IL RISVEGLIO DEL PROFESSOR VOGHERA

un racconto
di
Emanuele Cerquiglini

Ore diciotto e cinque, di una domenica qualunque, in una
tarda e afosa estate .
Lo smartphone posizionato su “uso aereo” e le tapparelle
chiuse quasi del tutto per impedire all’abbagliante luce
pomeridiana di invadere la stanza.
Nella camera da letto semi buia, la sveglia continuava a
suonare da qualche minuto.
Il professor Voghera era infastidito da quel suono spietato,
ma si sentiva talmente intorpidito e traumatizzato da
quell’improvviso risveglio, da non riuscire ad essere
padrone del suo corpo, come se la sua coscienza fosse
rinchiusa in un scafandro rigido dalla forma umana.
Capitava spesso, dopo sogni intensi, in certi pomeridiani
risvegli.
Per riabilitare il suo corpo al governo della mente, Vogherà
iniziò a concentrarsi partendo dalle dita dei piedi. Le
muoveva appena.
Fece alcune ispirazioni profonde, cercando di trattenere
l’aria il più a lungo possibile nei polmoni, prima di
rilasciarla espirando.
Solo quando riuscì a muovere avanti e dietro le dita dei
piedi, iniziò a spostare la sua concentrazione sulle mani
rattrappite.
La sveglia non aveva tregua, continuava a suonare e ora
segnava le diciotto e undici minuti.
Voghera si fece forza e portò il braccio destro con la mano
ancora legnosa verso la sveglia. Iniziò a colpirla
affidandosi contemporaneamente al dito medio, all’indice e
all’anulare. Cercava di prendere il tasto di forma
rettangolare, posto al centro tra quelli di accensione e
volume.
Finalmente, dopo alcuni tentativi andati male, premette il
tasto con precisione e quel suono irriverente cessò di
trapanargli il cervello.
La mente era ancora sintonizzata su quel brusio elettrico
che la avvolgeva come ogni volta che terminava l’esperienza
di un sogno lucido.
Il professore sapeva che non avrebbe visto la meritata
pensione, i medici erano stati chiari: aveva un tumore al
cervello.
Gli restava poco, anche se aveva già superato di gran lunga
la previsione iniziale degli specialisti che aveva
consultato nell’ultimo anno.
Il professore non aveva mai stimato troppo le opinioni dei
medici e riponeva ancora flebili speranze in una guarigione
miracolosa, proprio attraverso quel ronzio elettrico che
avvolgeva e permeava la sua mente durante e dopo gli stati
alterati di quei lunghissimi cicli di sonno che si era auto
imposto.
Da qualche mese infatti, aveva iniziato una vera e propria
terapia del sonno. Una terapia estrema.
Altri al posto suo avrebbero deciso di vivere al meglio e
intensamente quel poco che gli rimaneva, ma Voghera era
sempre stato un tipo solitario.
Aveva seppellito dieci anni prima la moglie, morta suicida
dopo una profonda crisi depressiva causata da un
licenziamento ingiusto, e così una volta vedovo, non avendo
figli, fratelli e genitori in vita, il professore riponeva
la sua socialità unicamente nelle riunioni a scuola con il
corpo insegnanti e la preside, o in quelle trimestrali con i
genitori dei suoi alunni e quasi totalmente nelle ore di
insegnamento in classe, con gli studenti che distrattamente
gli facevano credere di seguirlo durante le sue lezioni di
storia e filosofia al Liceo classico statale del paese.
Il resto del mondo non gli interessa più, aveva riposto
tutta la sua concentrazione nel sonno: terminate le ore di
lezione, tornava a casa per pranzo e dormiva a intervalli di
novanta minuti fino alla sera.
Prima di addormentarsi leggeva, mangiava, o abbozzava delle
meditazioni fai da te.
Riusciva con successo e facilità a far volare le ore del
pomeriggio e della la sera, acquisendo ritmi di sonno e
veglia che avrebbero fatto invidia anche ed un gatto.
Intorno alle ventuno, subito dopo una cena frugale, era
solito prepararsi la pipa con la marijuana coltivata in casa
da Filippo: un suo ex studente che lo riforniva già da
qualche anno.
Fumare l’erba con lunghe boccate dalla pipa, gli permetteva
ogni notte di ritrovare facilmente la via del sonno già alle
ventidue, facendolo dormire come un sasso per otto ore
filate, fino alle sei del mattino.
