Viaggio oltre il tempo

Oggi
tra terra impetuosa
e calmo mare,
presente si erge
come spuma tra le onde
armatura
di un passato in rovina.
Chi imbarcherò
oltre il mare dei ricordi
che fantasmi inermi bloccherò?
Come naufraghi
di un tempo passato,
abbandonerò sull’arida isola
la sgretolata porta,
ruggine sbiancata
da pioggia irruente dell’anima,
còdice assente
di impregnato legno lacrimoso.
Oggi
l’ulivo ancorerò
e nel tuo cuore rinascerò
amor mio eterno,
sole incorruttibile
e colorato profumo
della gioia ineffabile
che ferite mi curò.
La porta della vita dipingerò
con speranza che dubbio sconfigge,
ciò che è tiepido infiamma
e, come fulmine in una notte oscura,
il buio rischiara.
Unica chiave sarà tuo dono,
solo tu levighi la ruggine,
lisci i battenti,
depuri il ferro,
lo rendi diamantino per sempre.
Solo un attimo
una goccia di follia,
inebriante virtude
di secrete vie,
spumeggiante veliero
di saggi consigli.
Solo un raggio
speranza mia non torna.
Solo te illuminante via
dell’inesprimibile nulla,
tortuoso sentiero d’agape.
Oggi
un canto nuovo
aleggia
parole al vento
fugaci lepri
nel deserto:
grazie.
E io vivrò
come farfalla
su ali di aquila.


Le memorie del silenzio¹ (racconto genere fantastico-horror).

