Il viaggio della speranza

Il viaggio della speranza non caratterizza il titolo di un film o di un libro, ma è quel viaggio

intrapreso da uomini, donne, bambini che saliti su un barcone dall’Africa, decidono di spostarsi per

sfuggire ad eventuali guerre, povertà e miseria alla ricerca di una condizione economica, sociale,

politica migliore rispetto al paese d’origine.

Spesso si dimentica che anche gli italiani sono stati colpiti fra ottocento e novecento dall’esigenza

di emigrare, si è trattato di migliaia di sventurati che con le valigie di cartone, pronti all’avventura,

partivano con le grandi navi, o gli straripanti treni, dal Mezzogiorno per andare in America o in

Europa. Era gente che accettava umili lavori pur di sopravvivere, e scappare alla disoccupazione e

alla fame; alcuni, dopo aver fatto fortuna decisero di ritornare nel paese d’origine per condividere il

guadagno con il resto della famiglia, altri invece si chiamarono i loro cari nel “Nuovo Mondo”,

come è stato definito. Ora la storia si ripete con l’unica variante che i poveri del mondo, almeno in

larga parte, non siamo noi.

Negli ultimi anni si è assistito ad un forte aumento del fenomeno dell’immigrazione, e come

sottolineano i fatti di cronaca non c’è un giorno in cui clandestini, senza niente da perdere, decidono

d’imbarcarsi con ogni mezzo disponibile, sopportando fatiche bestiali per giungere verso quella che

credono la salvezza, spesso rischiano anche di morire durante il viaggio, ben si ricorda la tragedia

avvenuta a Lampedusa agli inizi d’ottobre 2013, dove quasi 400 immigrati hanno perso la vita.

Molto spesso è proprio la criminalità organizzata internazionale a gestire l’ingresso clandestino, e

questo rende il problema ancora più drammatico, basti pensare a quei “trafficati” che, dopo essere

stati introdotti nei paesi di destinazione, vengono spesso inseriti nel mondo criminale e sfruttati

come fonti di nuovi profitti illeciti (ad esempio, nel campo della prostituzione, dello spaccio di

droga, furti o accattonaggio, lavoro nero, ecc.).

Il fenomeno dell’immigrazione mi sta molto a cuore, perché cerco di comprendere la situazione di

quei poveri migranti che vogliono venire in Italia per lavorare legalmente, ed inserirsi a pieno titolo

nella nostra società, per tal motivo ho deciso di approfondire le mie conoscenze e andare oltre alle

notizie ricevute soltanto attraverso i media. Ho voluto constatare personalmente il loro modo di

pensare e vedere la nuova realtà, dopo essere giunti in Italia, e soprattutto lo scopo della mia ricerca

è stato quello di capire se si sentono apprezzati o denigrati dalla comunità italiana, scrutando tra i

pensieri di consenso e dissenso degli stessi italiani.

I migranti con la quale ho avuto il piacere d’interagire provengono dall’Algeria e dalla Tunisia, la

loro età è compresa tra i 25 e i 50 anni, ho voluto di proposito parlare con uomini dalla differente

età per capire al meglio la loro integrazione in Italia, ed è stato sorprendere notare il loro entusiasmo

per il paese ospitale, mostrando degna riconoscenza per gli italiani, definiti come gente generosa e

affidabile.

Si trovano qui per lavoro mossi da un grande spirito d’adattamento, perché non sono riusciti a

coronare il loro sogno, infatti nessuno di loro voleva fare il fruttivendolo, l’agricoltore, o il

muratore.