Il problema era solo la domenica, quando non c’era la scuola
e la noia lo assaliva. Allora Voghera, pur cercando di
superare le consuete otto ore di sonno, al massimo alle
sette e trenta del mattino era costretto a svegliarsi senza
più potersi addormentare. Così affranto e preoccupato dalla
sua silente compagnia, in quell’appartamento troppo grande e
disabitato, non gli restava che uscire e portarsi
stancamente al campo da calcio vicino la chiesa, dove era
solito aspettare di vedere le partite di campionato dei
piccolissimi o quelle degli adolescenti, anche se le sue
preferite erano quelle della prima squadra: entusiasmanti e
feroci battaglie per l’alta classifica nella prima
categoria. Tutte le squadre vestivano i colori verde e
bianco che simboleggiavano il paese, proprio come era
capitato anche a Voghera da ragazzino, una cinquantina di
anni prima, con le uniche differenze che i palloni erano più
duri, le maglie erano più grezze nei tessuti e soprattutto
al posto dell’erba sintetica, si giocava su un campo di
pozzolana che a seconda delle stagioni e del clima, mutava
da polveroso e duro a fangoso e pesante.
Il professore sapeva benissimo di essere stato in gioventù
un pessimo calciatore, ma durante le partite non disdegnava
di urlare qualche consiglio o qualche critica composta ai
giocatori in campo.
Era andato avanti così dall’autunno alla primavera, ma
giunta l’estate, si era accorto che fosse cambiato
drammaticamente tutto: non c’era la scuola e non c’erano
neanche le partite. Così il professore occupava le sue
mattine, durante i giorni feriali, con una leggera e
costante attività fisica nei boschi, che lo vedeva impegnato
in lunghe passeggiate e in qualche semplice esercizio
ginnico. In alternativa, durante i rari temporali estivi,
portava una sedia vicino la finestra della sua stanza e
restava seduto in silenzio per ore, fissando un grande
quaderno che teneva aperto sulle ginocchia e che sfogliava
di tanto in tanto per scorrere una lista composta da
centinaia di nomi e cognomi, dove negli anni aveva
archiviato tutti gli studenti che aveva conosciuto nei suoi
quasi trent’anni di insegnamento. Il professore cercava di
associare quei nomi ai loro rispettivi volti, o nel migliore
dei casi di associarli a veri e propri ricordi. Erano
esercizi di memoria che considerava molto utili, per
estraniarsi e non pensare al tumore.
La domenica mattina invece, il professore si faceva di
eroina.
L’eroina era potente, e a confronto i piaceri del sesso
sperimentati in gioventù, gli sembravano piccoli contentini
per alleviare il peso della vita.
Era stato sempre Filippo a fornirgliela, altrimenti il
professore non si sarebbe fidato di nessun altro. Quel
ragazzo l’aveva visto crescere e diventare uomo. Spacciava,
si, ma lo faceva con giudizio e solo per una decina di
clienti fidati. Filippo non voleva arricchirsi con la droga,
ma era quella che lo faceva campare senza un lavoro fisso e
senza aiuti dalla sua famiglia. La laurea in sociologia non
era stata sufficiente a fargli trovare una professione
decente e doveva anche preoccuparsi di mantenere un figlio
avuto sei anni prima, durante l’ultimo anno di Liceo.
Voghera era preoccupato per quel suo ex studente; gli aveva
consigliato più volte di lasciare il paese e cercare fortuna
altrove e di farlo onestamente. Soprattutto si era fatto
assicurare da Filippo che l’eroina non fosse venduta ai
ragazzi, ma solo ad adulti malati e destinati a morire,
poveri diavoli che volevano attenuare il lento e inesorabile
dolore del trapasso, come stava accadendo a lui.
A quasi sessant’anni il professor Voghera non aveva alcuna
intenzione di diventare dipendente dall’eroina. L’aveva
scelta come un’amante, o forse come una prostituta da
incontrare una volta a settimana per farsi cullare e
compiangere godendo.
Soprattutto grazie all’eroina, Voghera riusciva nell’impresa
di dormire tutto il giorno e quando si risvegliava dolorante
era talmente stanco da riuscire solo ad infilarsi nella
vasca per un bagno caldo, prima di rimettersi a letto e
dormire fino alla mattina seguente.
Non aveva mai amato la moglie come aveva invece amato
quell’altra donna: un unico e indimenticabile amore di
gioventù, che sembrava lontano nei ricordi, quanto la
distanza percorsa a piedi nella vita intera di uomo.
