IL TRILLO

L’estate con i suoi lazzi, tuffi, passeggiate e schiamazzi stava volgendo al termine anche sulla piccola isola. Il mare, in quei primi giorni di settembre era straordinariamente calmo e le barche ondeggiavano pigramente legate al molo, mentre i pescatori intrecciavano le loro reti con i cappelli calati sugli occhi per il sole ancora lucente e caldo, mentre la pineta riluceva e ombreggiava a tratti i suoi vialetti. “Dove vai?” aveva chiesto suo fratellino mentre spiava di soppiatto la sorella che preparava la sua borsa da viaggio “vado per il week end a Villa Marinella” aveva risposto con la sua voce sempre allegra e squillante la ragazza mentre cercava l’ultimo costume da bagno acquistato all’emporio qualche giorno prima. “allora vai da Michael!” aveva aggiunto eccitato il bambino lanciando in aria il fumetto che fingeva di leggere “si, vado da Michael, e te lo saluto tanto, va bene?”Il ragazzino si sedette sulla poltroncina di plastica azzurra e richiamò nuovamente l’attenzione della sorella che buttava letteralmente dentro il borsone ormai strapieno le ultime creme solari reperite in giro per la stanza “vuoi bene anche tu a Michael, Luna?” La ragazza si avvicinò a lui e lo abbracciò “tanto, non immagini quanto….ma credo che lui me ne voglia in un altro modo…il suo cuore è già impegnato” com’era difficile parlare di certe cose ad un bambino di sette anni di affari amorosi poi..!!! Ma Denis continuò con la cocciutaggine che lo contraddistingueva “se vuole bene a me – e me lo ha detto tante volte – allora per forza vuole bene anche a te, e se è mio amico è anche per forza anche amico tuo, e il cuore come si fa ad impegnare? Come la signora Raimondi ha fatto con la collana di perle? “ A quel punto Luna scoppiò in una fragorosa risata “tu stai sempre ad ascoltare le conversazioni dei grandi eh?” gli tirò un cuscino sulla testa e con il borsone a tracolla scese quattro a quattro i gradini della scala che portavano in salone. La madre, sempre immersa nei suoi libri gialli alzò la testa e subito apostrofò la figlia “pantaloncini un po’ più lunghi non ne vendono più?” Luna schioccò un sonoro bacio sulla guancia della genitrice e la rassicurò come meglio non avrebbe saputo fare “tanto poi in spiaggia me li tolgo no?” la madre scosse la testa, quella figliola era davvero incorreggibile, ma, così affettuosa e adorabile da farsi perdonare tutto, anche quella maglietta tanto aderente corta e coloratissima che da giorni portava addosso con tanta fierezza. Era bella Luna, con i suoi capelli biondi miele lunghi sino alla schiena, mossi e morbidi, il viso e il corpo sempre abbronzati e quegli occhi verdi come il suo papà….sempre in viaggio, sempre in mare e lei da anni sempre lì ad aspettarlo festante ed eccitata come ai tempi del loro fidanzamento, e lui a ripeterle “meno male con i ragazzi ci sei tu, io non me la saprei proprio cavare…”loro crescevano, ogni giorno nuove gioie e nuovi problemi, tutti da affrontare da sola, con l’unica consapevolezza che ogni volta che guardava i suoi figli essi le rimandavano come uno specchio il volto del suo unico amore. Ma Luna aveva un carattere diversissimo da quello del padre, serio e riflessivo e da quello di lei, saggio e abbastanza riservato: era un tornado capace di distruggere tutto al suo passaggio, un turbinio di allegria contagiosa, per davvero. Per questo aveva tantissimi amici, già da piccola venivano a chiamarla al cancello di casa un nugolo di ragazzini, anche più grandi di lei di qualche anno; non c’era festa alla quale non partecipasse, evento o sagra durante la quale non si esibiva ora come cantante, ora come ballerina….si buttava a pesce a fare qualsiasi cosa senza timore e riusciva sempre a cavarsela brillantemente in ogni occasione con spiritosaggine e una buona dose di simpatica sfrontatezza, per non parlare poi dell’incoscienza adolescenziale, che non guasta mai. Per questo la donna si preoccupava tanto per lei. diciassette anni forse sono troppo pochi ancora per affrontare la vita con tutta quella disinvoltura soprattutto sottovalutando i pericoli che al mondo d’oggi circondano i giovani. Anche se Luna non ne parlava mai sua madre sapeva del forte sentimento che la figlia provava per quel giovane più grande di lei tanto sfortunato…Michael Romani Dasmond aveva perso la mamma quando aveva solo cinque anni, ammalatasi di un male terribile che in pochi mesi se l’era portata via come una folata di vento, una mattina di giugno. Lui non aveva mai voluto seguire il padre in madre patria Inghilterra e questi, lo aveva affidato prima ai nonni materni e alla loro morte al personale di servizio e alla coppia di custodi della Villa, che lo avevano praticamente adottato.

Padre e figlio si vedevano qualche mese all’anno: il rapporto fra i due, nonostante la continua lontananza durante tutta l’infanzia e l’adolescenza di Michael erano comunque forti e appaganti, soprattutto perché entrambi erano legati anche professionalmente gestendo ciascuno la propria azienda familiare, l’uno in Gran Bretagna e l’altro sulla sua piccola isola nel sud d’Italia. Quel ragazzo dagli occhi scuri profondi e talvolta tanto cupi da metterti a disagio l’avevano sempre profondamente turbata e nonostante il ragazzo, ormai uomo, avesse sempre dato prova di serietà, affidabilità ed educazione ogni volta che era stato loro ospite, qualcosa le diceva che per Luna forse sarebbe stato meglio dedicare maggiormente le sue attenzioni a qualche coetaneo, considerando anche i dieci anni che li separavano da lui e poi, quella sua storia tanto dolorosa che lo aveva fatto crescere troppo in fretta senza madre e con un padre troppo impegnato e lontano. Le tornavano in mente le parole del marito “meno male che ci sei tu con i ragazzi….” Già, lui sempre in mare sulla sua nave, sempre lontano per mesi, di quei sue due figli sapeva davvero poco e si era perso tante di quelle tappe della loro crescita! Ma per fortuna c’era lei, lei sola a prendere decisioni per tutti, a tirare avanti la casa, a combattere con i problemi quotidiani, a far quadrare i conti, ma si, lo sapeva fin dall’inizio cosa significava sposare un uomo che appartiene al mare: lo aveva accettato per il grande amore che l’aveva trasportata nelle sue braccia ancora ragazzina e per questo, per sua figlia desiderava un avvenire diverso, un uomo che sapesse starle vicino e proteggerla, qualcuno che potesse crescere insieme a lei, ma con Luna questi argomenti non li si poteva proprio toccare. “Ma dai mamma, non ti preoccupare, vedrai che sarai fiera di me, vedrai che avrai tanti nipotini e che vivremo qui per sempre tutti felici, anche papà, che tra qualche anno andrà in pensione!!” L’ottimismo di quella ragazza la confortava da un lato, ma la preoccupava dall’altro perché si ostinava a non capire che non sempre le cose vanno come uno immagina, a volte certi fatti di mettono davanti una realtà completamente diversa e devi essere in grado di accettarla ed affrontarla. Luna lei, a queste cose non pensava: le bastava vivere giorno per giorno, sapere che lui era alla Villa e che, ogni qual volta aveva voglia di stare con lei poteva chiamarla e lei, a cavalcioni del suo scooter, qualunque ora o giorno, lo raggiungeva. Beninteso, non c’era una storia d’amore fra loro: Michael adorava la compagnia di quella ragazzina così entusiasta della vita, così amabile e, avendo nonostante età diverse un gruppo di amici in comune, ogni occasione era buona per ritrovarsi, andare al mare insieme ospiti della sua “barca”, vivere spensierati quei pochi e unici momenti di vacanza che lui poteva concedersi quando non conduceva la sua azienda. Ma dopo quell’anno, non c’erano più state feste, incontri, scampagnate: era morto Alex e con lui tutta la vitalità e gli affetti di quel gruppo. Ma il perno centrale della vicenda era Giovanna. Alta, bionda, elegante, era la sua ragazza già da due anni. Michael aveva sperato che nel gruppo la scelta della giovane donna cadesse su di lui ma così non era stato e, da galantuomo com’era aveva ceduto il passo all’amico comportandosi come se nulla fosse. Ma quella sera qualcosa aveva per sempre turbato gli animi di tutti, ma soprattutto quello di Michael, che, quando era in compagnia si trasformava in un vero burlone. Anche in quell’occasione aveva deciso di animare la festa con un bel fiasco di chianti fresco, una grigliata alla paprika ma soprattutto prendendo di mira la Giovanna che paziente sospirava nell’attendere il suo amato che avrebbe tardato alla cena perché impegnato al cantiere edile dove lavorava come geometra.

“Facciamo il gioco del telefono, come me da bambino….” Aveva detto porgendo a Giovanna il suo telefono con i pupazzetti azzurri e la cornetta arancione e sul davanti un quadrante con i numeri a forma di muso d’orso “suona, ecco Alex…oh si mia amata, resisti sto arrivando da te….” proclamava come un attore consumato Michael porgendo il buffo aggeggio a Giovanna che lo respingeva ridendo mentre Vincenzo riprendeva la scena con la telecamera “lo faremo vedere ai tuoi figli e poi anche ai tuoi nipoti!!!Sai che risate su noi matusa si faranno!!” Urletti, incitamenti, rumori generali, applausi fischi giungevano da ogni parte della grande tavolata sotto il fresco pergolato della Villa. Il giocattolo emetteva un trillo metallico come tutti i telefoni a disco di una volta; ricordava la sveglia enorme che il Bianconiglio della favola di Alice portava appesa al collo per ricordargli che era sempre troppo in ritardo. Dopo pochi minuti nel chiasso generale si percepì un vero squillo : il telefonino di Giovanna continuava a suonare e lei, dopo appena due secondi che aveva schiacciato il tasto della risposta e ascoltato le prime parole che le furono pronunciate dal misterioso interlocutore, si era alzata di scatto, il volto era diventato pallidissimo e tremante, nel silenzio quasi irreale che si era creato fra gli ospiti, si era appoggiata al tavolo per poi crollare a terra priva di sensi, sorretta dalle forti braccia di Bruno che le stava accanto e di Michael che si era tolto la maschera da buffone dal volto percependo che qualcosa di terribile era stato comunicato alla sua amica.

Alex era caduto da un ponte di legno sull’impalcatura al cantiere: le cinghie di protezione per una tremenda fatalità avevano ceduto o forse non erano state da lui ben fissate per la fretta di sbrigare l’ultimo controllo prima di partire. Da quel momento la vita per tutti quei giovani non era stata più la stessa; solo Luna quella sera non era presente perché in visita al padre attraccato con la sua nave in un porto vicino e, di quell’evento tragico ne aveva sempre udito il racconto da parte di chi, purtroppo vi aveva partecipato, ma per un brevissimo periodo, perché poi un pesante clima di chiusura emotiva si era creata fra gli amici, che, non si erano più ritrovati sino a quella sera di settembre alla Villa. Non avrebbero partecipato tutti a quella serata, sarebbero stati appena otto, questa volta compresa Luna che era eccitatissima perché aspettava con ansia di conoscere la novità che Michael aveva deciso di comunicare ai suoi ospiti. Cosa più importante però, e che ci sarebbe stata Giovanna. Michael teneva molto a riavvicinarsi a lei, dopo quella parentesi di due anni, anche perché si era sempre sentito in colpa per aver simulato una telefonata grottesca alla quale poi, sarebbe seguita quella dei carabinieri sul luogo dell’incidente, dove, nel taschino della vittima avevano trovato il numero della ragazza scritto a numeri giganteschi con l’appunto quasi profetico : “Avvertire, ancora ritardo”. A quell’appuntamento Alex non riuscì a presentarsi più.

