L’OMINO DI LEGNO

“Papà! Papà, grazie!”
Il bimbo saltò al collo del padre e lo strinse forte. Era contentissimo, aveva appena ricevuto in regalo un vecchio giocattolo che usava il suo genitore da piccolo. Intagliato nel legno, ormai marcio in alcuni punti, raffigurava un omino; per il piccolo quel regalo valeva molto, non era abituato a ricevere doni a causa della povertà della famiglia. Erano ebrei ed erano giunti in Italia qualche anno prima per trovare lavoro e un posto degno in cui vivere. “Sei contento? Ti piace?” gli chiese il padre. “Tantissimo tantissimo!”. Gli sorrise, poi si avvicinò alla moglie che si era fermata a guardare la scena sulla soglia della stanza. “Ci vuole poco per farlo contento. Ha sei anni, ma un cuore grande.” La moglie continuava a guardare il figlio che giocava per terra con il suo nuovo regalo. Improvvisamente, quel momento felice fu interrotto dal rombo di motori e di ruote che scorrevano sulla strada sterrata del paese. Il padre si affacciò alla finestra. Due carri militari si erano fermati sulla strada e stavano scendendo molti uomini armati. “Presto! Dobbiamo andare!” il padre prese di corsa qualche oggetto che ritenne indispensabile. “Usciamo dal retro.” “Che succede, papà?” “Niente tesoro, dobbiamo andare via, in un posto più bello.” “Posso portare con me il nuovo giocattolo?” Gli passò una mano tra i capelli. “Certo, vedrai che ne prenderò anche un altro.” Stavano per uscire dal retro ma non fecero in tempo. Un violento calcio contro la porta principale la aprì violentemente ed entrarono quattro soldati armati di fucile. Parlarono in tedesco con il padre, mentre il piccolo, attonito, guardava la scena senza capire cosa stesse accadendo né cosa stessero dicendo. Improvvisamente, uno dei quattro strattonò la moglie, mentre un altro prese con sé il bambino e li condussero fuori. Li spinsero verso uno dei carri e li obbligarono a salire, tutti e tre insieme, ordinando qualcosa in tedesco. Il bimbo vide la madre con le lacrime sul viso che cercava di nascondere chinando la testa. “ Perché piangi, mamma? Adesso ci porteranno nel posto più bello!” La madre lo guardò un attimo, poi lo accarezzò dolcemente e nonostante il momento, riuscì a strapparle un lieve sorriso. “Certo piccolo. Certo…” I carri partirono e c’erano molti altri ebrei, tutti vicinissimi gli uni agli altri, che viaggiavano con loro. “Perché sono tutti così tristi papà? Non sono contenti di andare a giocare da un’altra parte?” Anche il padre ora aveva gli occhi lucidi. “No, sono contenti, ma, sai, saranno molto stanchi e ci aspetta un lungo viaggio.” “Allora io dormo!” Quasi non terminò la frase e già dormiva stringendo a sé il suo giocattolo. Il viaggio durò parecchio e, al termine, giunsero alla stazione, dove i soldati li fecero salire su un treno. Dentro la carrozza si stava in piedi, non c’era spazio nemmeno per muoversi perché c’erano ancora più persone che erano giunte lì con altri carri. “Papà, perché siamo qui adesso?” “Perché se vuoi andare in quel posto bello che ti ho detto, dobbiamo prendere questo treno. Non ci si arriva in altri modi.” Il bimbo fissava il padre e la madre dal basso verso l’alto. “Ma non mi piace il treno!” “Vedrai tesoro” lo rassicurò la mamma. “Tra non molto saremo arrivati.” Anche sulla carrozza stettero molto tempo. Nessuno parlava, tutti fissavano il vuoto o tenevano gli occhi bassi, si sentiva solo lo sferragliamento delle ruote sulle rotaie e quello del vapore che usciva dal comignolo. Per fortuna, il bimbo riusciva a distrarsi con l’omino di legno. Poi, giunsero a destinazione. Il vano carrozza venne aperto da un soldato armato, che li fece scendere in fila ordinata, anche strattonando e spingendo se necessario. “Siamo arrivati, mami? E’ questo il posto?” “Si, è questo…” Gli sorrise dolcemente. Ora i soldati erano molti di più, così com’erano tante le persone scese dal treno. Si trovavano in una struttura molto grande, delimitata da muri e cavi spinati. Videro che li stavano dividendo. Passavano di fronte a un gruppo di soldati che sceglievano di mandarli sulla destra piuttosto che sulla sinistra. Quando arrivò il loro turno, tutti e tre vennero mandati sulla destra, non sapendo ancora dove fossero diretti. Alcuni soldati li accompagnarono verso una struttura chiusa, come una grossa stanza e li fecero entrare ordinatamente uno ad uno all’interno. C’erano uomini, donne, bambini, anziani. “Cosa facciamo ora, mamma?” La madre non riuscì a rispondere e scoppiò in lacrime. Pure il padre aveva la voce tremante, ma nonostante ciò dette un bacio a suo figlio e lo rassicurò. “Ora, prima di fare altro, facciamo una doccia per pulirci e rinfrescarci.” “E dopo giochiamo?” Sul volto del padre scese una lacrima che asciugò rapidamente. “Dopo giochiamo” Stava per arrivare il loro turno per entrare, c’erano solo più poche persone davanti a loro. Improvvisamente il bimbo, che stava dando la mano alla madre, sgattaiolò via. Alla mamma sfuggì un gridolino di paura. Il piccolo corse dal soldato che stava facendo entrare tutti nella stanza e lo chiamò tirandolo delicatamente dai pantaloni della divisa. L’uomo lo guardò minacciosamente. Il bimbo, guardando il soldato, gli porse il giocattolo. “Me lo tieni per favore mentre faccio la doccia? Dopo, se vuoi, giochi anche tu con me!” Per un attimo rimasero fermi entrambi. Il tedesco lo fissava, immobile, e il bimbo teneva il braccio allungato per porgergli il piccolo omino di legno. Chissà se il soldato capì o meno, ma lentamente allungò la mano e prese delicatamente l’oggetto, poi il piccolo gli sorrise e corse indietro dai suoi genitori, che erano rimasti a fissare la scena immobili per la paura che potesse accadere qualcosa al figlio. Poi, assieme a loro, un altro soldato lo fece entrare nella stanza, che venne poi chiusa. Il tedesco, intanto, era rimasto immobile, con il fucile in una mano e il giocattolo nell’altra, fissando la porta chiusa. Fece cadere l’arma e fissò il giocattolo. Poi, lo strinse forte con due mani e cadde in ginocchio, mentre le lacrime scesero lentamente lungo il viso. Ormai, era troppo tardi per i rimorsi. Il padre del piccolo però aveva ragione. Sarebbero andati in un luogo migliore, il più bello, dove avrebbero potuto stare insieme. Per sempre.