Mi ha molto colpito la storia di un giovane tunisino che sognava di diventare un noto imprenditore,

ma purtroppo dopo la perdita dei genitori non ha potuto proseguire i suoi studi, ed essendo il più

grande dei cinque fratelli, a soli 18 anni si è fatto carico del peso della famiglia, cercando di

lavorare per sfamare i piccoli, e svolgendo il pesante ruolo di genitore. Adesso è da 15 anni in Italia,

meta scelta perché è più facile, a suo dire, ottenere un permesso di soggiorno, la sua famiglia è

rimasta in Tunisia compresi i fratelli affidati ad altri parenti, li rivede due volte in un anno, e il

guadagno che percepisce presso un’azienda agricola come operaio è destinato alla sua famiglia, il

suo obiettivo è ritornare nel paese d’origine. Si è sentito apprezzato dai paesani, che subito lo

hanno accolto come una persona “normale”, non notando la diversità del colore della pelle, della

lingua, o della religione. In questa circostanza ho avuto modo di parlare anche con il suo titolare che

ben mi ha affermato di preferire l’onestà e la laboriosità del migrante, pagandolo allo stesso modo

rispetto ad un lavoratore italiano. L’imprenditore è stato molto diretto nel ritenere che questi lavori

umili, come la campagna, l’italiano non vuole più svolgerli come avveniva un tempo, perché la

gente di oggi pensa soltanto a studiare, ad avere una laurea, ed apparire con un titolo. Beh, dal mio

punto di vista credo che l’imprenditore abbia ragione, non è un caso che in base alle ultime

statistiche manchino proprio i lavoratori nel settore artigianale, e ci sono sempre più laureati in

cerca di un futuro.

Dopo quest’esperienza positiva del rapporto tra migrante-titolare di lavoro, caratterizzata dal

rispetto reciproco da entrambi le parti, all’insegna dell’umanità e della solidarietà nei confronti del

più debole, sono venuta a conoscenza dell’altra triste faccia della medaglia, notata dalla chiusura al

dialogo di un uomo algerino, che nonostante i miei buoni propositi nei suoi confronti non ha voluto

ascoltarmi, ma prima di andare via mi ha umilmente chiamata, e con le lacrime agli occhi mi ha

raccontato che le forme di razzismo, di dissenso, per lui e i suoi figli sono stati pesanti, non si è

sentito per niente apprezzato. Per settimane ha cercato lavoro, ma ha ricevuto soltanto porte sbattute

in faccia a causa della sua diversa nazionalità, ritenendolo inaffidabile perché “straniero”, si è

sentito accusare i suoi connazionali in quanto, a dir degli italiani, hanno rubato il loro lavoro.

La maggior parte della popolazione italiana rimane diffidente rispetto ai “diversi”, e in base alle

diverse opinioni che ho avuto modo di raccogliere, ho dedotto che per molti l’unica soluzione è

quella di rimandarli nel loro paese d’origine.

Interessante è stata la soluzione di alcuni soggetti, che in modo chiaro non hanno mostrato segni di

dissenso nei confronti dei migranti, e per loro sarebbe efficace mandare aiuti concreti nei paesi

originari: soldi, personale specializzato, costruzione di opere pubbliche adeguate, insegnamento di

tecniche all’avanguardia, in modo di risolvere localmente i loro problemi, evitando così che

migliaia di persone lascino la loro terra natale, intaccando l’equilibrio familiare.

Noi italiani possediamo dei centri d’accoglienza straripanti, e delle leggi non adeguate per risolvere

questo problema, accogliamo questi sventurati per poi rifiutarli, ritenendoli gente pericolosa. Io

credo che sia possibile governare le migrazioni, operando con intelligenza e umanità, rilasciando il

permesso di soggiorno solo se il migrante è in possesso di un contratto di lavoro che gli garantisca

di potersi procurare i mezzi di sostentamento, una casa dignitosa ed il denaro necessario per il suo

rientro in patria.

Viviamo in mondo composto da diverse persone, dalla diversa nazionalità ed estrazione sociale,

ritengo che, non bisogna dissentire la presenza di un migrante nel nostro paese, in quanto

“straniero”, l’importante è che si lavori in modo onesto e dignitoso, siamo tutti uguali, non è la

nazionalità a rendere un uomo migliore, ma il modo di rapportarsi e confrontarsi con gli altri

individui. Non bisogna generalizzare e partire prevenuti nei confronti di queste persone che

vogliono migliorare la condizione della loro vita, perché a tutti, può capitare di attraversare un

periodo non roseo dal punto di vista economico, sociale, e l’unica soluzione è chiedere umilmente

aiuto. È proprio la storia di queste persone che dobbiamo prendere d’esempio per la nostra vita,

percependo la sofferenza e la volontà d’animo che li contraddistingue.