Sarebbe stato un week end all’insegna della morigiatezza, dell’amicizia ritrovata, soprattutto con Giovanna. Michael desiderava più di ogni cosa spazzare via ogni ricordo della sua buffonata di quella sera: si sentiva in colpa per aver scherzato a quel modo un attimo prima della telefonata che aveva spezzato ogni speranza ai due giovani che avevano in progetto di sposarsi entro la primavera. “mi aiuterai a gettarmi alle spalle quell’episodio? Devi farmi un piacere enorme Luna…lo so che ti sembrerà pazzesco ma nessun altro riuscirebbe a capirmi…solo tu” quelle frasi pronunciate al telefono da Michael erano bastate per far precipitare Luna alla Villa per quel week end dopo aver organizzato tutto nel giro di pochi giorni: bigliettini d’invito, contatti su facebook, e-mail riuscendo a radunare buona parte degli amici. Aveva ordinato cibi e bevande da far recapitare alla Villa e pensato anche a qualche addobbo, di tono sobrio ed elegante, come i piccoli lampioncini dalla forma antica e dai colori tenui, i tovagliolini di carta con ricami raffinati, i piatti di plastica decorati a mano…per Luna Michael avrebbe fatto qualunque cosa, lo amava con un trasporto tale da dimenticare qualunque altro impegno o dovere per stargli accanto e strappargli un sorriso.

Quel primo pomeriggio, in attesa degli ospiti si erano fermati alla spiaggetta. Seduti su un grosso scoglio, lui aveva spiegato a Luna come avrebbe potuto aiutarlo “seppellirai quel giocattolo in un luogo a me sconosciuto..non riesco a gettarlo via, è un ricordo di mia madre, del nostro gioco..lei mi diceva “mentre sono in ospedale, ogni volta che vuoi parlare, fai trillare il telefono dell’orsetto, alza la cornetta e sentirai la mia voce, come se io fossi li con te a rimboccarti le coperte..” Gli occhi di Michael erano lucidi e umidi di lacrime “io tutte le sere facevo come lei mi diceva, e sai, ci credevo a tal punto, tale era il mio desiderio di averla con me, che la sua voce, certe volte, la sentivo davvero…” Luna lo fissava in silenzio, poi d’istinto gli prese la mano “io ti credo…a volte nell’ingresso sento la voce di mio padre che ci chiama, come quando torna dai suoi viaggi, sento anche l’odore del tabacco della sua pipa..penso che succeda così quando ami qualcuno ed è lontano” la voce di Luna era diventata quasi impercettibile, sovrastata dal rumore del mare. “Le mie ossessioni mi faranno diventare pazzo!” aveva esclamato d’un tratto lui alzandosi di scatto. Lei gli circondò la vita con le braccia “non dire così, mai.. finchè ci sarò io”. I suoi capelli profumavano d’ortensia, il suo corpo sembrava talmente minuto ed esile abbracciato al suo. Lui posò dolcemente le labbra su quelle di lei, poi, le sussurrò “andiamo, abbiamo ancora tante cose da fare prima che ci raggiungano gli altri!” lei, confusa, con il cuore che sembrava balzarle nel petto annuì.

Il giocattolo Luna lo seppellì nell’orticello dietro la Villa, assicurandosi che nessuno, ma proprio nessuno la vedesse. Risalendo la strada, udì il rumore della prima auto che arrivava, con un leggero anticipo rispetto l’ora concordata. Erano Vincenzo e Marika, la sua nuova ragazza; fu per caso che udì le parole di lui mentre stringeva la mano a Michael “ci saremo tutti o quasi no? – gli aveva domandato aggiungendo poi – anche quella ragazzina…la biondina che era venuta con noi al bowling e anche quella volta all’escursione..è così simpatica, carina..eh…la gioventù!!” quest’ultima frase la sottolineò con un saltello “ecco vedi, alla nostra età si perde già l’equilibrio!!” Marika, dalla folta capigliatura rossa gli stampò un bacio dicendogli “ma va, parla per te, ho appena 28 anni..io…!” In effetti Vincenzo era il più vecchio del gruppo, avendo passato i trenta da qualche anno, ed era la prima volta in effetti che si accompagnava con una donna più giovane di lui, di solito era il contrario, “hai una verta passione per le attempate eh amico mio” gli diceva spesso Michael in tono scherzoso ma non troppo. Luna aveva colto in quella parola “ragazzina” per la prima volta una realtà che le era sempre sfuggita sino a quel momento, e si sentì profondamente a disagio, riflettendo sul fatto che in effetti, a persone sulla soglia od oltre i trent’anni lei, appariva proprio così, una ragazzina, magari anche goffa e sciocca. Si domandò come la pensasse Michael a riguardo ma lui non rispose nulla in quel momento all’amico e andò ad accogliere altri amici che nel frattempo erano sopraggiunti. Luna fece velocemente una doccia e poi si cominciò a preparare: aveva indossato un abito bianco, con un bel ricamo sul davanti; i capelli tirati su e raccolti in un fermaglio d’argento e strass, un trucco leggero, una spruzzata di chanel. Era davvero incantevole, da togliere il fiato. Lei però sembrava neppure rendersi conto di quel suo fascino, era semplice nei gesti, nei modi, neppure la sfiorava il pensiero di poter turbare alcuno: non aveva ancora avuto nessuna storia, niente amori, niente sesso; viveva ancora la vita sospesa fra l’adolescenza e l’infanzia e poi, dentro di sé sapeva che avrebbe potuto appartenere solo ad una persona. Chissà…forse un giorno. Dopotutto prima di quel momento lui non l’aveva mai baciata sulle labbra: qualcosa le faceva credere che la serata sarebbe stata magica e preparò, legandosela al braccio, la catenina che aveva in serbo di regalare a Michael prima dell’inizio della serata, magari ancora dopo, ritagliandosi un momento tutto per loro, prima di ritirarsi nella camera degli ospiti, oppure..il pensiero la imbarazzò talmente che avvertì un brivido lungo la schiena, come mai le era accaduto, ed era la seconda volta in quella giornata!

Mentre si sostava nel pergolato dietro la casa, sorseggiando l’aperitivo prima di entrare, lui la intravide avvicinarsi e provò l’istinto di rapirla, portarla con sé, stringerla forte, dirle che aveva compreso che ormai, senza di lei la sua vita non sarebbe mai più stata la stessa. Era così bella Luna, la vide come una donna ormai, quella donna sbocciata nel giro di pochi mesi d’estate, quell’amica che lui, quel pomeriggio aveva baciato con delicatezza, per paura di offendere i suoi sentimenti, la sua giovane età; aveva capito l’innocenza di lei e non voleva in alcun modo essere invadente. Aveva compreso d’amarla ma dieci anni di differenza possono essere davvero tanti e forse lei poteva avere paura d’impegnarsi così presto. Oh se solo lei avesse potuto leggere nella sua mente quel momento…invece in quell’istante si udì un trillo, poi un altro. Le persone si guardarono, poi cercarono i propri cellulari. Luna sobbalzò, anche perché era sicura di aver tolto le pile da quel maledetto giocattolo. Poi pensò alle parole di Vincenzo “quella ragazzina” ecco, Michael si era fidato di lei e non avrebbe mai dovuto, una ragazzina maldestra e con troppi romanzetti in testa! La decisione presa in una manciata di secondi…lo scooter messo in moto, lasciandosi alle spalle tutto e tutti, la corsa folle con le lacrime agli occhi che le annebbiavano la vista, la parola ragazzina che le martellava il cervello come un chiodo battuto migliaia di volte nello stesso punto, fino a diventare sempre più piccolo, ma sempre più conficcato e doloroso. Il vestito svolazzava ad ogni accelerata, il casco rosa tutto brillantini e adesivi abbandonato nel portapacchi. Fu un attimo quello stop disatteso, il camion che come un mostro vorace le si era parato d’improvviso davanti.

Di lei lui volle ricordare per sempre l’ultima bellissima immagine, immortalata con il telefonino mentre avanzava ignara di quel tumulto che in quel cuore già tanto provato aveva suscitato, inconsapevolmente, come sempre. Non fu più capace di vivere a Villa Marinella, che orgogliosamente era stata chiamata così dal padre in memoria della compianta moglie che a suo modo, pur provenendo da culture e Paesi così diversi aveva amato fino allo spasimo, cercando di fare qualunque cosa per sconfiggere quel male tremendo che glie l’aveva ingiustamente strappata troppo presto. Per questo motivo Michael riteneva di conoscere bene l’amore: egli era la prova vivente che ne esistono di davvero grandi e meravigliosi, che neppure la morte riesce a sconfiggere. Prese così la stessa decisione del padre, incapace di vivere fra tutti quei ricordi dolorosi, incapace di sopportare quel paesaggio che nella sua bellezza, vivacità e solarità le avrebbero per sempre portato alla mente le uniche donne che aveva veramente amato e che le tenebre e il freddo della terra avevano ingoiato senza pietà. L’aereo era appena decollato verso la Gran Bretagna.

Villa Marinella diventò Villa Gloria, dal nome della figlia della nuova proprietaria, una bambina tutta ricci, bionda con gli occhi chiari, vivace, tutta pepe e mossette. Le manine curiose avevano trovato nell’orto, mezzo sepolto il giocattolo della discordia.”lo posso tenere mamma?” la donna mentre ordinava agli operai dove sistemare le ultime casse e mobili del trasloco rispose di sì, che poteva tenerlo e dopo averlo avuto in mano aggiunse che mancavano le pile per farlo suonare, sempre che avesse ripreso a funzionare, così vecchio e malconcio.”Con tutti i bei giocattoli che hai, vai a prendere questa roba, Mah” La bambina alzò la cornetta e si tese all’ascolto “ma no, mamma, parla anche senza le pile!” aveva gridato festante mentre la tata la prendeva in braccio per portarla in casa. Il gioco del telefono non si era mai interrotto. Fantasia, magia dell’infanzia, forse. La maledizione di casa Romani partiva con il suo unico erede, nella speranza che la morte lasciasse per sempre le mura di quella casa, accogliendo solo il calore dei raggi del sole e di tutto quell’amore che anche se per breve tempo, negli anni l’aveva irrorata.


Il portale

Marco indossò i suoi occhiali firmati e si mise ad esaminare le possibilità che gli rimanevano: Sulla carta, la sua vita sembrava andare alla grande. Aveva ancora in banca svizzera quei quattro milioni di euro che aveva ereditato alla morte dei suoi genitori. Era un veterano della guerra in Iraq, e un tiratore a livello olimpionico. Era in grado di nuotare, sciare, danzare, suonare la chitarra e correre la maratona. Non aveva figli e sua moglie aveva appena chiesto il divorzio per essere, come diceva lei, “fanatico, vendicativo e totalmente assorbito da se stesso”. E oggi, il suo dottore gli aveva assicurato che lui, Marco, sarebbe morto entro sei mesi.

“Mi creda, non sa quanto sia stato difficile per me comunicarle l’esito di questi esami. Fino all’ultimo ho sperato di aver commesso il primo errore della mia lunga carriera. Sappia comunque che rimarrò sempre a sua disposizione per qualunque decisione lei vorrà assumere nei confronti delle cure e del ricovero nella mia clinica come le ho prospettato prima.”

Il Dottor Lenzi era davvero sincero e gli strinse con vigore la mano prima di congedarlo: nella sua vita di medico non era la prima volta che si vedeva costretto a dare purtroppo una notizia così tragica ad un suo paziente. Perché in fondo si trattava di un ultimo verdetto, una condanna a morte, non facile da pronunciare e non facile da udire.

“Le farò sapere, grazie, Dottore, ho bisogno di riflettere, adesso, di pensare a tante cose, di stare un po’ da solo. Mi capisce vero?” -“Non si preoccupi – rispose il Dottor Lenzi, si prenda tutto il tempo che le serve, ma non corra rischi inutili, mi raccomando, per qualunque cosa, mi chiami al numero che le ho scritto, sono sempre reperibile”.

