“Riconoscersi dentro un Caffè”

Alis era in viaggio con suo padre verso una piccola cittadina del Nord Italia: l’accompagnava a un
corso di aggiornamento per il lavoro.
La destinazione era Schio, il loro soggiorno sarebbe durato il tempo di una colazione e di un dopo
pranzo.
Alis verso le 7 del mattino scese a fare colazione con il padre: una spremuta, una crostatina e già si
erano salutati. Lui avrebbe passato tutta la mattinata al corso, lei in giro alla scoperta di un piccolo
angolo della sua Italia che ancora doveva conoscere e imparare a comprendere.
Scese dalla camera d’albergo e iniziò la sua avventura, ignara che la scoperta più interessante
l’avrebbe fatta bevendo il suo primo caffè in compagnia dei suoi pensieri.
Passata la mattinata tra vetrine di negozi e panchine dei parchi Alis, dopo un panino mangiato di
corsa nelle vie-labirinto di Schio, decise di riposarsi un po’ e di assaggiare per la prima volta il
caffè. È strano come un avvenimento così banale per Alis potesse sembrare un traguardo raggiunto,
una trasgressione della routine; un semplice caffè di una semplice vita…
Entrò in un bar verso le tre del pomeriggio: “ Un caffè grazie” e si sedette.
Sul tavolino il suo libro, ma soprattutto il suo taccuino dei pensieri inafferrabili; scrivere per lei era
imprimere per sempre il ricordo di un pensiero ma non il pensiero stesso, era raccontarsi una
sensazione ma non descriverla, scrivere era vivere un’altra vita lontana dalla spazio-temporalità
imposta dal mondo per convenzione.
Mentre i pensieri si rincorrevano senza mai raggiungersi il ´caffè` arrivò sul tavolino.
Alis non si perse un attimo: la colpì quell’odore deciso ma elegante, amaro ma intenso; il primo
sorso, quell’attimo di sussulto per la sensazione di un sapore mai raggiunto.
Poi Alis si perse…
« Sola in compagnia di me stessa ritrovo la pace, sento e riporto ogni piccolo dettaglio che mi
sorprende, sola senza te, senza loro, senza me quando sono con voi, semplicemente io, timida
spaventata, insicura ma felice di essere così. Non ho voglia adesso, oggi di sembrare la ragazza
spensierata e sorridente, non sono così, amo perdermi nei miei pensieri, nelle stradine di
sconosciute città. Amo quell’insicurezza che si coglie nei miei fuggenti occhi. Amo stare sola in
compagnia di sguardi sconosciuti che non mi guardano, che si soffermano su di me anche solo per
un secondo o che invece rimangono stupiti cercando di capire chi sono, cosa ci faccio qui e perché
bevo quasi in estasi un caffè, sola, scrivendo in un’agendina chissà quali importanti appunti. Amo la
solitudine: non come condizione costante, altrimenti diventerebbe abitudine, noia invece la
solitudine è gioiello, è lo spazio necessario da ritagliare in una vita d’apparenze, è l’attimo
dell’essere, è percepire in che modo scorre la vita sentendosi per un momento esenti da quello
scorrere incessante che ci travolge ogni giorno ricordandoci i nostri doveri, i nostri diritti ma mai la
nostra libertà di viversi da dentro, la solitudine è saper vivere se stessi, rendendo magica l’azione
più banale, assaporando ogni piccolo movimento e sussulto dell’anima. Solitudine è bere un caffè
con i cinque sensi…
La tazzina: pelle di un neonato, pura, liscia, inconsapevole involucro di amarezze e sorprese; crema:
soffice, leggera, velo illusorio di dolcezza sperata e desiderata, primo e ultimo assaggio della vita.
Nero: forza vitale, coraggio, percorso, controsenso di una vita alla ricerca di una felicità sempre
irraggiungibile, scelta amara di un’esistenza illuminata dalla convenzione.
Sapore di campagna, di arrosto bruciato per essere stati troppo tempo fuori ad occuparsi
dell’apparenza di una casa già perfetta poiché tua. Dolcezza intuita, sfuggente, apparentemente
frivola ma essenza ultima, dono incommensurabile del destino, abile giocatore di contraddizioni.
In un caffè la vita stessa si raccontava nascosta dietro contrasti di colori, sapori ed elementi. Lo
zucchero: perché escluderlo? Con la presunzione di voler assaporare la vita amara così com’è senza
quell’illusione che qualcosa di buono possa esistere: come se si volesse fare i coraggiosi, capaci di
guardare in faccia la realtà senza accorgersi di divenire così vittime di un’esistenza inesistente, di
una verità atroce e inutile. La vita stessa non è un’illusione, sono gli elementi creati dalla vita a