Di lei possedeva solo una vecchia foto ingiallita, scattata
come ricordo di una splendida giornata d’autunno passata
insieme al mare, durante la loro giovinezza, passeggiando
mano nella mano su una spiaggia deserta, in compagnia solo
di una cane e di un libro di Kant.
Ogni tanto la pensava e ricordava le sensazioni che gli
aveva regalato quell’unico grande amore della sua vita, ma
Voghera senza guardare la foto non riusciva a immaginare
chiaramente il viso della ragazza e in quelle occasioni,
disperandosi, si chiedeva se fosse ancora viva e che cosa
facesse. Avrebbe voluto chiamarla e dirle che stava per
passare a miglior vita, ma che era stato felice di averla
conosciuta e anche se per poco, amata.
Era quello il pensiero col quale il professore si era dovuto
confrontare durante il violento risveglio dovuto al trillo
continuo della sveglia.
Ed era quella la persona che vide nella sua stanza quando
aprì gli occhi. Era seduta placidamente su una poltroncina a
guardarlo dormire.
Certo ormai quella ragazza sarebbe dovuta essere una donna
che si avvicinava ai sessant’anni e che probabilmente era
anche già nonna di qualche nipote, eppure era rimasta bella
e giovane come l’aveva conosciuta lui prima dei vent’anni.
Sembrava il tempo non fosse passato, e sembrava fosse
vestiva con gli stessi abiti che indossava in quella
giornata al mare, immortalata in quella vecchia foto
consumata dal tempo.
Voghera cercò di sedersi alzando il cuscino sulla spalliera
del letto e appoggiandosi con la schiena ad esso. Era
sconcertato da quella presenza in camera sua. Pensò
improvvisamente e con terrore ad un fantasma, ma la ragazza
era reale, seduta davanti a lui in carne e ossa.
Il professore si fece coraggio e dopo essersi schiarito la
voce rotta dal sonno, le disse che avrebbe voluto alzarsi
per salutarla, ma che aveva bisogno ancora di qualche minuto
prima di poter restare in equilibrio senza cadere. Poi le
chiese come aveva fatto a trovarlo e come aveva fatto ad
entrare in casa.
Lei sorrise, mentre si aggiustava l’orlo del vestito sotto
le ginocchia. Era scalza e piegando le gambe verso il busto,
mise i suoi piedi sul bordo della poltroncina di bambù dove
sedeva proprio davanti al letto del professore; poi si portò
entrambe le mani poco sotto i glutei intrecciando le dita e
premendo il vestito sulle sue cosce per non lasciare che la
posizione assunta, la scoprisse impudicamente agli occhi del
professore.
-Mi ha aperto tua moglie.- Disse la ragazza
-Mia moglie?- Chiese Voghera.
-Si, proprio lei.-
-Mia moglie è morta da più di dieci anni ormai!- Insistette
il professore allarmato dall’affermazione della ragazza.
-Io sono abituata a vedere la gente morta, quasi non la
distinguo da quella viva…-
-Davvero, e cosa ti ha detto?-
-Che eri in camera a dormire, ma che a breve ti saresti
svegliato-, rispose la ragazza.
-E tu non sei cambiata per niente… Sei come quando ti ho
conosciuta tanti anni fa!-
-Come ti aspettavi di trovarmi?- Domandò la ragazza offesa,
prima che si alzasse di scatto, per dirigersi alla finestra
con le tapparelle socchiuse.
Voghera restò qualche istante in silenzio, cercando le
parole adeguate per scusarsi e uscire dal momentaneo
imbarazzo. Poi si fece nuovamente coraggio e chiese alla
ragazza se desiderasse aprire le tapparelle per far passare
la luce calda di quel tardo pomeriggio estivo.
La ragazza scosse lentamente il capo in segno di negazione e
disse che preferiva la penombra, aggiungendo dopo una breve
pausa, che alla luce non tutte le cose possono essere
svelate.
-Sei diventata quindi una medium?- Domandò incuriosito il
professore.
-Come ti viene in mente una stranezza simile?-
-Non saprei, certo non perché preferisci il buio alla luce,
ma perché hai parlato con mia moglie!-.
-Non mi credi?-
-Non sto dicendo questo…-
La ragazza si mosse dalla finestra, agirò il letto e
arrivata al comodino dove era posato il cellulare del
professore, lo prese e lo mise in mano a Voghera dicendogli
di togliere l’uso aereo e di comporre sei volte il numero
tre e una volta il numero sette.