Il cambiamento dell’attività ludica nel mondo infantile

Nel corso degli anni si è verificato nel mondo dei più piccoli un diverso atteggiamento nei confronti

dell’attività ludica. Appartengono ormai al passato i tempi in cui ci si divertiva in modo collettivo

ed economico, dove la spensieratezza e il gusto dello stare insieme con gli amici prendevano il

sopravvento. Bastava una bici, un pallone o un gioco di società per rallegrare gli animi dei bambini,

tra le urla e le risate per far prevalere la propria opinione. Era la strada sotto casa il punto di ritrovo

o una piazza, o dove presente l’oratorio, e da lì si dava inizio ad una partita di pallone.

L’entusiasmo con cui i maschietti giocavano era pari ad una finale di Champions League, con

qualche modifica personalizzata delle regole del gioco, simulavano la porta soltanto con due pietre,

e con dei gessetti disegnavano il centro campo. In assenza del prato, il prezzo da pagare erano le

tante cadute, ed il ritorno a casa dalla proprio mamma costituiva un piccolo ostacolo da superare,

poiché il rimprovero per i vestiti sporchi, e le ginocchia sbucciate faceva parte del gioco.

Le bimbe sedute tra i gradini della strada con una bambola in mano si divertivano a giocare a “

mamma e figlia”. Le attenzioni che rivolgevano al giocattolo parevano reali, parlavano con essa,

simulavano l’atto del dar da mangiare o le cure per un immaginario malessere, con delle siringhe di

plastica si sentivano delle piccole crocerossine. Per le bimbe ciò costituiva un momento di crescita

psicologica, e magari riversavano gli atteggiamenti reali della propria mamma alla bambola, come

se volessero svolgere la medesima attività.

Un noto gioco che riguardava i bambini che non possedevano un cellulare era il cosiddetto “

telefono senza fili”. Si trattava di un semplice filo teso tra due barattoli, o lattine.

Nella parte superiore delle due lattine, al centro, si facevano due piccoli fori, attraverso i quali

passava un capo del filo, questo veniva annodato per non farlo scappare fuori. Occorreva uno spazio

libero sufficiente in modo tale da estendere il filo in tutta la sua lunghezza, poi uno da una parte con

il bussolotto all’orecchio e uno dall’altra che lo teneva alla bocca, davano inizio alla conversazione.

Oggi, invece, non solo tutti gli adolescenti posseggono un cellullare tecnologico, ma si è di tanto

diminuita l’età in cui lo si riceve per la prima volta.

Si tratta di una generazione cresciuta nel mondo dei mass- media, dove il luogo privilegiato per

trascorrere del tempo libero non è più la strada, ma la casa, il giocattolo preferito non è più la

bambola, o per i maschietti i tornei a pallone, ma la televisione, i tablet, gli smartphone.

Adesso sono i protagonisti dei cartoni animati, gli spettacoli di avventura e di azione, a far parte

della fantasia dei bambini, dei loro giochi, dei loro disegni. Non c’è più interazione tra genitori e

figli, o tra bambini, poiché attraverso un tablet o uno smartphone si può benissimo giocare da soli,

isolandosi così dalla realtà circostante, oltre ad affaticarsi la vista, se lasciati per ore davanti ad uno

schermo, rischiano di crearsi un mondo popolato dagli eroi dei giochi.