essere delle “pillole di illusione” messe a nostra disposizione per assaporare quella felicità tanto
desiderata che sfugge, per farsi rincorrere e non farci fermare, per non darci mai la sensazione di
essere arrivati. Scegliere un caffè amaro è illudersi di essere migliori perché capaci di gustare
l’essenza vera di un caffè, non scegliere lo zucchero è come lasciarsi sopraffare da un sapore più
forte e scegliere di non difendersi: scegliere l’amaro è essersi arresi, è essere arrivati. Io non voglio
arrivare, voglio credere che esista ancora la parte dolce, voglio finire questo caffè e continuare a
gustarmi la crema rimasta incollata alla tazzina come a dire “ questo è troppo per te, non puoi
prenderti anche la parte migliore”. Io invece voglio prendermi la parte migliore anche se questo
significa sapere essere pazienti o rapidi, anche se questo significa dover soffrire e saper piangere,
voglio prendermi tutto anche quando mi sento stanca e amara come un caffè senza zucchero.
Vidi un caffè macchiato passarmi davanti e cercai di capire cosa potesse suggerirmi un caffè voluto
più chiaro, forse come lo zucchero, desiderio di illusione? Ma di quale illusione si trattava, mi
sfuggiva ancora… Passava il tempo e immaginavo quella goccia di latte infrangersi nello scuro
come a rendere tutto più luminoso e semplice da gustare, allora capii: era quel desiderio legittimo e
umano di sperare in una visione più semplice della nostra vita, volere a tutti costi cambiare la realtà
senza scoprire la bellezza dell’ignoto, senza voler ricercare il sentimento più potente e straordinario:
il sublime. Saper vivere la vita era saper prendere la giusta dose di illusione, senza divenire ciechi e
sordi, senza mai avere la presunzione che tutto sia semplice, che tutto sia come vogliamo: il caffè è
scuro basta soltanto un cucchiaino di zucchero per perdersi nella sensazione di quell’amara
dolcezza senza sconvolgerne totalmente la composizione. Il latte invece era un’illusione troppo
grande per me, era annullare la mia stessa esistenza, era dire “non voglio più essere come sono”, era
desiderare di arrivare, esattamente come un caffè amaro, era desiderio di totale appagamento che mi
avrebbe portato alla stasi e all’autodistruzione.
Così come un lampo entrò un ricordo nella mia testa, era mezzanotte e su quel ponte che dava sul
mare più scuro fissavo gli occhi verso l’infinito, ero sopraffatta da una sensazione terrificante e
piacevole come mai avevo provato, ero davanti all’immensità del nulla, non vedevo niente solo una
piccola luce di un peschereccio in lontananza, ascoltavo il linguaggio del silenzio, percepivo il mio
cuore riempirsi di sangue e con un colpo solo sprigionare tutta la sua potenza, udivo il silenzioso
viaggio delle lacrime dell’anima unirsi all’indefinito del mare…
C’è chi vuole capire, chi vuole credere di aver capito e chi vuole viaggiare senza meta ricercando se
stesso per poi perdersi nuovamente dentro una tazza di caffè.
Il cucchiaino con cui giravo il caffè era insieme la mia anima e la mia mente. La mia anima perché
era l’elemento essenziale per mescolare insieme tutti i sapori, gli odori e i colori per creare così
sempre una realtà nuova; la mente perché era necessaria la mia attenzione affinché non sprecassi
neanche una piccolissima gocciolina del caffè che avevo a disposizione, in quanto ogni piccola
parte concorre per la realizzazione del tutto e non dobbiamo mai considerarla superflua poiché
piccola. Pensai allora ad un ago così minuscolo ma capace di cucire insieme ogni tipo di stoffa
creando sempre nuovi abiti e con questi un nuovo modo di immaginare la propria vita, un
piccolissimo ago era capace di riparare un qualcosa di ormai rotto, certamente quel qualcosa non
sarebbe mai potuto tornare com’era ma questo lo rendeva ai miei occhi ancora più straordinario. Un
oggetto così piccolo era in grado di creare e trasformare, dandoci la forza di andare avanti; pensai
all’importanza delle piccole cose che così preziose spesso si perdono e ritrovarle diventa
impossibile.
Perdersi una sola goccia di caffè sarebbe stato come perdersi un attimo della propria vita, che non
sarebbe mai potuto tornare indietro (neanche con il ricordo) perché non l’abbiamo vissuto e niente e
nessuno potrà mai dirci se e come sarebbe cambiata la nostra vita se quell’attimo fossimo stati più