Il professore era interdetto, ma per educazione e
soprattutto perché era ancora stordito da quel traumatico
risveglio che aveva interrotto prima un sogno lucido e che
dopo l’aveva messo davanti a quell’assurda situazione
venutasi a creare nella sua stanza, decise che fosse più
conveniente accontentare e assecondare la ragazza.
-Sei volte il tre e una volta il sette?- Chiese il
professore.
-Si- rispose la giovane.
Nessun suono proveniva dall’apparecchio e Voghera stava per
borbottare qualcosa alla ragazza, quando improvvisamente
oltre a quel ronzio elettrico che non era ancora sparito
dalla sua testa, sentì il segnale di libero dall’apparecchio
telefonico e poi una voce.
Una voce di donna, che diceva: “si, pronto. Sei tu, caro?”
La voce di sua moglie.
-Antonella…- disse il professore con voce tremolante.
-Ti sei svegliato, allora. Hai incontrato la tua ex
fidanzata?- Domando curiosa la moglie.
-Si, è ancora qui…-
-Bene, salutamela e non sprecare altro tempo. Chissà quante
cose avete ancora da dirvi. Noi che dobbiamo dirci ancora?-
-Antonella…-
Voghera non riusciva ad aggiungere altro. Poi la moglie lo
salutò rapidamente e chiuse la comunicazione.
La ragazza tornò a sedersi sulla poltrona e guardandolo
negli occhi gli disse:
-Hai visto?-
Voghera sentiva il battito del cuore accelerare
sensibilmente e un leggero formicolio lo colpì alle gambe.
Sentiva il bisogno di stendersi. Allora lasciò che la sua
schiena scivolasse lentamente sul cuscino, per permettere al
suo corpo di tornare in posizione supina e con la bocca
spalancata emise un sospiro che non era altro che la sintesi
del suo sconcerto per quanto era appena accaduto e stava
ancora accadendo.
-Che giorno è oggi?- Chiese alla ragazza
-Credo sia domenica, perché?-
-La domenica per me, è un giorno che oserei definire:
particolare, ultimamente…-
Voghera si mise la mano destra al petto, per sentire meglio
il cuore. Si sentiva già meglio, il battito stava tornando
regolare. Inclinò la testa per guardare meglio la ragazza e
le sorrise.
Con la mano le fece segno di avvicinarsi.
-Vuoi che mi sieda vicina a te?- Domandò la ragazza.
-Si, se vuoi…- Rispose timidamente il professore.
La ragazza sorrise, si alzò e andò a sedersi sul bordo del
letto e prese la mano del professore.
Era incredibile come lei avesse ancora una pelle così
giovane, liscia ed elastica, quando invece sarebbe dovuta
essere secca e aggrinzita, quasi come quella del professore.
Voghera ebbe un’impeto improvviso. Si liberò dalla presa
delicata della mano della ragazza e spinse bramoso di
desiderio la sua ruvida mano, ora libera, tra le gambe di
lei, facendola poi scivolare rapidamente lungo quelle cosce
toniche che avrebbe divorato.
Lei non disse nulla, non sembrava neanche sorpresa
dall’impeto dell’uomo, e lo fece fare, anche quando lui
raggiunse con le dita bramose le sue parti intime. Con
l’altra mano, Voghera afferrò quella destra della ragazza e
se la portò sul pene. Era abbastanza turgido e desiderava si
erigesse al punto di fargli male pulsando di desiderio.
Iniziò a strofinarsi ritmicamente con la mano di lei al
punto che quella oscena eccitazione incontrollata lo
costrinse, quando aumentò leggermente il ritmo di quel
movimento, a venire nei pantaloni del pigiama emettendo un
gemito dolorante e gutturale che sembrava essere salito dal
suo ventre per deflagrare rauco e catarroso in gola,
facendolo apparire come un povero vecchio illuso e depravato
che giocava pericolosamente a fare il ragazzino.
-Mi dispiace…- Disse imbarazzato il professore, liberando
poi la mano della ragazza da quella stretta poco conveniente
e lussuriosa, proprio quando rapidamente il pene del
professore, stava ritornando tristemente rammollito.
-Non devi dispiacerti- rispose la ragazza mentre si
ricomponeva l’abitino stropicciato dal tocco ruvido della
mano del professore.
Dopo alcuni istanti di imbarazzante silenzio, mentre i due
si guardavano negli occhi, lei si alzò lentamente dal bordo
del letto. Sembrava essere divenuta improvvisamente pallida
in viso, ma alla penombra non era facile giudicare le
condizioni della ragazza per Voghera.