Ma anche la televisione tende ad influenzare i bambini e ciò dipende dal tempo di esposizione e dai

contenuti che vengono trasmessi. Guardare per lungo tempo la televisione li può condurre a

sviluppare comportamenti inefficaci per la loro crescita e il loro sviluppo psicofisico. È vero che

esistono dei tablet che permettono l’accesso ad un mondo riservato solo ed esclusivamente ai

bambini e alla loro educazione, con delle applicazioni per esercitarsi in varie materie, però è anche

vero che i più piccoli possono creare una sorta di dipendenza dalla apparecchio elettronico. Come in

ogni situazione, non bisogna mai esagerare, perché questi mezzi non svolgono le veci di una baby-

sitter e quindi non devono essere utilizzati per tenere i piccoli a bada. È importante assumere il

giusto equilibrio, scatenando la fantasia dei piccoli attraverso i puzzle, le costruzioni, o altri giochi

di società, in modo da inserire il bambino nel mondo reale, e non far perdere il gusto delle risate

prodotte dai giochi semplici di un tempo, e in egual modo accostarlo al mondo della tecnologia, che

ormai ha invaso la vita di tutti i giorni di grandi e piccini, ma con il solo scopo educativo, per

sviluppare le proprie capacità cognitive.


Il lento percorso per l’adozione internazionale

La maggior parte delle famiglie dopo il grande giorno del matrimonio desiderano un figlio, alcune

coppie realizzano serenamente questo sogno, altre dopo vari tentativi scoprono la triste verità

dell’infertilità di uno dei partner , e una delle possibili soluzioni presentate a queste famiglie è il

ricorso all’adozione.

L’adozione è il modo di dare una famiglia ad un bambino che ha il diritto di essere accolto ed

amato, per il suo arrivo è necessario che la coppia crei un nuovo spazio fisico ma soprattutto

mentale, poiché la creatura è stata generata da altri, con una sua storia, un suo carattere, il cui unico

obiettivo è di continuare con i nuovi genitori una sua seconda possibilità di vita.

Si può scegliere di ricorrere all’adozione nazionale o internazionale, la prima consiste nell’adottare

un bambino, figlio di italiani o stranieri, all’interno del contesto giuridico dello Stato Italiano. I

tempi per l’adozione nazionale sono piuttosto brevi, dai 12 ai 14 mesi dal momento della

deposizione della domanda al Tribunale dei minorenni da parte della famiglia.

L’adozione internazionale, invece, è l’adozione di un bambino straniero fatta nel suo paese. A

differenza dell’adozione nazionale, il percorso è più lungo e complesso ma emotivamente più ricco,

perché entra a far parte della propria famiglia un bambino con cultura, lingua e tradizioni diverse.

Per l’adozione internazionale i tempi necessari per adottare sono lunghi, anche sino a tre anni dal

momento della presentazione della domanda.

Il tema dell’adozione internazionale mi è sempre stato a cuore, perché indirettamente ho assistito

all’esperienza vissuta da una famiglia, a me cara. La giovane coppia mi ha raccontato il lungo

cammino percorso per adottare una bambina del Brasile. Dopo sposati il loro sogno era quello di

creare la famiglia perfetta, da tanto desiderata, con dei figli da poter crescere e accudire giorno dopo

giorno, ma fin da subito si sono accorti che qualcosa non andava, non avevano il coraggio di andare

dal medico per timore di scoprire la verità, e per alcuni mesi hanno sperato, invano, nella

gravidanza naturale, ma dopo aver maturato l’idea dell’impossibilità si sono sottoposti a dei

controlli medici, e infatti uno dei coniugi non poteva avere figli. La reazione della coppia alla

notizia dell’infertilità inizialmente non è stata positiva perché sono stati colti dalla paura

nell’affrontare la triste realtà, cercando di non rovinare il rapporto di coppia, ma capirono che la

base fondamentale era semplicemente la collaborazione reciproca e l’amore che li legava.

Il momento più doloroso è stato quello di comunicare alle famiglie la verità, temevano le troppe

domande e soprattutto le risposte da dare per non ferire gli animi di nessuno, ma nel frattempo

valutavano l’idea di non far passare in secondo piano il loro desiderio, cioè avere comunque un

figlio da crescere. Le loro famiglie si sono presi cura della giovane coppia cercando solo di offrire il

tanto sperato sostegno morale.