Marco ringraziò ancora il medico e poi s’incamminò verso il lungo corridoio e l’ascensore. Si specchiò in una vetrina, appena uscito in strada, e, inaspettatamente, per la prima volta vide un uomo più vero, più consapevole.

Mentre assaporava il primo sole primaverile scaldargli il viso, si sedette su di una panchina: respirò a fondo e cominciò a riflettere su ciò che gli aveva detto il Dottore, e si sentì di colpo così patetico: non lo avevano ucciso gli attentati, le imboscate e i conflitti a fuoco con i guerriglieri, durante la guerra in Iraq, ed ora, un millesimale nemico lo stava annientando.

Ridicolo. Sorrise amaramente. Non aveva voglia di tornare a casa nel silenzio di quelle due stanze prese in affitto e continuò la sua camminata.

“Uno grazie” disse alla cassiera e attese come gli altri che si aprissero le porte per l’ingresso in sala. Era tanto tempo che non andava al cinema: durante il fidanzamento con Alessia, sua moglie, ci andavano molto spesso, e anche nei primi anni di matrimonio.

Poi tutto era cambiato quando aveva intrapreso la carriera militare, la promozione e tornato dalla guerra, la morte dei suoi genitori in quel terribile incidente qualche anno prima, i soldi dell’eredità, che anziché assicurargli un’avvenire agiato, ora gli servivano per ridurre al minimo i sintomi del suo male e per pagare la causa del divorzio.

Si sedette in poltrona, il velluto rosso esaltava il colorito pallido del suo viso.

La sala cinematografica sprofondò nel buio e lui si accorse che una grossa lacrima scivolava lungo le gote.

Non appena ci fu l’intervallo, di quel film del quale non avrebbe neppure ricordato il titolo, decise di andare alla toilette: aveva bisogno di rinfrescarsi, sentiva il collo bruciare e le tempie scoppiare.

Attraversò chiedendo educatamente permesso, la fila di poltrone occupate, e, finalmente, potè chiudere dietro di sé la porta del bagno. Ma qualcosa d’inspiegabile lo distolse subito dal primo momento che fece scorrere l’acqua fresca sui polsi, che se la gettò sul viso.

Uscì come attratto da qualcosa che lo stava chiamando, un richiamo insistente lo portava per un corridoio semi buio, ad aprire una porta bianca, a fare scalini, ad aprire altre porte, a finire in una saletta dalle pareti chiare e con qualche poltroncina al centro, di pelle e tutte ben allineate.

Si sedette come un automa, mise il viso fra le mani, poi si toccò nervosamente i folti capelli castani, come faceva da piccolo quando qualcosa o qualcuno lo imbarazzava.

Sentì pronunciare il suo nome e trasalì: sudava e cominciarono a tremargli le gambe.

Si stupì, aveva affrontato così tanti pericoli, ora reagiva come uno scolaretto impaurito.

“Signor Bruni, venga, le voglio mostrare una cosa….” Un uomo anziano entrò nella stanza e al suo fianco lui, cioè un altro lui, cioè sé stesso, cioè non sapeva cosa pensare, se non di avere le allucinazioni: forse un primo sintomo del suo male si era già presentato.

Il Marco Bruni che attraversò la stanza e l’altro uomo non lo videro neppure, si appoggiarono ad uno scaffale e cominciarono a leggere delle carte che vi erano appoggiate sopra.

“Vedrà ora che ha messo su famiglia, niente di meglio per lei rilevare anche questa attività.

E’ senz’altro un grande affare per investire i suoi soldi: come può vedere gli affari vanno a gonfie vele, e non sentiamo il peso della concorrenza”.

Lui, o meglio l’altro lui osservava con cura le carte per poi rispondere all’uomo anziano che si, la cosa lo interessava e che appena tornato a casa ne avrebbe parlato subito a sua moglie :”lo sa com’è mia moglie Alessia, si preoccupa sempre per me, io voglio offrirle il meglio ora che aspetta un bambino. Lo abbiamo voluto tanto…..” disse.

Il Marco che parlava indossava un completo elegante, aveva i capelli leggermente più corti e un sorriso amabile.

Erano due gocce d’acqua, ma, sbigottito il Marco che stava per divorziare e morire non aveva mai pensato di investire la propria eredità in una multisala, né sua moglie Alessia era mai stata incinta. Continuava a sudare e un senso di nausea gli attanagliava lo stomaco, mentre i due continuavano a chiacchierare amabilmente uscendo dalla stanza.

Gli erano passati davanti e non si erano assolutamente curati di lui, che li seguì, come calamitato da una forza invisibile, sino al corridoio, camminando dietro a loro, ascoltando parola per parola, quello che si dicevano.

– ” Ha fatto bene signor Bruni a rifiutare quell’incarico in Iraq: un lavoro amministrativo è senz’altro meno rischioso. Soprattutto ora che ha messo su famiglia sul serio” gli disse l’uomo toccandogli la spalla amichevolmente – “Già, Alessia non me lo avrebbe mai perdonato. Mia moglie l’ho appena riconquistata e non voglio perderla più” diceva il Marco abbronzato, con il viso sereno e l’andatura sicura. “poi, ci saranno anche le gare di tiro al piattello per le regionali. Ho tanta voglia di rimettermi in pista! Dio come può essere esaltante la vita a volte, signor Armandi!” L’uomo gli rimise la mano sulla spalla “Anche per me fu così…se solo mia moglie non fosse morta così prematuramente. Avevamo molti progetti. Lei è un uomo fortunato, glie lo dico davvero signor Bruni, davvero fortunato”.

Le tempie ora non stavano solo scoppiando, tutto il suo corpo sembrava dover esplodere da un momento all’altro. Poi, prima incredulo e poi terrorizzato, Marco, quello che non stava comprando una multisala, quello la cui moglie non era incinta, quello che stava per morire entro sei mesi, quello cui nessuno gli avrebbe dato del fortunato se non per il suo conto in banca, vide l’uomo anziano passare attraverso una porta specchio e scomparire, l’altro Marco fare altrettanto ma da un’altra porta a specchio a pochi passi di distanza dall’altra.

Non seppe come successe ma, lo seguì. Il suo corpo era come se non possedesse né più forma né più peso, né materia, e, precipitò in un imbuto colorato nel vuoto, leggero come una piuma.

Si trovò in un salotto ben arredato e luminoso, seduto sul divano “ciao amore” si voltò, Alessia lo baciava delicatamente sulle labbra, lui le accarezzava il pancione.

Mancava poco al parto “finalmente Dario nascerà, ci pensi tesoro?” lei era bellissima, con i suoi capelli scuri mossi che le incorniciavano il viso, gli occhi così splendenti non glie li aveva visti mai ad Alessia, il Marco seduto sul divano a vedere sé stesso abbracciare felice sua moglie.

Lo percossero dei brividi assurdi, si sentì gelare il sangue nelle vene. La bocca era secca, il respiro affannoso. Pensò : muoio.

Dario era il nome di suo padre, ora di suo figlio. Così sarebbe andato se…”pensi solo a te stesso, sei un bastardo e un irresponsabile, ti odio, sei anche diventato manesco, non lo voglio un soldato in casa: cosa vuoi fare, sparare anche a me? Strangolarmi forse? Se non mi togli subito di dosso le mani urlo così forte che la Marta ti sente e chiama la questura.

Lo sanno tutti cosa sei diventato. Un folle, un

perverso! Domani vado dall’avvocato e chiederò non solo la separazione, ma il divorzio, subito!” Un’altra Alessia, un altro Marco, lui minaccioso, con le labbra serrate, lei davanti a lui, senza pancione, con un vaso in mano pronto da scaraventargli addosso, erano comparsi come ombre cinesi sulla parete di fronte.

Si tappò le orecchie il Marco Bruni seduto sul divano. Poi seguì il Marco che abbracciava sua moglie mentre si recava sul terrazzo.

Erano così vicini, così innamorati, così veri che, lui si commosse nel guardarli, senza pensare che stava guardando sé stesso, ma come se davanti a lui ci fossero due sconosciuti.

Stava guardando un film, ora ricordava era il film….ma no, Marco, era rientrato in casa e ora, lo stava chiamando con un cenno della mano.

La testa era più leggera adesso, le gambe non tremavano più. “non disperare- gli disse – non vedi come è qui la tua vita? Hai mai pensato che non esiste un solo mondo, un solo tempo e un solo destino?” Il Marco che in tasca aveva ancora le analisi mediche scuoteva la testa.

No, non aveva mai sentito nulla di simile. A lui sarebbe bastato avere ancora una vita, perché il conto alla rovescia era iniziato.

“Noi scegliamo una persona ogni scadenza di secolo e gli offriamo una nuova possibilità. Un modo per riscattarsi: non attendere oltre, la clessidra del tempo a tua disposizione si sta esaurendo. Vai”. Non se lo fece ripetere, Marco quell’ordine e si precipitò dalla donna che lo accolse fra le sue braccia. Fu solo un istante, e lui entrò a pieno diritto nella sua nuova esistenza senza neppure chiedersi chi intendesse, l’altro sé stesso, con quel noi. A terra, spazzato da una folata di vento gelido, rimase un foglietto spiegazzato con la data presunta del ricovero in clinica. Da oggi, a Marco Bruni, non sarebbe servito più.


DESTINI INCROCIATI

Tutti – o quasi – i giovani attendono dal futuro qualcosa di inaspettato, coinvolgente, fuori dal comune: un’avventura da raccontare agli amici, da scrivere su facebook, da condividere su hutube.

Elisabeth di certo non avrebbe mai immaginato però che quella straordinarietà avrebbe cambiato completamente il corso della sua vita, quello che sembrava un destino già scritto nelle stelle: scuola di danza, lezioni di violoncello, liceo, Università, matrimonio con il figlio dell’amico fidato del padre con il quale hai vissuto gomito a gomito tutta l’infanzia e l’adolescenza.

L’aveva vista camminare di fretta e scendere a tre a tre i gradini della metro, avvolta dall’elegante cappotto rosso con il collo di bianca pelliccia, i guanti in tinta, i capelli raccolti da un nastro di raso: lunghi, ondulati, castani chiari. Era giovane Elisabeth, sedici anni appena compiuti: niente trucco, niente appariscenze; una ragazza dal viso pulito e dall’animo intatto.

Una rarità. Una vera perla. La madre e il padre l’avevano desiderata tantissimo quella figlia: si erano sposati giovani, con tanti sogni da realizzare, e la vita con loro era stata generosa, esaudendoli tutti. Tutti meno quelli di un figlio, giunto poi, quando non ci speravano più, dopo sedici anni di matrimonio. Adorata, amata, vezzeggiata ma non viziata. Così tenevano a dire tutti i parenti, ed era vero: Elisabeth non aveva mai fatto capricci nemmeno da piccolissima; saggia e matura, da subito e senza che nessuno in famiglia le facesse pressione, aveva scelto l’amore per la musica, la raffinatezza, l’eleganza nei modi, la finezza e l’educazione.

Frequentava una scuola religiosa privata e abitava in una villa circondata da un giardino con piante profumate orientali, piscina, vasca idromassaggio, sala tv, sala per prove di danza, perfino una sala di registrazione. Tutto quello che si può desiderare a portata di mano, ogni giorno. Così come ogni tre giorni lei andava in centro città per la lezione di violoncello: due pesanti ore di solfeggi e brani in duetto con un bravo pianista suo compagno di corso.

Lui l’aveva seguita fino a casa, aveva spiato dentro al giardino, aveva assistito a momenti della vita della giovane arrampicato su di una piante antistante il cancello. L’aveva desiderata subito quella virginale bellezza. Ma dentro di sé sapeva che uno come lui, con una come lei non avrebbe avuto alcuna speranza. Lui però era abituato a prendersi con la forza qualunque cosa e non lo spaventava correre rischi di nessun tipo. Vissuto per strada dall’età di otto anni in mezzo a balordi di tutte le specie, si barcamenava di espedienti, furti, piccole rapine e raggiri di ogni tipo, passando dalle comunità alloggio, agli affidi familiari, al riformatorio e al carcere minorile in ultimo, sino al compimento della maggiore età. Quella da poco assaporata libertà sapeva però che non sarebbe durata molto. La voleva a tutti costi e per ora quello era il suo principale obiettivo: a come campare dopo la detenzione ci avrebbe pensato in seguito.