attenti a viverci tutto. Quel caffè mi aveva insegnato ad essere attenta senza mai divenire
programmatrice».
Il barista inciampò sui piedi del tavolino di Alis, ma questo non la disturbò, anzi lei si tuffò
nuovamente nei suoi pensieri, stupendosi del fatto che potesse aver creduto solo per un attimo che
su un caffè avesse potuto aver già detto tutto…
« Che sciocca, avevo dimenticato…Riconobbi l’identità del piattino, contenitore di sbagli, nostra
coscienza, nostra memoria di errori compiuti, di errori passati, di errori irreversibili, lì tutto è
palese, lì il nero della goccia di caffè perduta è evidente, davanti ad esso non puoi negare a te
stesso il fallo e rimani impotente e colpevole, divieni giudice e giudicato: prova inconfutabile
della tua colpevolezza, una piccola goccia scura in una coscienza pulita ed amica.
Lui c’è sempre, spesso ignorato, a volte scartato, altre torturato da mille distrazioni, lui rimane in
silenzio consapevole che il tempo ci aprirà gli occhi e un giorno ci ritroveremo tutti davanti a quel
piatto, nudi, privi di maschere e non potremo più fare finta di nulla, credere che tutto sia stato un
caso, che noi non avremmo potuto agire diversamente, che siamo stati costretti da forze maggiori; ci
sentiremo piccoli davanti alla nostra stessa immensità, ci sentiremo incapaci di mentire e diverremo
finalmente noi stessi, capaci di riconoscerci davanti ad uno specchio fatto di sentimenti e
sensazioni, di paure e angosce, di desideri e aspirazioni.
Sopra al piattino un cioccolatino, cuore, amore, ultima dolcezza e battito primo; torna il sorriso
dopo la giusta ricerca, ci protegge con quel suo desiderio di dare e ricevere attenzioni sincere,
chiude gli occhi e i sentimenti culla, insegna ad aspettare silenziosamente e a donarsi agli altri senza
chiedere nulla in cambio, insegna ad avere il coraggio di farsi scartare (da chi lo desidera),
suggerisce unione e fusione, insegna a non aver paura di mettersi al fianco di chi è diverso, è
accettazione e rivoluzione. Non accettare il cioccolatino sarebbe stato rinunciare al proprio cuore
solo per paura di sentirsi troppo esposti alla vita.
Un tavolino per sostenere tutto, un tavolino per incontrare altri miliardi di caffè, un tavolino da
esplorare, apprezzare e criticare se traballa, un tavolino da aiutare, d’amare, un tavolino base
dell’esistenza dell’uno. Centro di analogie mancate, nascoste, suggerite e svelate; bisogno di
compagnia, bisogno di esistere non solo per se stessi ma per gli altri; un tavolino per non
dimenticare la praticità della vita bisognosa di certezze ingannevoli. Punto di riferimento per sapersi
perdere senza mai annegare nell’inconsistenza di una ricerca necessariamente vana. Miliardi di
caffè si appoggiano, cadono, traballano e resistono su questo mio, tuo, nostro, vostro, tavolino
chiamato mondo, dentro il quale ci muoviamo, pensiamo e speriamo di fuggire, siamo tazzine di
caffè che vogliono buttarsi per provare la vertigine del volo e il tavolino, nostro padre, ci dona i
paracaduti per darci il modo di resistere alla caduta.
Vedo fiori, uomini e animali incontrarsi e non dirsi nemmeno “ciao”, vedo un mondo che spera di
farsi dire “ ti voglio bene” mentre noi qualche volta lo sfruttiamo solo come vagone di transizione
sperando nell’esistenza di chissà quale altro mondo, di chissà quale altra vita, di chissà quali altre
sensazioni. Siamo qui, siamo piccoli e finiti è vero, tutti i caffè prima o poi finiscono, ma il dato
fondamentale è essere qui, dunque apprezziamo ogni singolo impercettibile sorso del nostro caffè,
ma occupiamoci anche del caffè vicino a noi, del tavolino che ci sostiene e di ogni piccolissimo
elemento che si occupa di rendere il nostro caffè meno amaro ma più consapevole».
Il telefono squillò, Alis rispose: era suo padre, aveva finalmente terminato il corso e la stava per
venire a prendere, Alis guardò l’orologio ed erano solo le tre e venti minuti, per lei era passata una
vita, tutte quelle immagini, quelle sensazioni le aveva potute vivere solo in venti minuti, aveva
assaporato solo una piccolissima goccia di caffè…
Prese la sua agendina e scrisse:
“Il caffè vita, la tazzina involucro, lo zucchero illusione essenziale, il cucchiaino forza creatrice, il
piattino coscienza dell’esistenza, il cioccolatino cuore aperto verso il simile opposto, il tavolino
incontro del tangibile”.