Trascorso qualche mese la coppia ha deciso di avviare la procedura per l’adozione internazionale,

dopo aver presentato la domanda di Adozione all’ufficio di cancelleria del Tribunale dei minorenni,

i coniugi sono stati valutati dai servizi degli Enti locali che hanno esaminato le potenzialità

genitoriali, raccogliendo informazioni sulla loro storia personale, familiare e sociale. Il compito dei

servizi è stato anche quello d’ informare in modo corretto e completo gli aspiranti genitori adottivi

sulle condizioni di vita dei bambini nei paesi di loro provenienza e sugli stili di vita a cui erano

abituati. La validità della domanda era di tre anni, e la giovane coppia viveva con ansia i giorni che

lentamente per loro trascorrevano, sentivano il diritto di poter adottare un bambino poiché anche gli

enti locali reputavano idonei i loro requisiti, ma il primo anno passava e ancora nessuna chiamata da

parte del tribunale, lo stato d’animo della donna, già colpita emotivamente dalla sua infertilità,

peggiorava sempre più, soltanto il sostegno del marito e della famiglia rendevano più leggere le sue

giornate, le istituzioni non davano risposte su questa lunga attesa, nonostante le rognose procedure

erano andate a buon fine, l’unica soluzione era solo la pazienza di saper aspettare.

Nel frattempo anche i mesi del secondo anno trascorrevano, e considerando i tempi di scadenza

della domanda, la coppia temeva di non riuscire a coronare il loro sogno, si sentivano privati di un

diritto che qualche tempo prima era loro, iniziarono a mostrare diffidenza nelle istituzioni, ma

l’attesa alla fine non è stata vana, perché un mese prima della scadenza sono stati chiamati dal

Tribunale, il quale ha consegnato loro il decreto d’idoneità, e così nell’arco di un anno, seguiti da

psicologi ed esperti sono stati in Brasile per incontrare la loro figlia adottiva, l’esito anche da parte

delle autorità del paese straniero è stato positivo, la Commissione per le adozioni internazionali ha

autorizzato l’ingresso e la permanenza del minore in Italia. La piccola di appena quattro mesi è

arrivata nel nostro è paese, e trascorso il periodo di affidamento preadottivo, la faticosa procedura

si è conclusa con l’ordine, da parte del Tribunale, di trascrizione del provvedimento di adozione,

nei registri dello stato civile. La bambina è così diventata definitivamente una cittadina italiana e un

membro a tutti gli effetti della nuova famiglia “multi-etnica”.

Adesso la loro figlia ha ben 22 anni, vive serenamente con i suoi genitori adottivi, i quali le hanno

dato un’ottima educazione, inculandole dei sani valori morali. La ragazza è venuta subito a

conoscenza della sua storia, aveva perso la madre naturale subito dopo il parto, mentre il padre

biologico l’aveva abbandonata, i pochi mesi di vita in Brasile li ha trascorsi nella triste realtà delle

favelas, e grazie ai suoi genitori adottivi ha potuto vivere una sana vita, all’insegna dell’amore e

dell’affetto mostratole.

Il rammarico da parte dei genitori adottivi consiste soltanto nei tempi lunghi di attesa, perché

bastava un altro mese in più e tutto sarebbe stato inutile, poiché trascorsi i tre anni dalla

presentazione della domanda bisognava rifare l’intero iter burocratico.

La storia di questa famiglia ha un lieto fine, ma vi sono altri casi in cui a causa delle lente procedure

gli aspiranti genitori si vedono svanire un sogno e privati di un diritto che sentono ed è loro.

Bisogna avere fiducia nelle istituzioni ma è anche vero che non si deve sottovalutare lo stato

d’animo di quelle coppie che fortemente desiderano adottare un figlio e che a causa della lentezza

da parte della burocrazia, passano i loro giorni, i loro mesi e i loro anni a sperare in una

conclusione.