Era un bel giovane, Harry: occhi scuri, pelle chiara e capelli biondi cenere mossi sulle spalle. Mascella larga, alto, muscoloso, fossetta sul mento. Gli avevano detto spesso che avrebbe potuto fare il modello o l’attore, ma a lui interessava vagabondare, taccheggiare, vivere in strada senza compromessi con nessuno, prendendosi appunto tutto ciò che voleva senza chiedere: se hai un lavoro non puoi più fare come ti pare! L’avevano abbandonato appena nato, non conosceva chi l’aveva generato e poco gli importava di tutto: troppi anni in istituti e false famiglie, interessate maggiormente a riscuotere l’assegno di previdenza piuttosto che amarlo davvero.

Ora voleva lei e l’avrebbe avuta. L’attese nel corridoio affollato della metro. Le si affiancò come un passante qualsiasi, la urtò, le chiese scusa guardandola dritta negli occhi, scuri come i suoi, profondi, bellissimi. L’attirò a se per un braccio e prima che lei emettesse qualunque suono, le puntò un coltello all’altezza del fianco. Ne percepiva la punta farsi strada nella stoffa, Elisabeth e quell’urlo rimase soffocato da quel momento per tanto e tanto tempo ancora. Ma lei, questo non lo sapeva. Respirava affannosamente mentre lui la guidava verso la direzione opposta, scendeva le scale mobili, le risaliva, la spingeva oltre le porte del vagone del treno, la guardava intensamente tenendola stretta, sussurrandole di non fiatare altrimenti il coltello l’avrebbe trapassata, e spingeva, spingeva la lama sempre più vicino al corpo di lei. All’apparenza, con lui che la teneva al braccio, cingendole la vita sembravano una coppia qualsiasi: lui spiava ogni suo sguardo per paura che lei cercasse di fare intuire qualcosa a qualcuno, e quando una giovane aveva incominciato a fissarli forse perché aveva colto sul viso di lei paura, tensione e una visibile differenza di stato sociale fra i due improbabili “fidanzati” scese subito alla prima fermata per prendere un convoglio successivo. Lei, mentre erano nell’atrio in quel momento semideserto data la linea periferica meno trafficata, gli propose di dargli tutto il denaro che aveva in quel momento, gli orecchini, il braccialetto, l’anello. Ma lui, guardandola maliziosamente le aveva detto fiero “sei tu che voglio, queste cose me le posso prendere in qualsiasi momento da chiunque, una come te non mi ricapita più”. Copiose lacrime scesero dalle guance di lei e in quell’attimo suonò il cellulare. Lui fu velocissimo a farglielo cadere a terra dopo averlo sottratto dalla sua tasca, gli sferrò un calcio e lo gettò sui binari. Adesso non ti serve più. Pensò. Stai con me. Arrivava della gente e le intimò il silenzio, puntandole sempre con maggior pressione la lama sul fianco. Lei provò dolore e lui la ritrasse un poco: le sorrise e la invitò a fare lo stesso. Stava calando la sera ne il treno li aveva condotti all’estrema periferia della città. Si fermò ad una cabina telefonica, ci manovrò duramente sino a quando le porse la cornetta intimandole di chiamare un’amica e dirle di confermare ai suoi genitori che per quella notte si sarebbe fermata a dormire a casa sua. “Verificheranno, non ho molte amiche…” provò a convincerlo “e poi il cellulare…alla terza volta che non rispondo, i miei li conosco, vanno in apprensione, faranno una denuncia dei scomparsa fra meno di un’ora..il maestro gli e lo dirà che sono già uscita da un pezzo da casa sua, ti prego, lasciami andare” Lui l’afferrò per i capelli e le sbattè la testa contro la parete della cabina “te lo puoi scordare, fai quello che ti ho detto e vedi di essere convincente…chiama la tua amica e dille che stai con un ragazzo e non vuoi dirlo ai tuoi…fatti coprire, insomma…vedrai che funziona, dille di dire che hai il cellulare scarico, ti crederanno, tu non racconti mai bugie, o sbaglio?” Tremava Elisabeth: il colpo alla testa l’aveva quasi intontita, si sentiva bruciare il viso come se avesse la febbre alta “non ho mai fatto una cosa simile, Dorianne non mi crederà mai “e tu sii convincente, no?” Se vuoi io so esserlo per davvero, sai alle donne faccio credere qualunque cosa..” rise e poi, quando lei cercò di calmare la voce per spiegarsi con l’amica, dopo le prime tre frasi per tranquillizzarla che non le era accaduto nulla di male, lui afferrò il microfono “sono un amico di Elisabeth, tu non mi conosci, io frequento una scuola dell’East Side, voglio stare un po’ solo con lei, tu capisci, e il nostro primo appuntamento, i suoi magari si preoccupano per nulla, andiamo solo a ballare, ma sai i locali aprono tardi..fammi questo piacere Dorianne..” concluse lui. “va bene, non mi presterò più però a una cosa del genere, sai che i miei non sono molto teneri, se ci scoprono passiamo dei guai tutti e due, e anche il tuo amico” disse Dorianne quando risentì la voce dell’amica che la ringraziava prima di chiudere la comunicazione. L’insolita conversazione però non aveva per nulla convinta: conosceva Elisabeth da quando frequentavano l’asilo e non la riteneva capace di mentire ai suoi, di scappare in piena notte a ballare con un amico, uno che neppure si era presentato. Aveva una voce virile, profonda, diversa dai ragazzi loro coetanei frequentati di solito. Non le sembrava possibile e, anche a costo di tradire la sua amica decise di confidarsi con sua madre, ed entrambe presero la decisione di avvertire i genitori di Elisabeth.

Giunsero alla polizia verso le dieci di sera, dopo aver fatto ancora per sicurezza un giro di telefonate alle altre amiche della figlia, ma nessuno era al corrente di nulla, e tanto meno avevano mai sentito parlare di un ragazzo di un’altra scuola: Elisabeth non si era confidata alcuna di loro e, i genitori sapevano che la loro figlia non era solita a brogli del genere. Fu più difficile convincere gli agenti, che tentarono non una sola volta di spiegare con una sorta di psicologia spicciola che i figli, a quell’età i genitori credono di conoscerli, ma poi, ecco che salta fuori qualche sorpresa, che non c’era da preoccuparsi e che la ragazza era in compagnia di questo amico a divertirsi in qualche locale. “Tornerà domani mattina e chiarirete la faccenda. Niente uscite per un mese, niente paghetta, niente amici per un po’” Il padre di Elisabeth s’impose “no, ho giusti motivi per pensare che mia figlia è da qualche parte là fuori in compagnia di qualcuno contro la sua volontà..è sicuramente stata rapita: avete sentito Dorianne poco fa, ha ammesso che Elisabeth sembrava confusa, incerta, ha perfino percepito alcuni fremiti nella sua voce. Ma proprio in quel momento squillò il cellulare della madre, quello a cui, Elisabeth faceva sempre riferimento. Era certa infatti che Dorianne non le avesse creduta e non avesse accettato di coprirla, perciò convinse il ragazzo che sarebbe stato meglio avesse confermato ciò che lui aveva detto alla sua amica poco prima “pronto..mamma sono io, volevo dirti di non preoccuparti, sono con un mio amico, Tommy..siamo in un locale..poi ti spiego, non so se rientro domani..ho il cellulare scarico, mi faccio sentire io.. ti chiedo scusa per aver inventato una bugia, ho solo voglia di divertirmi un po’.. ciao”. La ragazza non aveva dato alla madre il tempo di rispondere, mentre concitata le domandava “Elisabeth, dove ti trovi? Ti veniamo a prendere subito, oppure chiama un taxi, fatti portare a casa..ti aspettiamo, Elisabeth! Mi hai capita?” lei continuava il suo monologo: questa volta con il coltello puntato alla gola. “Tieni Craig” disse Harry all’amico porgendogli il telefonino. La musica in quel locale era davvero alta, ed Elisabeth aveva dovuto gridare per farsi sentire dalla madre, che ora, pallida in viso era sorretta dal marito “pare proprio che sia come dicono i signori…Elisabeth ha appena chiamato da un locale: si sentiva una musica assordante. Ha detto di essere in compagnia di un certo Tommy…”

“Vede, signora? – la rincuorò l’agente – sua figlia se la sta spassando in qualche discoteca o a una festa con il suo amico Tommy. Tornerà a casa domani, o come fanno molti ragazzi anche fra qualche giorno, c’è di mezzo un intero week end!” Il numero comparso sul cellulare della donna però, dopo un rapido controllo risultava appartenere alla scheda di un apparecchio rubato del quale era stata fatta da poco la denuncia da parte del proprietario. “Dio mio, chi sta frequentando nostra figlia?..” sussurrò l’uomo scuotendo il capo e tendendo la mano all’agente “grazie..grazie di tutto” gli disse ed uscirono dal commissariato che stava albeggiando.

Il locale dove si trovava Elisabeth era immerso nel fumo: puzza di liquori e birra ovunque, musica house a livelli insopportabili per un comune mortale e luci ad intermittenza frenetica su una piccola pista da ballo. “Mi sento male” disse la ragazza ad Harry che la teneva sempre al braccio stringendola come in una morsa “fammi uscire da qui” Era davvero sofferente Elisabeth e lui, per nulla impietosito la tirò ad un tavolo “siediti” le disse. Ho un debito e lo devo onorare”. Lei appoggiò per un istante istintivamente la testa sulla spalla del suo aguzzino. Lui cominciò ad accarezzarle i capelli “sei la ragazza più dolce che abbia avuto” lei, ormai pallidissima in volto gli chiese “ti prego, mi gira la testa, ho bisogno di aria” Lui capì finalmente e l’accompagnò in strada. “Grazie” disse lei con un filo di voce. S’incamminarono lentamente, lui aveva finalmente riposto il coltello. Sapeva che in quelle condizioni nessun essere umano avrebbe potuto portare a termine un qualsiasi tentativo di fuga. “sei stanca, vero?” la voce di lui si era fatta calda e gentile in modo inaspettato. Lei lo fissò e lui si perdette nei suoi occhi “si, non sono abituata a stare sveglia la notte” ammise abbassando lo sguardo. Lui le alzò il mento con le dita “io invece non sono abituato a dormire di notte! Pensa che tipi noi due!” Elisabeth lo supplicò di fermarsi perché non riusciva più a proseguire. Un senzatetto si accostò loro e domandò una sigaretta. Il ragazzo ne estrasse un intero pacco dalla tasca e glie lo porse, insieme ad alcune banconote da dieci dollari. L’uomo con lo strano zucchetto verde in testa e un vecchio cappotto quattro taglie più grandi di lui lo ringraziò cento volte, lei pensò che era capitata nelle mani di un pazzo: capace di minacciare con un coltello una ragazza innocente e dimostrare al contempo una grande generosità d’animo con un derelitto. Lui sembrò leggere nei suoi pensieri: “lui ne ha più bisogno di me, in questo momento. Io non ho fatica a procurarmi ciò che mi serve; è vecchio, malato e stanco. Finiscono tutti così quelli che vivono per strada”. Elisabeth annuì “Nessuno dovrebbe vivere in questo modo” disse e a lui parve davvero dispiaciuta e sincera. Ebbe la sensazione che quella ragazza ricca non aveva la puzza sotto al naso e apprezzò che nonostante la situazione, anche senza la minaccia di un’arma lo seguiva senza tentare di aggredirlo, urlare o chiedere aiuto. Pensò che forse aveva incontrato qualcuno di davvero speciale ma che comunque, avrebbe portato al termine ugualmente i suoi piani. Arrivarono davanti ad un vecchio palazzo fatiscente e lui spinse un cancello di ferro arrugginito per raggiungere, dopo una discesa quasi infernale una rampa di scale di pietra che portavano ad una porta di legno lurida e semplicemente accostata. All’interno la stanza era a malapena illuminata da una lampadina appesa al soffitto, il pavimento di assi di legno ondeggiavano sotto i loro piedi. Ovunque piatti sporchi di avanzi di cibo, bicchieri, una branda con alcune coperte gettate sopra e un gas in un angolo, con accanto un lavandino dove, in bella mostra, una pila di pentole maleodoranti e incrostate di lì a poco avrebbero dato il giro a terra.