“Riflessi”

Uno specchio,
i tuoi occhi
Ricordi di un mondo lontano
I tuoi occhi,
uno specchio
la vita riprende ma tu non sei più.
Riflessi…
niente più.


“Gioco”

Il campo,
una vita
arriva il riscatto,
sorriso dopo la tempesta
Un gioco…
La Vita.
Gocce di fatica su un viso,
stanco, freddo, forte
e pur luminoso
splende ancora.


“Blu.”

“Eloisa si sveglia e crede di dormire, dorme e crede di vivere; non ha imparato a distinguere la realtà dalla sua immaginazione”.  Questo è quello che ripeteva sua madre ad ogni persona incontrata: medici, amici, conoscenti, persino a turisti che entravano per caso nella panetteria al centro di Roma, in via dei Giubbonari. La madre di Eloisa era disperata, sua figlia non avrebbe mai potuto avere una vita come gli altri, non sarebbe mai stata in grado di specializzarsi in qualcosa, lei era una che lasciava le cose a metà, le iniziava, era brava, tutti ammiravano le sue doti ma poi lei se ne andava e per gli altri non era mai abbastanza: una delusione insomma.

 

“Eloisa, Eloisa cosa hai in mente?”

“Un mondo blu!”, rispondeva ridendo ogni volta.