Viaggi reali e fantastici

Il viaggio rappresenta un’esperienza di vita che apporta dei cambiamenti interiori importanti, è

motivo e scopo di conoscenza e arricchimento personale, il punto di partenza è quello di

abbandonare la propria condizione attuale e porsi su un’altra dimensione, iniziando ad osservare la

realtà su altri punti di vista, infatti la ricerca è il motivo per il quale si decide d’intraprendere un

viaggio, ed è il desiderio che pulsa nel proprio cuore a spingerci a raggiungere la meta prefissata,

che talvolta non è magari come l’immaginavamo nella nostra mente, perché la vita ci riserva tante

di quelle sorprese che mai avremmo pensato.

I viaggi fantastici rappresentano un’importante tema nel mondo letterario, basti pensare ad Omero

nella figura di Ulisse nel grande poema dell’Odissea in cui viene esaltata l’acutezza e l’ingegno del

suo personaggio, capace di superare tutte le difficoltà, spinto dalla curiosità di scoprire cosa ci fosse

oltre le Colonne d’Ercole, il limite che era considerato invalicabile, oppure al viaggio allegorico

nella Divina Commedia che ha lo scopo di ricercare la purificazione dell’anima. Il poema nel suo

insieme è la storia della conversione del peccatore a Dio, ed è attraverso un’aspra via che si snoda

tra i regni dell’oltretomba che si giunge alla contemplazione dell’Altissimo.

Il viaggio non è mai una fuga ma una continua ricerca ed evoluzione, dopo averlo intrapreso ci si

sente dotati di una nuova ricchezza che influenza anche la nostra vita quotidiana, infatti l’uomo ha

la bellissima capacità di recepire e assimilare ciò che gli accade attorno.

I motivi che accompagnano la scelta finale di partire sono tanti, tra cui il lasciare realmente la

propria terra natale, e migrare verso altri territori più sviluppati per migliorare la propria condizione

sociale ed economica per se stessi e la famiglia, oppure si decide di viaggiare per un periodo

prefissato con lo scopo di visitare luoghi conosciuti per la grande bellezza artistica, arricchendo così

il proprio bagaglio culturale, o per l’amor di patria e il senso del dovere, come i nostri militari in

missione che affidano la loro vita a Dio, cercando la protezione, il coraggio e la grande forza

d’animo che sono elementi fondamentali per poter affrontare le difficoltà dinanzi al loro percorso.

Su quest’ ultimo punto voglio concentrare la mia attenzione, rivolgendo il mio pensiero ad una

persona a me cara, Diego, un ragazzo di ventuno anni che mi ha offerto la sua testimonianza sulla

missione in Afghanistan intrapresa qualche anno fa, un viaggio che da sempre sognava e che voleva

trasformare da fantastico a reale, da affrontare non solo con la mente ma anche con il corpo.

Il giovane militare si trovava di servizio presso la sua caserma, sembrava un giorno come tanti altri,

ma fu la voce del suo comandante, che ordinò un’adunata nell’immenso piazzale, ad interrompere la

quotidianità di quelle ore, non fu espresso esplicitamente il motivo del richiamo, ma ai ragazzi fu

soltanto riferito di organizzare i preparativi per alcune esercitazioni da eseguire nei giorni

successivi. Una grande curiosità animava gli animi dei militari che passarono i minuti a chiedersi in

cosa consistevano le esercitazioni, e solo dopo qualche giorno accolsero la notizia che a breve

dovevano partire dei volontari per la missione.

Diego non diede subito l’adesione perché sentiva il bisogno di parlarne con i suoi familiari, gli unici

che potevano indirizzarlo verso la giusta scelta, anche se poi l’ ultima parola spettava al suo cuore,

il padre fu subito favorevole alla partenza del figlio, ma la madre cercava di dissuaderlo, e la

decisione finale si concluse con un abbraccio da parte del giovane nei confronti di quella donna, che

mostrava rassegnazione e cercava di non pensare alle brutte notizie che circolavano in televisione.

