sia sempre più sola e vulnerabile davanti alle scelte di vita che deve affrontare nel suo percorso esistenziale; terminati i flussi delle ideologie femministe degli anni settanta, che pur con dei limiti, sono state a fianco delle donne e hanno portato a conquiste nel campo dei diritti ( diritto di famiglia, divorzio…), la donna si trova a vivere in una società frammentata , con scarsa coesione sociale e un sentimento affievolito di rivolta e indignazione.
E allora che fare?
In primo luogo io penso sia necessario ricostruire le persone, donne o uomini che siano, perché in una relazione si è in due a prendere decisioni e produrre un progetto di vita.
La donna deve avere, in questo processo, pari accesso alla prima grande opportunità di crescita quale l’istruzione scolastica e garantita la possibilità di erudirsi nel corso della vita;
la famiglia ha il compito di sostenere il suo sviluppo culturale con una educazione che miri al consolidamento di valori quali la tolleranza, l’onestà, la capacità di vivere insieme, il rispetto delle idee altrui e il vivere con sobrietà.
La politica deve operare scelte di sostegno alla famiglia con leggi che tutelino la salute fisica e psicologica dei suoi componenti.
Tutte le altre agenzie culturali, giornali , televisione inclusi, devono responsabilmente smettere di presentare uno stereotipo di donna bella e disponibile che, pur di arrivare al successo e relativo benessere economico, è disposta a calpestare la propria dignità di persona e una figura del maschio visto come animale predatore alla continua ricerca di soddisfare il proprio egocentrismo ancestrale.
Il problema sicuramente non è di semplice e breve soluzione, ma resta comunque in me la soddisfazione di condividere le giornate con una moltitudine di donne meravigliose, capaci di coniugare brillantemente responsabilità familiari e lavorative, in rapporti sani e soddisfacenti.


Il telaio di nonna Clementina

Quando, di tanto in tanto, mi sovviene la melanconia,
io penso a nonna Clementina e al suo telaio
e il mio cuore torna sereno.
Viveva con la mia famiglia nel paese di Spinetoli, in una di quelle case con le finestre strette, dirette a guardare il mare.
Se chiudo gli occhi, ecco ritornare le immagini che riemergono nitide dai miei ricordi.
Era già primavera e nella piazzetta del paese, durante il giorno, scorrevano lentamente le vite di tanti uomini e donne.
Mi vedo bambina, forte ed energica, giocare tutto il pomeriggio, insieme ad un nugolo di amici, alla campana, a nascondino, a corda, fino a quando non sentivo il richiamo di mia madre per la cena, vedo una donna intenta a lavorare il tombolo e le sue mani veloci intrecciare i fili, mentre discorreva con la vicina.
C’era sempre una vecchietta, affacciata alla finestra, a cercare con lo sguardo, l’andirivieni di gente in piazza, mentre il calore del sole le scaldava la crocchia dei capelli e il fattore, che appariva di colpo, come per magia, su una moto rombante, con abiti scuri, severo in viso, mentre il contadino, tornato dai campi sudato e affaticato, lo salutava con riverenza, togliendosi il cappello.
Ecco una giovane donna, dalla corporatura esile, con passi decisi, avviarsi, per attingere l’acqua, alla fonte, con la conca di rame fissata sul capo e il ciabattino, seduto al suo desco, riparare con solerzia, con in bocca le semenze, scarpe robuste da lavoro.
Risuonava, per la stretta via, il suono della cassa battente del telaio di nonna Clementina e della navetta che abilmente lasciava passare fra i fili dell’ordito: nei momenti di pausa fra i lavori domestici e quelli nei campi, tesseva lunghe strisce di tessuto grezzo e quel suono familiare che mi accompagnava nei pomeriggi di giochi, mi dava conforto e sicurezza.
Il panno, così tessuto, doveva essere poi sbiancato.