Gli altri non capivano e a loro volta ridendo continuavano a vivere le loro vite (o almeno credevano di farlo). Eloisa era ciò che gli altri non sapevano poter essere: era libera ma non per questo meno triste, meno preoccupata, meno soffocata dal mondo. Era libera perché aveva accettato il buio intorno a sé, era libera perché parlava con chiunque le rivolgesse la parola ma sempre un po’ delusa dalle sue di parole ma anche dalle orecchie altrui, un giorno decise di smettere di avere una voce, decise di essere libera di non parlare più con nessuno.

Continuava ad esercitare la sua voce, alcune volte piangeva, le piaceva, ma aveva smesso di credere nelle persone; ed era stanca, stanca di dover parlare come le persone si aspettavano una conversazione.

Nessuno deve mai andare troppo affondo da versare una lacrima per ciò che è; entusiasmo, finto lamentio di sotto fondo come decorativo per rendere tutto più realistico come tocco finale: un sorriso e non importa se finto. Sorridi a tutti i costi e non annoiare troppo. Una ventenne deve sorridere, una ventenne in salute deve sorridere perché può vivere.

“Sorrido perché vivo morendo ogni giorno?  Sorrido per la morte, alla morte, della morte, con la morte? No, non sorrido per la vita, per la mia fortunata condizione e per quel che sarò; ma per il gusto di vedere il mio sorriso allo specchio o ancor meglio negli occhi di qualcuno”.

 

Quel giorno, il giorno che decise di non avere più una voce, scrisse una lettera alla sua povera madre disperata, così disperata da non riuscire a vivere la sua di vita a causa della vita di una figlia tanto bella quanto diversa, troppo diversa per il mondo…

 

“Cara mamma,

eccomi qui, spero tu possa capirmi, ci spero sempre…

Il mondo blu di cui parlo senza dire mai nulla è fatto tutto di mie speranze; questo mondo le vuole distruggere ed è per questo che le ho nascoste nel blu dei miei sogni. Sai mamma, io sono quella che fa sempre il biglietto del bus, sempre tranne un giorno, ed è bastato UN GIORNO per prendere la multa; ma vedi mamma la mia vita non è fatta di singolarità, l’unicità uccide, ci rende immobili. Io non sono una persona, io sono tutti gli sguardi che incontro, tutte le voci che ascolto, tutte le luci che toccano il mio corpo, io non amo un solo sesso, io non amo per il sesso, io amo ciò che è qualcosa di bello per me; sono il vento che leviga le mie gote, la pioggia che bagna i miei capelli da quel giorno che come oggi ho deciso di non avere più qualcosa e ho scelto di farmi bagnare. Vedi mamma, la tua disperazione per ciò che sono e quindi non sarò mai mi fa male ma non per questo posso cambiare, posso solo dirti che non vivo nel giusto perché questo mondo non è giusto. Giuro mamma, lo giuro davvero se potessi credere, come te, che quello che ci hanno insegnato è davvero il giusto, il naturale, proverei a seguirlo questo mondo, lo farei.

Oggi ho preso nuovamente una delle mie decisioni, una di quelle che non ti piaceranno e ti faranno stare male: da oggi non avrò più voce, o meglio, lei non sarà più qui con voi, anche lei ha preferito nascondersi per non morire nel nulla di questo tutto. Ti prego mamma, non piangere, non piangere per quello che io faccio. Piangi, piangi forte per quello che abbiamo creato e che ci ha portato via l’umanità e ci ha resi automi dipendenti gli uni dagli altri come batteri patogeni l’uno dell’altro.

Siamo qui, e io mi devo difendere mamma, mi devo difendere, e ho deciso di farlo e vivere, vivere a modo mio; sto sbagliando lo so, faccio mille errori ma vorrei tanto essere libera di raccontarteli senza riserve, raccontarti di quel giorno, quel giorno in cui avevo smesso di amare ciò che studiavo e che a poco a poco me ne stavo andando, che avevo cercato un lavoro e per qualche spicciolo avevo iniziato a lavorare, che ci provavo a continuare ma tutto mi sembrava più inutile che mai. Mamma avrei voluto essere la figlia che non hai, ma non posso, non voglio. Vorrei tornare a casa e sentirmi tranquilla, sentirmi la figlia che non c’è.