Il giorno tanto atteso era arrivato, Diego era pronto per calpestare suoli che non erano quelli della

sua terra, necessitava tanta maturità per potersi ambientare verso quella nuova realtà, il cui unico

“rumore” non era caratterizzato dalla musica metal che ascoltava, ma dai fischi dei proiettili e dai

boati che circolavano in quella terra. Il suo viaggio da immaginario si trasformò in reale, ma di

certo non era come pensava, soprattutto a Diego colpì un episodio che vide coinvolto un bambino di

circa 12 anni, all’apparenza un’anima piccola e innocente, ma improvvisamente gli si mise davanti

puntando una pistola verso la sua mimetica, il militare non sapeva come reagire, anche perché non

aveva la certezza se si trattasse di un’arma vera o giocattolo, ma d’istinto anche lui puntò il suo

fucile pronto a sparare, se la creatura dagli occhi neri e spalancati faceva la prima mossa, ma Diego

non ebbe mai il coraggio di spingere il grilletto, finché il bambino scappò via, senza compiere il

temuto gesto.

Tra gli aspetti più importanti emerge il modo in cui avveniva la corrispondenza da casa, la prima

licenza era prevista dopo 45 giorni, e il mezzo di comunicazione con amici e familiari era dato dalle

lettere. Quando arrivava un pacco in caserma Diego era emozionato, come un bambino il giorno di

Natale quando trova i regali sotto l’albero, ma fondamentali erano le lettere che il militare scriveva

durante il suo turno di notte ai suoi familiari e amici, in cui poteva esprimere le emozioni del

giorno trascorso, e soprattutto le frasi per poter tranquillizzare la sua mamma che tutto andava per il

meglio, Diego evitava magari di raccontare le crudeltà che avvenivano in quella terra per non

metterla in ansia, quando scriveva s’isolava dall’ambiente circostante immaginando di avere dinanzi

ai suoi occhi il destinatario della lettera, solo così poteva darsi forza, continuando a lavorare nella

massima professionalità, affrontò quella missione con grande spirito di sacrificio, vivendo con

immensa intensità ogni momento della giornata, perché nulla era routine, ogni giorno era diverso

dall’altro, e spesso si guardava gli stemmi della divisa pensando che quel viaggio fantastico era

divenuto reale, rappresentava la sua bandiera italiana in terra straniera, fu per lui un’ esperienza

unica, un treno che passava con un posto già prenotato e non poteva farlo partire senza salire a

bordo. Tornato dalla missione, per Diego non fu per niente facile abituarsi alla vita normale, quando

si trovava solo a casa non stava rilassato, perché non sentiva più determinati rumori che ormai

facevano parte della sua vita quotidiana: fischi della sala radio, spari notturni, bombe che

esplodevano, carretti trainati da cavalli, strade sfondate ovunque.

In estate durante una gita al mare con amici Diego non riusciva a prendere il sole con gli occhi

chiusi, perché lo schiamazzo della gente lo riconduceva alle urla di quelle persone quando udivano

gli spari in Afghanistan.

Diego era orgoglioso di se stesso e del suo viaggio, in cui sacrificio, sopportazione, spirito di

squadra, forza mentale, coraggio, grande forza d’animo, lo accompagnarono durante la sua

avventura fantastica.

Il giovane militare non dimenticherà mai l’elogio del suo comandante, in cui lo lodò per essersi

distinto per l’altissimo senso del dovere e professionalità, operando instancabilmente in situazioni

difficili e rischiose anche per più di 72 ore consecutive.

Nella vita non bisogna mai avere rimpianti per qualcosa che non si è fatto, ma tutti i viaggi

fantastici che immaginiamo nella nostra mente possono diventare reali adattandoli alle circostanze

concrete, è necessario cogliere l’attimo, perché la vita è una e va vissuta in tutte le sue sfaccettature.