Tormento

Ogni tanto mi prendono quei momenti
in cui sento la vita abbandonarmi lentamente,
come seta che scivola sul mio corpo.
Il tormento sottopelle,
ne rimane di me uno scheletro di poesia.
Larva giacente sul letto,
graffio il cuscino.
Dentro di me urlo,
ma nessuno può sentirmi.
Nessuno mi sente,
mentre il gelo mi consuma.


Briciole

Quando troppe parti del proprio cuore muoiono,
non rimangono altro che briciole.
Piccoli frammenti di una storia vissuta,
di sentimenti sofferti.
Spezzarsi lentamente,
così uniti in passato
e così distanti in futuro.
Essere una cosa sola per brevi istanti,
con l’universo che urla che stridula
tutto il piacere, tutta l’euforia
che si possan mai provare.
Per poi disintegrarsi,
lasciando un solco sanguinante
nel cuore che ormai
è solo briciole.


Paura

Mi svegliai all’improvviso, con un forte mal di testa e un senso di smarrimento.
Mi guardai attorno e mi accorsi di non essere nel mio letto, nel confortante giaciglio che è la mia stanza.
Mi trovai in un luogo completamente buio, solo una fioca luce filtrava dal pavimento. Cercai di scorgere qualche dettaglio di quel posto che mi sembrò irreale e una brezza gelida mi accarezzò il viso.
In quel momento mi accorsi che la mia pelle era squarciata e con le dita cercai di tastarmi la guancia per capire cosa mi fosse successo, ma sentii solamente carne scoperta e liquido misto a sangue che mi impregnarono i polpastrelli.
Non capivo. Non capivo cosa stesse succedendo, ma nonostante ciò non riuscii a piangere. Fu come se le ghiandole lacrimali si fossero totalmente essiccate.
Mi alzai lentamente e sentii uno scricchiolio alle costole, mentre gocce di sangue caddero stancamente sul pavimento. Sentii dolore a tutto il corpo, come se le mie ossa fossero state di cristallo e colpite con brutale forza e i miei muscoli fossero di gelatina congelata.
Camminai lentamente in cerca di una porta, di una luce, di qualcosa in cui sedermi. Mentre esplorai l’immenso e terrificante vuoto attorno a me, una ciocca di capelli scivolò come un piccolo manto di seta sulla mia spalla e riuscii a scorgerne i riflessi corvini. Ma non ero bionda?
Tutt’a un tratto mi resi conto che avevo perso parte della mia memoria, dei miei ricordi. Chi sono io? Che ci faccio qui? Da dove vengo?
Continuai a camminare e mi trascinai senza troppo pensare a ciò che facevo o vedevo, verso una piccola lucina in fondo alla stanza. Mi fece male il petto quando mi avvicinai e mi accorsi che non sentivo il battere del mio cuore, ma la mia attenzione si spostò a ciò che c’era sotto al debole filtro di luce. Una teca.
Salii un gradino, sentendo il femore spezzarsi, ma non urali di dolore, fu piuttosto una sorta di fastidioso solletico e non ci badai, mi soffermai orribilmente incantata davanti a uno spettacolo totalmente inatteso, macabro e machiavellico: c’ero io nella teca.
C’era il mio cadavere, avevo gli occhi chiusi, la parte sinistra del corpo faceva risplendere il candore della mia pelle diafana, la parte destra era semplicemente scheletro, consumato dai segni del tempo. I miei biondi capelli erano increspati e intrisi di sangue. Il cuore strappato dal petto e lasciato a marcire tra petali di rosa, stretto tra le mie mani. Indossavo un vestito nero, strappato e insanguinato, con rose appassite che mi circondavano all’interno della teca, le loro spine che affondavano nella mia carne e delle catene che avvolgevano a X il mio corpo.
Non capivo, non riuscii davvero a capire cosa stesse succedendo, cosa ci faceva lì quel cadavere che somigliava così tanto a me, così tanto che sembravo essere davvero io! Non potevano esserci dubbi!
Ma io ero lì e mi sentivo bene, era tutto normale a parte la pelle squarciata e le ossa che si sbriciolavano poco a poco, ad ogni mio movimento.
Mi coprii il viso con le mani, inorridita da quella vista e confusa. Pensai. Riflettei.
Ad un certo punti udii alle mie spalle un tonfo che non riuscii a distinguere, mi colse di sorpresa. Mi girai di scatto e vidi una porta semi aperta.
Mi precipitai in quella direzione, con movimenti talmente febbrili che un braccio si staccò dal mio corpo ferito e cadde a terra, come una foglia d’autunno cade dall’albero e giace a terra aspettando di consumarsi.
L’evento inaspettato mi lasciò perplessa, ma la curiosità di vedere cosa c’era oltre alla porta mi impedì di preoccuparmi del braccio e così continuai a correre e l’aprii.
Arrivai in una piccola stanzetta, con una tenda rossa davanti a me. La scostai e al muro vi era appeso uno specchio. La cornice era composta da fiori e cuoricini in peltro, un motivo delicato e romantico. A quel punto lo specchio si accese come lo schermo di un televisore e vidi al suo interno la mia figura.
Si, ero proprio io. Indossavo un abito lungo, rosa e bianco e stringevo la mano ad un uomo. Il paesaggio era un pomeriggio primaverile, con fiori di perso a fare da sfondo. Vidi la mia immagine voltarsi verso di me, con aria felice e pacifica, ma velata dalla sorpresa di vedermi lì, oltre quello specchio cercando di capire se stavo sognando.
Ma non stavo sognando. Quella era una realtà. Una brutale e fredda realtà.
La realtà dolce era quella oltre lo specchio, mentre la realtà crudele era quella in cui io ero rinchiusa, in cui io ero imprigionata.
Caddi a terra, come se tutta la disperazione del mondo mi trascinò verso il basso e una vocina mi sussurrò: “brava che hai capito… tu sei la paura. E sei stata sconfitta. Sei stata sconfitta dall’amore”.