“Benvenuta nella mia tana, principessa” disse lui e dopo essersi assicurato di aver serrato la porta si accasciò sulla branda. Elisabeth con molta prudenza domandò “il bagno?”. Una fragorosa risata accolse la sua domanda “fuori, nel cortile dietro alla casa” le rispose secco. La ragazza, stremata dalla stanchezza e dalla fame ebbe di lì a momenti un capogiro e si appoggiò a una sedia. “ Aspettami qui” disse lui e uscì chiudendo la porta dall’esterno con interminabili giri di serratura. Elisabeth trasalì: sola in quella stanza si sentì subito impazzire: c’era solo un lucernaio che dava sul marciapiede: piccolo piccolo e vi filtrava fumo e aria maleodorante. Fu attanagliata dalla nausea e avvertì forti dolori addominali: capì che in quelle condizioni non avrebbe resistito a lungo e pensò che la sua vita fosse giunta ormai al termine. Si accasciò in un angolo e iniziò a pregare. Qualunque cosa le accadesse voleva essere pronta ad affrontarla con l’aiuto di Dio. Lui tornò dopo una ventina di minuti che alla giovane parvero interminabili ore. Recava in mano un sacchetto di carta dal quale estrasse qualche biscotto e da sotto il braccio spuntò un cartoccio di latte. Ti accompagno dietro la casa e ti faccio vedere dove sta il bagno. Poi torniamo qui e facciamo colazione” le annunciò, come se si conoscessero da anni, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Le cinse le spalle con le braccia e la coprì con un giaccone che odorava di alcool e tabacco. Il cappotto di stoffa rossa con la pelliccia finì nel primo bidone dell’immondizia “Si ammazzeranno per accaparrarsi questo” disse e alzò le spalle quando lei lamentò di non poter entrare in un posto così sporco e puzzolente“La casa non offre di meglio” le disse chiudendole la porta di legno cigolante alle spalle “vedi di fare in fretta, ho fame!” le disse e si appoggiò con la schiena alla porta “bussa quando hai finito” Le urlò. Elisabeth piangeva a singhiozzi. Riuscì ad espletare il bisogno fisico più impellente sperando di trovare ancora nella tasca della gonna un fazzoletto di carta. Avvertì che qualcosa le stava camminando o strisciando sui piedi. Bussò forte e lui aprì. Con lei, uscì un indefinito essere che emetteva suoni che parevano un miagolio “Jasper!” gridò lui e lo afferrò “ecco dov’eri finito! Vieni che offro la colazione anche a te” Elisabeth tirò un sospiro di sollievo, aveva immaginato ben altra creatura là dentro con lei e, a fianco di lui ritornò alla “tana”. Si sedettero insieme sulla branda con Jasper accanto a loro che leccava avidamente il latte dalla ciotola che lui aveva riempito. Lei la prese e la posò in terra. Il gatto saltò giù a continuare il suo pasto senza lamentarsi. Aveva il pelo nero e bianco e un occhio marrone e uno azzurro; la coda lunga e arruffata con qualche macchia rossa. Elisabeth attese che l’animale finisse la ciotola e poi lo accarezzò. Lui, istintivamente le fece le fusa strisciando sui suoi stivali. “E’ tuo?” domandò lei “non c’è niente di mio qui, nemmeno lui” rispose e l’attrasse a sé. Lei stava ancora sbocconcellandolo l’ultimo biscotto e sorseggiando il latte dall’unico bicchiere pulito che era riuscita a trovare in quel tugurio. Lui aveva riempito una tazza sino all’orlo di uno strano intruglio preso da un padellino sul gas. Lo aveva chiamato caffè ma era davvero un’utopia definirlo così. Il ragazzo d’un tratto estrasse dalla tasca della giacca un paio di manette e rapidamente, prima che lei potesse accorgersene ne legò una al suo polso e una a quella di lei. La chiave la ripose all’interno dei jeans e strizzandole l’occhio le disse “se vuoi liberarti mentre dormo ti autorizzo a cercarla”. Elisabeth cominciò a tirare il braccio verso l’esterno per allontanarsi da lui ma accusò un dolore lancinante al polso. “ti prego, lasciami andare, perché mi fai questo? Non ho tentato di fuggire e non lo farò neppure adesso: non so neppure in quale parte della città mi trovo, ho sonno e non mi reggo in piedi..dove vuoi che vada?” Lui rispose che nella vita aveva imparato a non fidarsi di nessuno e che, comunque per quella giornata gli andava di legarla a sé . Elisabeth acconsentì anche a questa imposizione, come avrebbe potuto osare contrastarlo? Non lo conosceva, non sapeva fino a che punto avrebbe sopportato una sua ribellione. Dopotutto aveva sempre con sé il coltello e lei aveva intuito che non si sarebbe fatto alcun scrupolo ad usarlo contro chiunque.

Perciò, cercò di girarsi sul fianco opposto a quello di lui, ma il ragazzo bruscamente la attirò a se. Elisabeth ne fraintese subito le intenzioni. Lei vide il suo volto impallidire e notò che tremava “ti prego…non toccarmi” gli disse “non voglio che mi fai del male”: La ragazza aveva chiuso gli occhi e posato la testa fra le ginocchia. Lui la fissava mentre nella sua mente affiorarono i ricordi della sua infanzia, e si rivide, mentre Padre Jhonson lo sgridava perché continuava a correre nei corridoi e a rubare dalla dispensa: minuto, rannicchiato, con la testa in mezzo alle ginocchia per non vedere e non sentire. Chiuso fuori e dentro dal suo corpo. L’attirò accanto a sé e cominciò ad accarezzarle i capelli con fare fraterno. “No, non ti farò nulla, non è così che voglio che accada” e dette quelle parole la invitò a coricarsi accanto a lui, e tenendola stretta a sé si addormentò. Anche Elisabeth cedette al sonno, alla stanchezza, alla fame e alla paura. Ormai era giorno ma poca luce entrava nella stanza dal lucernaio. Quando si destarono era già l’alba dell’indomani.

Lui, svegliatosi ancor prima di lei le slegò il polso dalla manetta, si liberò anch’egli e la vegliò per qualche minuto. Era bella Elisabeth: si domandò come si chiamasse perché in realtà ancora nessuno dei due conosceva il nome dell’altro. Bizzarra la cosa, per due che hanno diviso cibo e letto. Sorrise al pensiero che era la prima volta che giaceva con una donna unicamente per dormire, e un po’, si vergognò. Lei era lì, legata, nelle sue mani in tutto e per tutto, eppure non avrebbe mai potuto averla con la forza. Voleva che in qualche modo le cose accadessero senza violenza, e per questo era disposto ad attendere e questo, aumentava la sua eccitazione.

Uscì giusto il tempo per andare in bagno e a comprare del cibo e dei vestiti Tornato, si ricordò che aveva gettato il cappotto della ragazza nell’immondizia, ma lei con sé aveva una borsetta che ora stava compostamente accanto a una sedia vicino al tavolo. Vi frugò dentro e trovò documenti, ma soprattutto, cosa più importante una carta di credito. Emise un fischio e lei cominciò a destarsi. Lui s’intascò tutto quanto, anche le chiavi di casa. “Dobbiamo andare” disse lui “preparati in fretta..indossa questa roba, non ti porto certo in giro vestita come una damerina, magari i tuoi hanno fatto denuncia e ti stanno cercando” Lei, ancora insonnolita e affamata gli domandò dove dovevano andare, ma lui non le rispose, le girò le spalle dicendole che l’avrebbe attesa fuori per non più di dieci minuti.

I jeans e il maglioncino che lui le aveva portato erano più o meno della sua taglia, ma visibilmente corti, così come il giubbotto. Cercò alla belle e meglio di sistemarsi i capelli ravviandoli con le mani e uscì. Lui la lodò “mi piacciono le donne che obbediscono la prima volta che le chiedi qualcosa, eviti l’inconveniente di doverle punire”. Lei prontamente rispose che non era una donna, era ancora solo una ragazzina, perché così a lei pareva d’essere, una ragazzina di sedici anni, non ancora abbastanza grande per certe cose. Così le avevano insegnato e lei aveva credute sagge e ragionevoli queste parole. Lui rimase perplesso da quell’affermazione: di solito tutte le sue coetanee che aveva conosciuto volevano sembrare molto più grandi di quello che erano, e chiamarle donne era un complimento, non un’eresia! “Vedrai che insieme a me crescerai tutta in una volta..sei donna, donna donna, stai tranquilla, come tutte le altre, siete tutte uguali e fate tutte le stesse cose” Elisabeth, con intelligenza lo apostrofò trovandone il coraggio “tu vuoi una femmina, non una donna accanto. Una donna è un’altra cosa” Lui a bruciapelo le rispose “sei troppo saputella per me. Eh va bene, signorina so tutto, da adesso il tuo nome è Donna”. Elisabeth ribadì “Io mi chiamo Elisabeth Garrett non come vuoi chiamarmi tu”. Lui si spazientì, la tirò con forza per un braccio e mentre passavano in uno stretto vicolo la sbattè contro un muretto “Tu ti chiami come voglio io e fai come ti dico io. Ti ho già detto che non mi porto dietro questo aggeggio – disse mostrandole il coltello – solo per fargli prendere aria, se provi a voler fare di testa tua o a farmi qualche brutto tiro, recapito il tuo bel corpicino ai tuoi genitori con qualche ricamino” Inaspettatamente la ragazza, esasperata da quella folle situazione, spaventata e ormai certa di non avere scampo afferrò il coltello approfittando che il ragazzo non lo teneva puntato contro di lei ma ci giocherellava e se lo puntò da sola alla gola “Se non mi ammazzi tu lo faccio io. Tanto lo so che appena avrai ciò che vuoi mi ucciderai. Fallo adesso, ti prego o lo faccio io” Lui indietreggiò. Avrebbe potuto colpirlo per fuggire invece stava compiendo davvero un gesto che gli sembrò del tutto irrazionale dal suo punto di vista. Ma Elisabeth non era lui. Non aveva vissuto per strada e per lei certi valori non si rinnegano neanche per salvarsi la vita. Credendola capace di un simile gesto, in un secondo, pur con una certa fatica la disarmò, ferendosi alla mano. Imprecò pronunciando parole di cui Elisabeth non conosceva sino a quel momento, l’esistenza. Era una ferita abbastanza profonda e sanguinava. Udirono dei passi veloci: in una manciata di secondi transitò nel vicolo un ragazzo che correva come un pazzo, inseguito da un tizio che gli fu addosso. Pochi minuti. Uno sparo. Un corpo a terra. Il ragazzo in piedi e l’altro uomo morto. Il ragazzo si stava avvicinando a loro ed era armato. Il coltello, era stato gettato a terra da Harry che, lo riprese subito in mano intuendo il pericolo. Ma si era ferito la mano destra e non era ben padrone della sua forza. Il ragazzo con la pistola era ormai vicino a loro che non avevano avuto tempo di percepire bene cosa stesse capitando ed erano lì, l’uno accanto all’altra, appoggiati ancora al muretto. Il ragazzo con la pistola si avvicinò ad Harry puntandogliela alla nuca immobilizzandolo e intimando anche a lei di non muoversi. Elisabeth, veloce e nuovamente imprevedibile cercò la mano di lui e gli strappò il coltello che era appoggiato lungo i fianchi di Harry, di cui l’assalitore non si era accorto. Fu un solo secondo e il ragazzo sconosciuto sgranò gli occhi sibilando un gemito di dolore. Harry lo vide accasciarsi a terra, si scansò e dalla mano cadde la pistola. Il sangue dei due si mescolava in terra in un rigolo copioso.