Era, questa operazione, eseguita dalle donne nelle acque limpide del fiume Tronto. Ricordo che le seguivo mentre trasportavano grandi ceste colme di panni da lavare, appoggiate sulle loro teste e come, con grande maestria, le mantenevano in equilibrio, nonostante i ciottoli incontrati nel percorso. Giungevano al fiume passando attraverso i campi coltivati, utilizzando scorciatoie che rendevano breve il tragitto; poi, dopo aver percorso la piana, chine sull’acqua,lavavano i panni con le gonne arrotolate sulle gambe. Il rumore dell’acqua era un tutt’uno con le voci di noi bambini e un canto appena accennato della donna più anziana.
D’intorno la vegetazione presentava il massimo rigoglio: le numerose piante di pioppo esponevano le foglie argentee al vento mattutino che le facevano vibrare di un fremito continuo; mentre i vimini flettevano i rami alle folate d’aria più energiche, le canne, alte e vigorose, ammassate nelle zone più umide, si curvavano, come formate da una unica pianta.
Avevo convinto mia nonna, la sera prima, affinchè mi portasse con sé al fiume ed ora le sedevo accanto mentre era intenta a bagnare il panno di tela nell’acqua cristallina.
Era questa la prima operazione necessaria per sbiancare la stoffa , poi il panno veniva steso al sole ad asciugare, lavoro eseguito più volte fino a che non diventasse candido.
Mia sorella aveva il compito di tendere le braccia in avanti con le palme rivolte in alto: su di esse nonna Clementina deponeva l’intero telo, piegandolo a fisarmonica.
Solo dopo aver completato l’opera, muovendosi a ritroso, lo spiegava e lo deponeva, ben disteso, ad asciugare.
Una volta sbiancata la stoffa, seguiva il momento della cucitura a mano dei teli per confezionare, per tempo, il corredo della sposa: asciugamani e tovaglie,coperte rifinite con bordi all’uncinetto, lenzuola ricamate.
Ricordo che quando il grano diventava dorato e le spighe gonfie di semi, mia nonna partiva da casa all’alba, con la falce sotto il braccio, fiera e carica di speranza: dal raccolto dipendeva la quantità di farina per tutto l’anno della sua famiglia.
Erano arrivati, per aiutarla, i contadini che avevano il podere accanto al suo ed ora, procedendo in fila, con le schiene ricurve, mietevano il grano che andava via via raccolto nei covoni.
Fra canti e risate, sotto un sole cocente, la giornata trascorreva serena. Ecco arrivare, a mezzodì, mia madre, con in capo il canestro del pranzo; giunta sotto il grande fico, deponeva il desinare sopra una tovaglia quadrettata e richiamava tutti a gran voce.
L’ultima operazione, terminata la giornata, era quella di disporre i covoni, lasciati sparsi sulle stoppie, in costruzioni a forma di stella; in tal modo la disposizione delle spighe verso l’esterno, permetteva una veloce essicazione della granella.
Avevamo nella stalla un piccolo allevamento di bachi da seta, ricordo nonna Clementina quando mi trascinava con sé, per raccogliere i rami di gelso: i bruchi erano diventati voraci e bisognava avere una buona scorta di foglie che accantonavamo, in grandi mucchi,nella stalla.
Ricordo mio nonno che teneva a mollo in una vasca piena d’acqua le piante di canapa per farle macerare; occorreva poi essiccarle,batterle e maciullarle per separare le parti legnose dalla fibra dalla quale si ricavava il filo da tessere.
Per ultimo, con una tavoletta di legno con aculei, il cardo, ripuliva le fibre che erano pronte per essere filate.
L’ultima volta che sono tornato nella mia vecchia casa di Spinetoli, ho rivisto il telaio di nonna Clementina: era accantonato in soffitta, fra un vecchio armadio e una cassapanca, muto, sghembo, disadorno, come una donna senza più amore.
Sono giunti poi degli uomini che con mani sapienti hanno ridato la vita al telaio: ora ha ripreso vita, allineato nelle sue parti, con i fili tesi e la navetta che scorre veloce.
Quella bambina è diventata una donna e sento di appartenere a quel telaio: di colpo le mie mani diventano abili, i piedi si muovono ritmicamente sui pedali, mi viene spontaneo battere il pettine, la tela cresce come per incanto.
Nonna Clementina, con il telaio, mi ha lasciato una speranza: quella di tessere con armonia e amore la mia vita.