Il professore avvertiva le dita della sua mano destra umide,
addirittura bagnate. Pensò che forse anche lui era riuscito
a farle provare piacere toccandola, ma non fece in tempo a
sentirsi orgoglioso di quel meschino pensiero, che la
ragazza si girò barcollante su se stessa come fosse ubriaca.
Voghera si portò la mano destra alle narici per sentire
meglio quell’odore intimo, ma con orrore si accorse che la
sua mano era completamente sporca del sangue della ragazza.
Il professore allora, preoccupato e impaurito, premette con
uno scatto l’interruttore della abat jour posta sul comodino
e alla luce vide che la ragazza perdeva talmente tanto
sangue, che le colava tra le gambe come provenisse da un
rubinetto aperto.
-Mio dio cosa ho fatto, perdonami! Dobbiamo correre in
ospedale!- Vogherà si levò in piedi con uno sforzo disumano,
sembrava che il suo corpo fosse fatto di pietra tanto lo
sentiva pesante. Raccolse il lenzuolo dal letto e cercò di
portarlo verso la ragazza che intanto si era accasciata a
terra quasi priva di sensi. Voghera si piegò vicino la
giovane ferita e iniziò a tamponarle il sangue come poteva,
ma non sembrava riuscire a migliorare la situazione, anzi
quando premeva con maggiore energia il lenzuolo tra le gambe
della ragazza, questa perdeva ancor più sangue.
Il professore si muoveva sgraziato in quel corpo
pietrificato e rugoso.
Si accorse con orrore che le sue unghie erano dure come
artigli e che tagliavano come lame. Ne ebbe la prova quando
sostituendo il lenzuolo insanguinato con quello ancora
disponibile che copriva il materasso del suo letto, vide che
lo aveva lacerato in più parti e che ad ogni movimento
effettuato nel tentativo di tamponare, aveva lacerato ancora
di più le ferite già inferte alla ragazza in quel suo
precedente e sconsiderato moto isterico di piacere.
Voghera non sapeva che fare, provò disperatamente a
richiamare la moglie, ma aveva scordato il numero.
-Erano sei zeri, un sette, sei tre o tre sei?- Domandò
confuso e preoccupato il professore.
La ragazza non rispondeva più e dalla sua bocca aperta
alcune larve cadevano disordinate sul pavimento di marmo,
mentre altre si arrampicavano dal mento per risalirle alla
bocca.
Il professore allora disperato spalancò le persiane per
chiedere aiuto, ma trasalì quando si accorse che fuori era
già calata la notte e in quel buio non si vedevano più le
case e tantomeno persone nei paraggi.
“Quanto tempo è passato?” Pensò disperato il professore.
Vogherà non poteva più restare in quella stanza, perché la
ragazza era ormai morta, e le larve si stavano tramutando in
mosche.
Centinaia di mosche che gli volavano intorno, procurandogli
con quel ronzio spietato un fastidio eccezionale che agiva
come un dolore fisso e acuto che passava attraverso timpani
fino a esplodere atomicamente nel cervello.
Se fosse rimasto in quella condizione senza agire, sarebbe
sicuramente impazzito o morto.
Anche la sveglia aveva ripreso a suonare, incessante e
maleducata.
Vogherà pensò velocemente sul da farsi. Si concentrò al
massimo e decise di volare via, sapeva di saper volare e
così fece. Spiegò le braccia come ali e spiccò il volo in
quel denso, ignoto blu notte, scempio di un cielo senza
stelle che dopo aver inghiottito il paesaggio, era tutto
quello che rimaneva di quel mondo osservabile oltre la
finestra della sua stanza da letto.
Il giornale del paese, quel lunedì diede gran risalto al
suicidio dello stimato professore. Il giornalista scrisse
che in quella tragica domenica pomeriggio, poco prima delle
diciotto, il professore dopo aver assunto una dose di
eroina, si era gettato per disperazione dalla finestra della
sua stanza, forse perché ormai incapace di affrontare e
sopportare il dolore di quel tremendo e incurabile tumore al
cervello che aveva scoperto già da qualche mese.
La sveglia nella sua stanza, concluse poi nell’articolo il
giornalista, era posizionata alle diciotto in punto e aveva
continuato a suonare anche dopo l’arrivo dell’ambulanza,
alcune ore dopo il decesso del professore.

FINE
® Emanuele Cerquiglini