“Andiamocene di qui” disse lei e iniziarono a correre per il vicolo e le strade che vi si intrecciarono Si udirono sirene, tante sirene. Harry spinse Elisabeth dentro ad un magazzino la cui porta di legno era socchiusa. Si nascosero dietro a delle enormi casse di legno. “Cosa hai fatto?” le domandò Harry “ Ti ho appena salvato la vita e non so neppure il perché. Chiamiamo un ambulanza, non credo di averlo ucciso, quel tizio.” ammise candidamente. “Tu sei davvero pazza – disse lui – L’ambulanza la chiameranno loro – disse riferendosi ai poliziotti – Stiamo qui sino a quando non si calma la situazione” le intimò. Rimasero lì sino a notte fonda, rannicchiati dietro le casse. Elisabeth cercò in giro qualcosa per medicare il ragazzo ma, non trovando nulla di pulito, con la poca luce che entrava da due finestroni semi oscurati, si tolse la maglietta e stappandola ne ricavò delle bende per fasciargli la ferita. “Perché non hai lasciato che mi uccidesse? Stavano arrivando i poliziotti, probabilmente te la saresti cavata e ora saresti a casa sana e salva” gli disse lui “lo so, ma non volevo che tu morissi, non so spiegarmelo, ma anche se mi hai rapita e minacciata, sento che voglio aiutarti” Lui rise strafottente “aiutarmi? E perché? Cosa te ne frega di me, e cosa ti fa pensare che io voglia il tuo aiuto o quello di qualcun altro? Hanno sempre cercato di dirmi cosa era giusto per me, cosa dovevo o non dovevo fare, bla bla bla…solo parole che erano obbligati a dirmi. Io so cosa voglio e voglio questo, questa vitaccia merdosa” Dopo essersi infilata e abbottonata il giubbotto gli prese la mano “spero che Dio mi perdoni per aver colpito quell’uomo, prima…ho fatto una cosa che nella mia vita di pochi giorni fa non mi sarei neppure sognata di fare. Con il coltello ho sempre solo aiutato mio padre a pulire il pesce. – Continuò – Ti prego, l’hai detto tu stesso che chi sta per strada finisce così: come quello per terra, quello che ho colpito, il senzatetto dell’altra notte. Ma tu non sei così” gli disse. “Come fai a sapere come sono fatto io? Mi conosci da poche ore, tu sei proprio pazza!” disse lui ritraendo la mano dalla sua. Lei gi stampò un bacio sulla guancia “mi hai rispettata, nonostante tutto. Avresti potuto farmi qualunque cosa ma non l’hai fatto. Vuol dire che in qualche modo anche tu hai un po’ di saggezza là dentro da qualche parte” affermò picchiettando con le dita sulla sua testa. “Sei la prima persona che mi parla così. Non so se mi stai prendendo in giro o se dici sul serio. Se dici sul serio sei davvero stupida! Estrasse delle pillole dalla tasca e glie le mostrò “se non fosse successo questo bordello, ti avrei trascinata in un motel che si trova a pochi isolati di qui, ti avrei messo nel bicchiere questa roba e avrei finalmente avuto senza troppi problemi ciò che volevo, poi ti avrei lasciata lì. Con queste, al risveglio non ti saresti neppure più ricordata il tuo nome, te lo assicuro e a quel momento io sarei stato già lontano e tanti saluti!” le disse. Lei sentì una morsa attanagliarle il cuore. La voce di Elisabeth mutò “Vuol dire che allora non ho capito niente e mi sono sbagliata. Ho avuto paura prima…quello forse avrebbe fatto fuori anche me. Con te vivo, almeno avevo la speranza non so bene quando, di tornare a casa, magari anche non proprio in buone condizioni, ma ci sarei tornata. Non so dove mi trovo, non ho più documenti né una manciata di monete per fare una telefonata e se m’incammino da sola per queste strade non arrivo neppure all’angolo e finisco in mani magari peggiori delle tue. Avrò fatto male i calcoli dunque. Se vuoi darmi quella roba per approfittare di me, fai pure, anzi, non ce n’è bisogno. Ormai hai distrutto la mia vita. I miei sono sicuramente disperati e mi credono una fuggiasca che si sta divertendo da qualche parte con un certo Tommy. Chi riterrà mai vera questa storia? Penseranno tutti che mi sono inventata una balla simile per coprire la mia fuga da casa con un ragazzo, dopotutto, cosa vuoi che m’importi più!” Si levò nuovamente il giubbotto e iniziò a slacciarsi il reggiseno “Qui o da un’altra parte fa lo stesso. Anche se grido con tutta questa confusione di auto della polizia che vanno e vengono e con il caos che si è creato a pochi metri di qua chi vuoi che faccia a caso a ciò che accade qui dentro! Che mi lasci viva o che mi ammazzi dopo, cambia davvero poco per me, adesso. Ho fatto proprio la figura della stupida, hai ragione. Avevo occasione per colpirti e scappare, lasciarti ammazzare da quello e non l’ho fatto. Ma io avrei avuto il rimorso, come ce l’ho anche per quello a cui ho piantato il coltello nella gamba. Ma io, come mi hai detto tu, sono una ragazzina stupida che ha avuto tutto, e cosa ne posso sapere dunque io della vita? Mangio quattro volte al giorno, vado alla scuola privata, vivo in una casa con piscina e idromassaggio. Cosa mi manca, cosa ne posso sapere io?” Elisabeth lo guardava dritto negli occhi mentre gli parlava continuando a spogliarsi. Lui la fermò con la mano “Non sei stupida, e non sei affatto una ragazzina. Sei una donna vera Elisabeth. Forse per questo, in realtà ti ho desiderata. Credevo che fosse per vendicarmi del fatto che sei una signorina bene e volevo prendermi il mio riscatto a modo mio, possedendo quello che non mi sarebbe mai spettato nella vita: una ragazza pulita e inesperta cui togliere l’innocenza. Rivestiti : a pochi metri di qua c’è un parcheggio di taxi. Ti carico sopra e ti rimando a casa. Mi spiace se non ti crederanno per colpa mia. Se ti può far star meglio denunciami. Ho un passato abbastanza tormentato, vedrai che ti crederanno. Mi chiamo Harry. Harry e basta perché non ho padre e non so neppure chi sia mia madre. Questo però non giustifica il fatto che io abbia sempre voluto fare di testa mia. Di opportunità ne ho avute tante per mettermi in riga, ma avevo troppa rabbia dentro, non se neppure io con chi: con il tuo Dio, con i miei genitori che mi hanno abbandonato in un vicolo puzzolente come questo. Non so con chi, certo è che sarebbe stato meglio se ci fossi morto in quel vicolo. È stato un senzatetto come quello cui ho dato le sigarette quella notte a trovarmi e a salvarmi. Anche tu mi hai appena salvato la vita, compiendo un gesto che a te deve essere costato davvero tanto, non pensavo fossi così tempestiva e coraggiosa: nell’istante stesso in cui hai cercato la mia mano per prendere il coltello ho capito le tue intenzioni e ti ho lasciata fare. Se avessi mosso anche un solo muscolo ora avrei un proiettile nel cranio! Ti devo la mia vita e non è un debito da poco” Elisabeth si rivestiva ascoltandolo, poi, gli prese nuovamente la mano “ti voglio bene Harry e basta”. Lui appoggiò per un istante le labbra sulle sue e lei non si ritrasse. “Non farò il tuo nome, ma se avrai bisogno di me, io ci sarò sempre per te. Mi devi la vita. Ricordi?” Harry le sorrise “No, quest’avventura finisce qui. Tu appartieni a un mondo e io ad un altro. Ho fatto la mia scelta ormai e non intendo cambiare nemmeno una virgola di quello che sono. Ti voglio bene anche io Elisabeth Garret e spero che un giorno tu possa trovare un uomo che ti ami come meriti. Non mi ero sbagliato: sei davvero bellissima” e la baciò ancora teneramente mentre s’incamminarono verso il parcheggio dei taxi. “farò in modo che tu riabbia i tuoi documenti, le chiavi di casa e tutto il resto, anche un cellulare nuovo, temo che il tuo sarà irrecuperabile, ormai” Elisabeth rise “non importa, i miei me ne compreranno subito un altro. Te l’ho detto che se non rispondo al terzo squillo vanno in apprensione” gli rispose lei tenendo sempre stretta la sua mano in quella di lui “non gli posso dare torto. Se fossi genitore di una figlia come te, mi comporterei proprio come loro” Si fermò, Elisabeth guardandolo profondamente negli occhi gli chiese di prometterle che a nessuna altra ragazza lui avrebbe fatto ciò che aveva provato a fare con lei. Lui glie lo promise mettendo la mano di lei sul suo cuore “Te lo prometto, Elisabeth, te lo devo, e poi, quando la ritrovo più una come te?” Lei gli sorrise. Salì sul taxi, Elisabeth e lo salutò più volte con la mano pregando Dio di avere cura di lui. mentre l’auto iniziò a partire. Lui ricambiò il saluto e sentì ancora sulle labbra il sapore di quei teneri baci che si erano scambiati e dentro di sé capì subito che quella sensazione di purezza e sincerità non l’avrebbe mai più provata, ma non si pentì di averla lasciata andare e nemmeno gli sfiorò per un istante il dubbio che lei potesse avergli mentito e correre subito in questura a denunciarlo. Sapeva che non l’avrebbe fatto perché, in un qualche modo, entrambi dovevano all’altro qualcosa, e i debiti, come anche a lei avevano insegnato, vanno sempre onorati. Un patto e un patto: lei gli aveva salvato la vita e lui l’aveva risparmiata alla violenza rimandandola a casa senza torcerle nemmeno un capello. Sapeva che per la prima volta aveva fatto la cosa giusta e se ne andò fischiettando con il cuore leggero ma infuso di una profonda malinconia.

