L’uomo al bancone

La pioggia cade fitta, la vedi dai lampioni,
all’angolo della via una lite tra barboni,
c’è un uomo solitario che entra tranquillo,
si siede in silenzio al bancone del pub.
Odore forte di tabacco, non ha nessun ombrello,
sullo sgabello vuoto gocciolanti, il suo soprabito e il cappello,
la gente ai tavolini ha la faccia incuriosita,
lo scruta, lo studia, si domanda chi sia.
Si è appena accomodato e non ha voglia di indugiare,
“scusi barman” e inizia subito a ordinare,
controlla compulsivo tra le mani il suo bicchiere,
pronto a riempirlo ancora quando finirà.
Soddisfatto guarda dentro, ce n’è ancora da bere,
prepara la sua pipa, esce fuori per fumare,
la gola ormai secca, aumenta la sete,
un sorso dopo l’altro il suo pensiero va.
Il suo sguardo si perde tra scaffali di liquori,
grandi spalle raccontano degli amori e dei suoi errori,
lui non parla con nessuno di una vita alla deriva,
è una storia come tante che nessuno ascolterà.
Viso scavato, preoccupazioni, mani rovinate da mille fatiche,
gli occhi sono lucidi, quanti sogni infranti,

rughe profonde sono come ferite,
poi all’improvviso sul volto un sorriso, labbra socchiuse a metà.
Alza la testa, si guarda attorno, impassibile, con fare schivo,
sembra sia compiaciuto del mistero in cui è avvolto,
aspetta soltanto che si faccia giorno,

bocca impastata, luci dell’alba, tornerà a casa, si addormenterà.


Quando il talento dà le spalle al successo

(per Sixto Rodriguez)

Ho visto un uomo camminare nella neve,
il sottofondo del porto, la sirena di una nave,
nel bar fumoso una chitarra e un’armoniosa melodia,
un cantante sconosciuto, la mia curiosità, la fantasia.

Ho scoperto questa storia strabiliante,
quella di un vecchio artista che provò a fare il cantante,
l’ho scoperta in un’afosa serata estiva,
le strade semideserte, la gente che partiva.

Stavo lì seduto a guardare un film sulla sua vita,
gli occhi incollati allo schermo, nemmeno fosse una calamita,
osservando i sottotitoli ascoltavo ogni suo brano,
ho capito che quella sera non ero uscito invano.

Quell’uomo senza un dito era un muratore,
non si sapeva chi fosse, chi diceva “è un senzatetto”,
i tetti lui li riparava, come hobby il cantautore,
aveva del talento ed era un dato di fatto.

Nessuno lo conosceva, incredibile non trovate?
Le sue poesie in musica rischiavano d’essere dimenticate,
in un paese lontano non lo sapeva ma era un mito,
le sue parole, scintille di ribellione per un popolo tradito.

Non c’è profeta in patria recitava un vecchio detto,
non era prevista gloria per lui nel suo paese,
la sua arte non vendeva e decise “adesso smetto”
ma grazie a lui tanta gente non si arrese.

Si pensava fosse morto, diventò quasi una leggenda,
la sua figura avvolta da un’aura di mistero,
si pensava ad un suicidio, ad una morte orrenda,
fu grosso lo stupore nello scoprire che era vivo.

Riuscì a riconquistarsi la meritata fama,
cantò per quella gente a cui donò coraggio,
non cambiò mai il suo modo di stare a questo mondo,
una persona semplice che tornò nel bassofondo.

I suoi testi sono frecce di malinconia e tristezza,
nei suoi versi la realtà, nulla che sia immaginario,
vive ancora giù in città, stessa casa di una volta,
nel quartiere, ben vestito, gira a piedi solitario.

Il suono dei più deboli, il suono per gli oppressi,
di uomo, di un cantante, lontano dagli eccessi,
amore per la musica e per un mondo giusto,
artista mai banale, lontano dai cliché.


 

La vita dietro la grata

Sbarre, sole a scacchi e porte chiuse, i tuoi anni vissuti così,
stanze piccole e affollate, letti a castello e persone stipate,
tutti obbligati a restare qui.
Quando hai iniziato non ci pensavi, non calcolavi le conseguenze,
processo e condanna, non ci credevi,

né immaginavi queste esperienze.
Vita scandita dentro la gabbia, un’ora nel vento, cova la rabbia,
scintilla che incendia anima e corpo,
arde la voglia di fuggire via.
La fila al mattino per la doccia e la barba,
i minuti preziosi passati all’aperto,
ora di pranzo, c’è chi cucina, tra un lavandino ed una turca.
Scrivi due righe, passi il tempo, su quel foglio tutto te stesso,
un grido, un messaggio che lanci all’esterno,
una parte di te che evade da qua.
Ecco la conta, tutti rinchiusi, perquisizioni, controlli e abusi,
poi un mazzo di carte per provare a svagarsi,
arriva l’ora della socialità.
Ecco un tramonto che non vedrai, ora ti guardano dallo spioncino,
chiavi che chiudono cancelli di ferro,
un passo lento nel corridoio, ecco il controllo del secondino.
Cala la notte, sistemi il cuscino, rimani solo coi tuo pensieri,
domani a colloquio il tuo bambino,

combatti i tuoi demoni e i sensi di colpa.
La cella buia in cui sei rinchiuso, risse, amicizie, solidarietà,

“non compleanni” e inviti a pranzo, gesti normali, comunità,

ora un gabbiano vola nel cielo, versi due lacrime per la libertà!