Ti sto togliendo anche la voce, tu mi dirai o per lo meno penserai, ma quello che vorrei tu capissi è che non la sto togliendo a te, tu hai tutto, tu puoi tutto mamma anche tu sei libera come me, sei talmente libera da poterti creare questa prigione. Ognuno si crea la sua, la mia è fatta di tutto quello che qui non c’è ed è per questo che non si vede ma guarda i miei occhi, mamma, hanno il colore della mia esistenza e le mie lacrime il sapore del mare d’inverno che una sera, una domenica sera ho ascoltato, i tagli sulle mie labbra nascondono tutti i miei sogni mai realizzati, la mia pelle così liscia mi ricorda che da grande voglio tornare bambina e forse questa volta posso vincere, posso tornare bambina e andare sulla Luna, e essere una brava professoressa, e inventare teoremi, e non dover scegliere di essere una cosa sola”.

 

Tua Figlia,

Eloisa.

 

Lasciò quella lettera sul suo letto disfatto e uscì, forse a prendere un po’ d’aria. Prese il trenino e se ne andò al Mare, camminava lungo la spiaggia, piedi nudi toccavano e amavano la sabbia, i suoi pensieri si persero nei ricordi, in quei ricordi che ancora sulla sua pelle incendiavano cicatrici vive…

 

Quel ricordo le fece crescere il desiderio di evasione e decise di andare verso il mare e lentamente lasciarsi cullare dal rumore, dal sapore, dalla forza, dal blu e cantando iniziò la sua danza:

 

“Voglio morire così — pensò— voglio morire sul letto, percependo la totalità

dell’accadimento, voglio morire così, cosciente e consapevole della fine;

Piangerei, (anche ora piango)! Piangerò per l’ultimo sapore che afferrerò.

Se solo potessi scegliere come morire, morirei oggi…

Morirei oggi perché oggi è stato un giorno giusto, un giorno così,

un giorno vissuto senza ore.

Voglio morire così perché ho ancora il tuo odore sulla mia pelle,

e il mio ultimo respiro, saprebbe di te.

Voglio morire così perché fa freddo e il mio nulla mi sta avvelenando

e, amo questo veleno…

Voglio morire oggi perché oggi, non ho nulla di meglio da fare.

Voglio morire per poter non ricordare domani, domani senza oggi,

(domani ricordando oggi).

Voglio morire per non dire più, voglio morire cosi, e oggi.

Morire per me. Morire per essere, morire per bastarsi,

voglio morire così, oggi, subito!

Ma non morirò, morirò vivendo,

domani tutto il vuoto del mondo”.


“Sublime”

Colto il sublime, un cuore

in un cimitero bianco piangeva.

Monti di un verde forte da parer nero

imponenti s’arrendevano

alla tristezza dell’umanità intera

in corsi d’acqua abbandonata.

 

Passi d’uomo, timidi assassini

del candore di neve che nel filar della notte

una coperta aveva stesa,

sfilano su un mare in tempesta

verso una rossa nave bianca,

dimenticando la solitudine incomunicabile

dell’umano silenzio.


“Foglie secche”

Fuori!

insufficiente adattamento

Giudizi più o meno volontari piombano sulla testa.

odiosa propensione verso la perfezione

desiderio incostante ma incrostante di evasione,

contraddizioni, sempre e solo contraddizioni.

— Chi sei?

– Il nulla delle mie risate, dei miei silenzi laceranti nell’anima.

— Va tutto bene?

  • No, ho smesso!

— Che cosa vuoi?

  • Me stessa.

— Dove sei?

  • Persa dietro frivole sventure

Essere come foglie secche al sorgere della primavera:

fuori posto!