Giunta a casa Elisabeth suonò più volte la porta, perché non aveva più con sé le chiavi. Aprì sua madre ed emise un urlo che per poco non risuonò in tutto il quartiere. Elisabeth puzzava d’alcool e fumo e di altre ignominie, aveva i capelli sporchi e arruffati, giacca e jeans sporchi di sangue e ai piedi un paio di scarpe consumate e anch’esse sporchissime “Mio Dio Elisabeth, entra dentro! Ma dove sei stata? Come ti sei conciata?” Sopraggiunse anche il padre che nel vedere sua figlia ridotta così trasalì visibilmente Entrarono nel soggiorno e sua madre non la fece neppure sedere sul divano “Vai a lavarti! Elisabeth!” La ragazza si aspettava un abbraccio, un gesto consolatorio, e si irrigidì “fai come ti dice tua madre, Elisabeth. Dopo parleremo di questa tua bravata, signorina”. Elisabeth non riuscì a trattenere un pianto che scoppiò sonoro e irrefrenabile all’improvviso, come un temporale estivo. “Non serve piangere, Elisabeth, esigiamo delle spiegazioni e delle scuse non appena tornerai ad avere un aspetto rispettabile”. La ragazza ebbe allora la forza di replicare solamente che erano molto lontani dalla verità di ciò che le era accaduto e che, comunque, qualunque cosa avrebbe detto loro, ora era certa che non l’avrebbero creduta. “devi capire che ci hai davvero delusi. Abbiamo il sospetto che tu frequenti delle persone che, francamente non sono degne delle tue attenzioni. E pensare che abbiamo pensato che ti avessero rapita, portata via con la forza, che ti fosse successo qualcosa di grave, siamo stati addirittura in apprensione per la tua vita ..e tu? In giro a divertirti e con chi? Boh! Io e tua madre non ci meritiamo tutto questo, lo devi ammettere, figliola” Elisabeth fissò suo padre negli occhi in modo così profondo come non aveva mai fatto prima, turbandolo, quasi. “Non ho frequentato di mia volontà queste “persone” come dici tu, sono loro che hanno cercato me. Sul fatto poi, che siano degne delle mie attenzioni, ti stai sbagliando per una seconda volta” replicò lei, lì, ferma in piedi come un soldato “Adesso basta. Vai a lavarti, ne parleremo più tardi” Elisabeth salì al piano di sopra, entrò nel bagno e si guardò a lungo allo specchio. Solo qualche giorno prima un simile aspetto l’avrebbe ripugnata, oggi invece vedeva sé stessa in un modo diverso. Per la prima volta considerò il fatto che a volte capitano cose agli esseri umani che sconvolgono loro ogni certezza acquisita sino a quel momento. Non si sentiva sporca Elisabeth: il giusto termine che riuscì a trovare nei suoi pensieri di quegli attimi fu “vera”. Una persona vera, non un immagine come il ritratto in posa per una foto. Non rinnegò sé stessa di qualche giorno prima che le accadesse quella brutta avventura. Ma l’aggettivo brutta non le tornava. No, forse era iniziata così, ma poi era diventata qualcosa di diverso: un’esperienza che le aveva fatto vedere la vita in un altro modo, glie l’aveva fatta apprezzare ancora di più. In pochi giorni le si era parato un mondo sconosciuto che però l’aveva portata a riflettere su temi che prima, poteva solo discutere empiricamente commentando un fatto di cronaca, o intervenendo a qualche discussione in famiglia o fra amici. Ora, che di quel mondo, seppur per breve tempo aveva avuto un assaggio, dentro di lei sentì struggente un senso di impotenza verso tutti coloro che, una casa dove tornare non l’avevano e per volontà propria o altri motivi, erano costretti a rimanerci immersi, in quell’universo parallelo. Infatti, mentre la vita nel centro della Città e nei quartieri residenziali come quello dove lei risiedeva, si svolgevano in modo equilibrato e a ritmo quasi sempre prevedibile, là dove aveva dimorato in quei giorni, fra quei vicoli, la povertà, la sporcizia e la pericolosità di quei posti, sopravvivenza era la parola d’ordine ad ogni respiro e niente si poteva dare per scontato, neppure le piccole cose. E poi, cosa più importante di tutte aveva conosciuto lui. Ancora una volta per assurdo, si ritrovò a ricordare, le sue braccia che in alcuni momenti l’avevano fatta sentire sicura, non in pericolo come poteva apparire e i suoi occhi, e in quelli di lui, nei quali spesso si era specchiata, non aveva mai intravisto falsità o menzogna. Si trovò a pensare che non avrebbe mai potuto dimenticarlo quel ragazzo, perché di quello si trattava, di un ragazzo di qualche anno più grande di lei, che si meritava maggior fortuna nella vita. Si chiuse in camera per tutto il giorno, Elisabeth e non volle toccare cibo, nonostante ultimamente avesse patito la fame. Si addormentò e i suoi sogni furono agitati. Nei giorni a seguire tornò a scuola ma i suoi pretesero di accompagnarla e andarla a riprendere, non le permisero più di recarsi alle lezioni di violoncello temporaneamente rinviate, proponendole in alternativa, di trovare un maestro disposto a recarsi presso il loro domicilio. Elisabeth si rifiutò categoricamente di riprendere lezioni per un po’, trovando la scusa di dover studiare molto per passare gli esami del primo quadrimestre e i suoi, per i quali il rendimento scolastico stava sempre al primo posto, l’assecondarono. Notò che a scuola l’atteggiamento nei suoi confronti era molto cambiato: quelle che aveva sempre considerato amiche o semplicemente buone compagne di classe, l’avevano lentamente emarginata; mentre un tempo era invitata a tutte le feste, ora passava i fine settimana da sola. Le voci corrono in fretta e quella della sua fuga con uno sconosciuto dell’East Side aveva fatto il giro di quel piccolo mondo alla velocità della luce. Anche i suoi genitori la guardavano sempre sospettosi nel tentativo di carpirle chissà quale segreto ma non le avevano mai domandato se ci fosse una versione diversa da quella che loro avevano dato da subito per scontata e anzi, la sconvolsero quando le comunicarono che si erano rivolti al dottor Carter, medico di famiglia da quando era nata, per sottoporla a dei test per stabilire che non abusasse di alcool o di sostanze stupefacenti. “Dobbiamo conoscere la verità” disse sua madre quella sera mentre erano accomodati sulle poltrone del salotto. “Ci dispiace, Elisabeth, ma il tuo gesto e questo tuo silenzio, questa tua cocciutaggine a non dirci perché ti sei comportata in un modo così sconsiderato non ci lascia scampo. Sappiamo che capita a molti giovani di “sbandare”, ma da te proprio nessuno se lo aspettava”: Cercò di prenderle le mani mentre pronunciava queste frasi, sua madre ma Elisabeth le ritrasse in modo brusco. “Non bevo e non mi drogo, se mi conosceste come sino a ieri pensavo che fosse, non lo pensereste mai di me! Non mi sono allontanata volontariamente da casa…non mi sento una “sbandata” e non ho niente a che fare con i ragazzi che commettono certi errori e non vi permetterò di obbligarmi a questa umiliazione! Ho stretto un patto e lo voglio mantenere, ma vi giuro che non ho fatto nulla di cui dovermi vergognare”. Elisabeth si era alzata di scatto, come mossa da una forza soprannaturale “Quale patto? Perché non ti fidi di noi, Elisabeth? Se qualcuno ha approfittato di te, della tua buona fede perché non lo dici, anche la polizia dovrebbe saperlo: credono che la tua sia stata una fuga volontaria. Lo hai comunicato tu stessa a Dorianne e poi a tua madre che eri con quel certo.. Thomas, Tommy o come diavolo si chiama: si sentiva in sottofondo una musica assordante, perciò non si poteva equivocare, dovevi essere che in un locale, o a una festa e non certo in un posto rassicurante”. Non credeva più che esistessero posti “rassicuranti”, Elisabeth e si sentì a disagio: per la prima volta si stava scontrando con i suoi genitori: aveva perso la loro fiducia e forse anche la loro stima. Li aveva delusi e di questo se ne dispiaceva molto, tuttavia non voleva rivelare a nessuno ciò che sciaguratamente le era capitato, perché, sempre più forte sentiva il dovere di proteggere Harry. Aveva lavato i jeans, la maglietta, il giubbotto e la maglia, nascondendoli nel suo armadio: ogni tanto li prendeva in mano, nel silenzio della sua stanza, li portava con sé nel letto stringendoli a sé. Pregava intensamente per lui, lo pensava spesso e desiderava per quel ragazzo tutto il bene che poteva accadergli. Avrebbe invece dovuto odiarlo: in fondo quello che le stava accadendo era unicamente per colpa del gesto insano che lui aveva compiuto rapendola, costringendola a mentire alla sua famiglia, sottraendola alla sua vita di tutti i giorni. Eppure, una forza mai provata prima, una voce insistente nel profondo della sua anima le intimava di continuare a tacere su come realmente si erano svolti i fatti e la induceva a chiedere alla Madonna alla quale la giovane era devotissima fin da piccola, una grazia per quel ragazzo verso il quale inspiegabilmente sentiva un profondo legame.

Accadde che Elisabeth non riuscì più a riprendere in mano la sua vita passata come se niente fosse; qualcosa si era irrimediabilmente spezzato dentro di lei: si impose pertanto con i suoi genitori per farsi iscrivere ad una scuola statale minacciandoli che altrimenti avrebbe interrotto gli studi, chiese di poter usufruire della dependance della loro casa per cominciare a vivere per conto suo e i rapporti con la famiglia, gli “amici”, i vicini di casa rimasero civili, ma niente di più. Come previsto suo padre e sua madre reagirono dapprima con un forte diniego e un tentativo di punizioni e boicottaggi, ma la ragazza aveva già cominciato a preparare una borsa, decisa, se non avesse ottenuto ciò che voleva se ne sarebbe andata ovunque senza più far ritorno in famiglia. Il Dottor Carter al quale si erano rivolti, disse loro di avere pazienza, che prima o poi la ragazza sarebbe tornata in sé, gli parlò di crisi adolescenziali e li convinse a recarsi da un suo amico psicologo. Nel frattempo. Una mattina piovosa, all’interno della buca delle lettere Elisabeth, trovò una busta: dentro vi erano le chiavi di casa, i documenti, la carta di credito e un cellulare ultimo modello. Neppure un biglietto, ma non ce n’era bisogno: Harry aveva mantenuto la sua parola e lei ancora una volta, pregò assiduamente per lui ovunque si trovasse.

La ragazza, eccellente negli studi, prese il diploma in un solo anno, continuò a vivere da sola cercando di guadagnare i soldi per mantenersi accettando di svolgere qualsiasi lavoretto: dalla baby sitter alla cameriera, tutto, per essere indipendente. Di andare dallo psicologo poi, neanche a parlarne! Al termine del diploma decise di cercarsi un lavoro stabile con cui mantenersi definitivamente trovandosi un appartamento tutto per sé.

Dall’altra parte della città, anche Harry faticava a riprendere la sua vita di sempre: dopo un anno di vagabondaggi, vita balorda ai limiti della legge, un giorno improvvisamente, dopo essere scampato ad un imboscata della polizia, decise che qualcosa in lui e intorno a lui doveva per forza essere cambiato e cambiare.

Con gli ultimi soldi che gli erano rimasti in tasca decise di prendere un autobus e di fuggire da quello che prima considerava l’unico al mondo dove vivere. Si sorprese di pensare alla parola lavoro sempre più spesso: era stanco di trascorrere una vita così dura e di rischiarla continuamente mettendosi nei guai per non patire la fame e il freddo, dormire dove capita e fare a botte con gli altri disperati per assicurarsi qualcosa di meglio. Ragionò, durante tutto quel tempo, mentre dal finestrino passavano veloci al suo sguardo persone, strade e paesaggi, che lentamente, quella decisione era maturata da quando aveva lasciato partire Elisabeth su quel taxi. Non era riuscito a scordare quel viso, lo sguardo, la dolcezza che ne trapelavano e si struggeva durante la notte pensando che non avrebbe mai più potuto stringerla a se. In un certo qual modo l’affetto che lei in quei pochi giorni gli aveva dimostrato e che non aveva mai ricevuto da nessuno fino a quel momento, e la sensazione che la tua vita possa essere importante per un’altra persona l’avevano a poco a poco trasformato quel suo cuore, cambiando sempre di più quelle poche certezze cui prima faceva riferimento. Quel rammarico però, cercava di scacciarlo dalla sua mente con tutte le sue forze: voleva pensarla felice del ritorno a casa a immaginarla nel riprendere la vita di sempre, quella che realmente le apparteneva.Per entrambi dunque nulla era stato più come prima.

Durante tutto il viaggio Harry tossiva sempre con maggior intensità; giunto a destinazione, nell’atrio dell’auto porto, il ragazzo accusò forti dolori al petto e si accasciò improvvisamente a terra privo di sensi.

Soccorso immediatamente fu portato al più vicino ospedale, dove riprese coscienza solo dopo alcuni giorni. I genitori di Elisabeth non riuscivano a capire perché avesse voluto buttare via – a loro dire – la sua vita a quel modo, rinunciando all’Università, ad una brillante carriera e magari anche ad un buon matrimonio. La ragazza però continuava a insistere in modo irremovibile che voleva realizzarsi in modo diverso da quello che avevano programmato per lei sin dall’infanzia e che, nonostante le loro perplessità a riguardo lei era felice. Lavorava come commessa in un centro commerciale: si occupava del settore abbigliamento e in poco tempo, i suoi modi raffinati, la gentilezza verso i clienti e la sua bellezza non passarono inosservati e le fu offerto il ruolo di caporeparto e anche un contratto come modella per le sfilate che puntualmente, ogni mese venivano organizzato per promuovere i capi più eleganti ed esclusivi, firmati da più o meno famosi stilisti, anche stranieri.