Sogna, uomo

Sogna, uomo,
riscopri il sorriso con un’avventura
tra i sentieri del tuo inconscio
e infrangi lo specchio dell’anima
tuffandoti nel tuo dolce segreto.
Lì troverai un rivo scosceso,
che si farà strada tra le irte cime
e le profonde valli, prive quasi d’un fondo,
di un’angoscia latente
e approderà infine ad un caldo pomario fecondo.
Non sarà adusto, ma ardente di quella passione
che nel desto giorno è divenuta assente,
che, scialbo e vuoto ormai,
è privo d’ogni attenzione.
Non mancheranno i cari volti sulla via
che hai affidato nelle mani del reale
e che riaffiorano adesso
in una dolce armonia,
rendendoti il protagonista
del tuo miraggio.
Porterai con te un poco dell’acqua del rivo,
come un prezioso talismano da custodire
in una tasca nascosta
per farlo riapparire quando sarai alla vita.
Sogna, uomo,
perché i tuoi occhi, velati talora nel quotidiano,
sono gli unici che possono vedere
il tuo dolce segreto.


Manca l’acqua nel lago del cuore

Manca l’acqua nel lago del cuore,
le verdi sponde son mutate
in scheletrici branchi di fronde percosse,
morenti e assetate.
Ogni forma è devastata dal gelo
del declino, l’ora svanisce
in una fredda nebbia di morte
sotto un piangente cielo.
Ma nel giorno che meno marcisce
spunta un arbusto schivo
da un lembo di terra, sigillo
d’un angolo non calpestato:
e il fusto diviene quercia nascente
irrigata dal sangue d’un cuore
un poco rinato.