Per Elisabeth tutto andava dunque per il meglio, tanto che, aumentati i suoi guadagni, affittò un appartamento più grande in una zona più residenziale, a distanza di pochi isolati dal Centro Commerciale. Tra le otto e a volte anche dieci ore lavorative giornaliere, le sfilate e alcuni servizi fotografici pubblicitari, non le rimaneva molto tempo libero e quel poco, lo passava riposandosi.

Quando Harry riprese faticosamente conoscenza, i medici gli comunicarono che si era preso una brutta forma virale ai polmoni e che reputavano un miracolo fosse ancora vivo. Comunque, non avrebbe potuto abbandonare l’ospedale sino a guarigione ultimata. Durante quel ricovero forzato, il ragazzo conobbe colui che, ancora una volta, fu il promotore di un cambiamento radicale nella sua vita.

Padre Kenneth era alto, robusto, portava i capelli lunghi sino alle spalle e uno zaino azzurro sempre con sé e tutti i giorni, allo stesso orario, girava i vari reparti chiedendo se qualcuno avesse bisogno di conforto spirituale o di qualunque altro genere di aiuto. Con il passare delle settimane, dopo i primi approcci stentati, Harry lo trovò inaspettatamente simpatico e cominciarono a trascorrere del tempo insieme, come dei vecchi amici. Padre Kenneth non toccava mai l’argomento religioso, tuttavia, le sue parole, i suoi modi straordinariamente buoni e misericordiosi produssero un buon effetto su di lui. Il ragazzo scoprì che il sacerdote si occupava di ragazzi tossicodipendenti di una comunità, di un centro per alcolisti e infine, dei senzatetto, derelitti di ogni specie che abitavano la parte più povera della città e si domandò dove, una persona trovasse la forza per affrontare tutte quelle responsabilità.

Quando Harry, dopo alcuni mesi fu dimesso dall’ospedale, Padre Kenneth, comprendendo che non sapeva dove andare, gli propose di trasferirsi con lui presso la sua Parrocchia e un po’ alla volta, mentre terminava la convalescenza, spinto da una nuova energia che lo aveva investito, iniziò ad intraprendere i più svariati mestieri, rendendosi utile in tutti i modi, soprattutto per sdebitarsi con Padre Kenneth, al quale sentiva di dovere questo rinnovamento positivo.

Si sorprese piacevolmente da solo, di come non fuggisse il lavoro come un tempo e si pentì di non avere iniziato prima a darsi da fare, perché la soddisfazione che traeva dal rendere operative le sue giornate era immensa e la gratificazione che ne otteneva, non solo economica, lo faceva sentire per la prima volta un uomo, un vero uomo. Padre Kenneth si era affezionato tantissimo ad Harry, arrivando a considerarlo come un figlio. Decise quindi, con una particolare dispensa del suo vicariato di dargli il suo cognome, affinché non fosse più Harry e basta, ma una persona con la sua dignità, a tutti gli effetti. Harry dal canto suo aveva miracolosamente abbandonato i suoi modi violenti, la vita della strada fatta di espedienti e risse, gioco d’azzardo e prostituzione dedicandosi con tutto se stesso al volontariato insieme a Padre Kenneth e scoprì anche che, quel Dio che prima malediceva e reputava un nemico giurato, si era rivelato a lui come parole di verità e forza.

Il cambiamento del ragazzo che si guadagnava la vita onestamente come operaio e durante ogni minuto libero si impegnava nel volontariato avevano fatto accrescere in Padre Kenneth la consapevolezza che ogni suo sforzo sino a quel momento per aiutare i ragazzi come lui, non era stato vano e che Harry rappresentava un dono del Signore: quando lui non ci sarebbe stato più, quel giovane avrebbe continuato, pur laicamente le sue opere, e questo lo riempiva di speranza e gioia. Harry passava intere notti nelle strade con Padre kenneth e altri volontari per aiutare tutti coloro che come lui in precedenza, non avevano nulla se non la disperazione di vivere nel degrado e nella povertà. Spesso la sua esperienza passata era stata molto utile per evitare guai e cavarsela senza conseguenze in situazioni talvolta estreme: Harry non aveva dimenticato come difendersi né come sopravvivere in certi luoghi e ciò consentiva a tutti di sentirsi maggiormente al sicuro con lui, in quanto la loro presenza non era vista per nulla di buon occhio da spacciatori e delinquenti che spadroneggiavano nei quartieri presso i quali il gruppo prestava la propria opera missionaria.

Harry una sera si confidò con Padre Kenneth e gli raccontò di Elisabeth, di ciò che era capitato in quei giorni durante i quali l’aveva rapita, per poi condurla, sana e salva a casa. “Potrò mai avere il perdono di Dio per aver solo pensato di farle del male?” Padre Kenneth quella sera, prese le mani del ragazzo fra le sue e vi depositò un rosario. “Sei già stato perdonato, figliolo. A volte, anche se non lo crediamo, sulla nostra strada, il Signore, che per noi ha già pianificato tutto, ci fa incontrare degli angeli. Credo che il tuo sia stato lei” gli rispose.

Harry ci pensò un po’ su, poi trasse un sospiro “io ne ho incontrati tre Padre: voi, Elisabeth e il senzatetto che mi ha salvato appena nato. Se qualcuno me lo domandasse ora, se credo negli Angeli e in Dio, non avrei esitazione a rispondere di sì, con tutto il mio cuore!”

Mai come in quel momento, Padre Kenneth sentì rafforzare in modo smisurato la sua fede: quel ragazzo aveva compreso che nella vita nulla accade per caso ed era stato graziato da Dio, che davvero ama infinitamente tutti i suoi figli, anche quelli che lo rifiutano e sembrano essere, agli occhi degli uomini, immeritevoli di qualsiasi bene, proprio come indicato nelle scritture. Harry qualche giorno affidò a Padre Kenneth una lunga lettera pregando che, se gli fosse capitato qualcosa, avrebbe dovuto cercare Elisabeth e consegnargliela.

Una di quelle lunghe notti, qualche mese dopo, fra i disperati, in un caseggiato dove prestavano abitualmente la loro opera presso alcune famiglie bisognose, un incendio si era sviluppato in poco tempo causa dei fili elettrici scoperti. Harry morì quella notte, salvando una mamma con la sua bambina. Le aveva prese in braccio entrambe e portate fuori, ma la piccola lo aveva supplicato “ti prego, salva il mio cagnolino, salva Paco, non voglio che muoia!” Harry non indugiò nonostante avessero tentato di fermarlo in tutti i modi. Il ragazzo si era capitolato a forza nuovamente nell’edificio, aveva trovato Paco tremante in un angolo già circondato dalle fiamme, l’aveva tirato su per la collottola e gettato nella tela dei pompieri nel frattempo sopraggiunti per domare le fiamme. Questi gli intimarono di buttarsi subito, ma prima di raggiungere anche lui la salvezza, uno scoppio terribile e una fiammata altissima lo divorarono.

Padre Kenneth urlò tutta la sua disperazione: poi si voltò, vide la mamma stringere a se la figlioletta, che a sua volta abbracciava Paco. I tre, imprigionati nell’appartamento sarebbe morti senza l’intervento coraggioso di Harry e si sentì ancora una volta profondamente orgoglioso di quel ragazzo che incurante del pericolo aveva offerto la sua vita per la loro e si trovò nuovamente solo.

Il dolore per la morte di Harry però si trasformò presto in preghiera e rafforzò ed aumentò nel nome di quel ragazzo morto da eroe, tutte le opere del gruppo di volontariato.

Padre Kenneth nel contempo sentì da subito anche la necessità di mantenere fede alla parola data al ragazzo e si mise alla ricerca di Elisabeth

Dopo alcuni giorni raggiunse l’abitazione dei genitori della ragazza che gli comunicarono l’indirizzo della figlia. Udirono per la prima volta quel racconto dalla bocca di Padre Kenneth e rimasero sconvolti al pensiero della brutta avventura vissuta da Elisabeth e si sentirono immensamente in colpa per non aver mai colto nelle sue parole la sua richiesta di fiducia, ma di avere addirittura punito la figlia che in realtà non solo non li aveva mai presi in giro, ma al contrario si era comportata da persona matura, buona e responsabile, mettendo in pratica tutti i principi cristiani che le avevano insegnato in famiglia e presso l’Istituto religioso che frequentava “Avevano stretto un patto ed Elisabeth lo ha mantenuto non rivelando a nessuno ciò che era realmente capitato perché voleva che al ragazzo capitasse nulla di male ” aveva detto loro Padre Kenneth e poi aggiunse “aveva capito che Harry malgrado tutto meritava il suo affetto, la sua considerazione e la sua fiducia, salvandogli anche coraggiosamente la vita. Lui non ha mai smesso di pensare a lei e di attribuirle la sua salvezza. Dopo averla incontrata non è stato più la stessa persona di prima: ha cominciato ad amare sé stesso e a rinnegare un poco alla volta ciò che era stato nel passato, trovando la forza di cambiare il suo percorso. Ha offerto la sua vita in cambio di altre, senza esitare, senza paura: il suo gesto generoso d’amore non rimarrà incompiuto e desidero che Elisabeth sappia la grandezza del miracolo che attraverso lei si è avverato”.

L’incontro con Padre Kenneth avvenne durante un assolato pomeriggio primaverile, durante l’orario di pausa del Centro Commerciale. Il ragazzo con parole accorate la supplicava di perdonarlo raccontandole la persona che grazie a lei e a Padre Kenneth era riuscito a diventare. Al termine della lettera le confidò anche di aver scoperto di amarla e che le augurava sinceramente ogni bene. Elisabeth pianse accoratamente giorni interi per la sua scomparsa,

Volle visitare la sua tomba e rilesse migliaia di volte quella lettera sino a impararne a memoria ogni singola parola. Dopo essersi rappacificata con la sua famiglia, si licenziò dal Centro Commerciale e si recò a visitare tutti i posti nei quali Harry aveva vissuto, desiderosa di conoscere nei dettagli tutto il bene che il ragazzo era riuscito a fare in quei due anni prima della sua morte. Conobbe la piccola Jade, la sua mamma e il cagnolino Paco e tutte le altre persone che lui aveva aiutato.

Elisabeth dopo qualche mese tornò a casa e si iscrisse alla facoltà di medicina, laureandosi brillantemente.

Qualche tempo dopo il praticantato in ospedale, aprì un ambulatorio in un quartiere altamente a rischio, dove lei e il suo gruppo di volontari operava continuamente giorno e notte, al fine di curare gratuitamente i poveri, gli emarginati e gli immigrati clandestini senza fare nessuna distinzione: chiunque avesse bisogno di aiuto lì lo trovava. La donna dedicò tutto il resto della sua vita ad aiutare chiunque bussasse alla sua porta: non si risparmiò mai al duro lavoro, alla fatica e ai rischi di ogni tipo per onorare la memoria di quei due uomini il cui incontro, anche a lei, aveva cambiato per ben due volte il suo destino.

Quando fu troppo avanti con gli anni, lasciò l’ambulatorio ad altri due medici volontari che avevano deciso da giovanissimi di affiancarla e decise, alla morte di Padre Kenneth che era arrivata ora di prestare attenzione a quella voce interiore che la chiamava insistentemente ed abbracciò completamente la fede prendendo i voti e continuando, per quanto le fosse possibile, ad occuparsi dei più bisognosi.

Suor Elisabeth, ormai anziana, quella lettera continuò a rileggerla nella sua mente ogni giorno della sua vita, conservandola viva nel suo cuore, pregando intensamente per le anime di Harry e Padre Kenneth e confidando in quel giorno in cui era certa, si sarebbero ritrovati tutti e tre in quel mondo dove finalmente, per sempre insieme, avrebbero conosciuto la vera pace e l’amore infinito di Dio.