Ariel era la principessa della Foresta Incantata, centro del Mondo oltre il Tempo. Nacque in un
giorno del Grande Inverno. Tutto era pronto per accogliere la nuova arrivata. Ad Ariel piaceva
giocare con le Fate Luminose e gli Gnomi Furbi della Foresta Incantata. Crebbe in fretta, troppo in
fretta.
Tutto procedeva tranquillo fino al momento in cui Incubus decise di pervadere la mente e l’anima
dell’Orco. Incubus, il Male Oscuro, si insediò nel pensiero dell’Orco rendendolo suo schiavo per
sempre. Il Male Oscuro aveva stipulato un patto con l’Orco. Questo contratto prevedeva l’offerta di
un’anima ingenua e vergine in cambio del suo perpetuo aiuto. Da quel giorno la Foresta Incantata
iniziò a trasformarsi e gli abitanti se ne accorsero rapidamente. Iniziò, così, una lunga battaglia
contro il Male, in quella che fu chiamata “Lunga Notte del Grande Inverno”. Il Male Oscuro fu
allontanato in un anfratto della Foresta Incantata che, pian piano, si trasformò nel Deserto della
Tristezza.
Ariel viveva felice, coccolata dalla Grande Orsa e dallo Gnomo Solitario che la divertivano con le
loro storie a volte comiche, a volte tragiche. Capitava che piangesse, tanto era grande la sua
immedesimazione nei personaggi, ma era sempre contenta e soprattutto tanto felice di stare con loro
nelle lunghe giornate nevose.
Tutto accadde in un giorno di neve nera. Tutto cambiò. Lo Gnomo Solitario e la Grande Orsa non
ne capirono il motivo. Fu un giorno di terribile follia. Quel giorno di neve nera, Ariel conobbe
l’Orco cattivo, il Drakòs, che cercava di impadronirsi della Foresta Incantata. Fu cosi che il Male
Oscuro ottenne ciò che desiderava. La principessa Ariel fu rapita dall’Orco cattivo e donata in
offerta al Male Oscuro in modo tale che se ne potesse cibare ogni volta che ne avesse sentito il
bisogno.
Nella Foresta Incantata, vi era un immenso castello luminoso: il Castello dell’Amore, dimora della
principessa. Esso era la fonte di tutta la luce del Regno, tanto che da lontano, perfino dalla fine del
Regno, se ne poteva scorgere la luce e, agli occhi degli abitanti, appariva come una grande palla
luminosa. Il Castello dell’Amore stava morendo e con esso tutto il Mondo oltre il Tempo circondato,
ormai da lunga fiata, da un manto dell’Infinita Tristezza con il quale Incubus lo abbracciava. Senza
quella Luce, tutto il Regno sarebbe sprofondato in un’eterna notte, gli abitanti sarebbero morti dalla
tristezza e una leggera pazzia di non senso li avrebbe resi automi, senza speranza o divenire.
Il cielo era tetro e buio. Ariel non riusciva a distinguere alcunché. Tutto sembrava racchiuso in una
grande ombra nera che strisciava sul terreno. Questa Grande Ombra, così si chiamava, intrappolava
al suo interno ogni cosa, oggetto, persona che incontrasse lungo il suo inesorabile cammino.
Intrappolava, altresì, ogni desiderio e ogni speranza. Ariel non conosceva il Deserto della Tristezza
e non ne sospettava neanche l’esistenza. Era così tetro. Tutto quel vuoto infondeva tristezza al suo
piccolo animo. Il dolore e il buio erano così grandi. La sabbia nera profumava di marcio e gli alberi
spogli, come alte ombre verde scuro, danzavano freneticamente nel vuoto. Ogni cosa era
terribilmente nera. Piccoli simulacri erano intrappolati nella terra sporca e umida e non c’era
momento in cui non gridassero o piangessero. Il dolore incessante che emanava ogni anima
intrappolata in quella prigione dell’orrore era incontenibile. L’Orco Cattivo disse ad Ariel: “Tu sarai
mia per sempre! Nessuno ti libererà dal Deserto della Tristezza! Ti userò come serva del mio regno
e dovrai soddisfare ogni mio desiderio; non potrai né scappare né urlare. Anche se tu ci provassi, ti
troverei e ti farei cose che nessuno al mondo potrebbe mai immaginare. Non racconterai mai nulla
ad alcuno! Altrimenti morirai!” e soggiunse “Ma se per sbaglio o per tuo volere non farai ciò che ti
dirò di fare, la tua Foresta Incantata morirà per sempre! Perché ogni gioco ha le sue regole e queste
sono le mie! E tu non vuoi che la tua Foresta Incantata muoia, vero?”. Ariel non voleva che il suo
Regno scomparisse perciò lo seguì.
Iniziò a lavorare per l’Orco. Tutto le sembrava così strano. Come poteva succedere tutto questo?
Che gioco era questo? Non l’aveva mai visto fare dalle Faure o dai Fuur nel suo regno. Mai nessuno
ci aveva giocato all’aria aperta come invece facevano gli Incantini quando dipingevano parti nuove
del suo Regno. Ariel viveva in un posto indefinito, completamente buio, senza pareti legata a
un’indefinita palla nera, circondata da un’aura di nulla profondo che, a momenti alterni, spruzzava
sbuffi di materia organica rossa e liquida. Questa palla la tormentava e le procurava un dolore
immenso, in continua evoluzione. Visse lì per sette lunghi anni. Ariel iniziava a fare troppe
domande al Drakòs, cosicché egli decise di inviarle una sua schiava al fine di placarle prima che
ella riuscisse a scoprire il suo inganno. Le inviò la strega del Bosco Frusciante che iniziò, in modo
lento, ma inesorabile, a farle credere che il Drakòs non esistesse e che fosse stato solo un semplice
inganno della sua mente malata.
Ecco che un giorno Ariel iniziò a sentire una flebile vocina che la salutava. Da quanto tempo non
sentiva una voce così dolce e soave. Da quanto tempo non sentiva parole così semplici e amorose.
Cercò a tentoni di capire da dove arrivasse il suono di quella straordinaria voce. “Tesoro mio, sono
qui, vicino a te. Tu non mi puoi vedere perché questo buio che ti circonda non ti permette di farlo,
ma io sono qui, vicino a te. Coraggio, credici” – disse la strega. “Come faccio a crederti? Io non
credo a niente! La fiducia è scomparsa ormai da tempo! Dammi prova della tua esistenza!” – rispose
Ariel. “Oltre alla mia voce?” – “Sì, perché la voce è menzognera! Così come la memoria è fallace!
Io non credo che esista nulla al di fuori di questo buio maledetto”- rispose Ariel e tra le lacrime si
gettò a terra, abbracciando le sue gambe distrutte. La strega le accarezzò il viso cercando di pulire le
sue ferite sanguinanti, ma Ariel sobbalzò all’indietro ed esclamò: “Non ti azzardare a toccarmi! Cosa
vuoi da me? Lasciami in pace! Vattene! Così come hanno fatto tutti! Tutto è morto! Io sono morta!
Vattene, ho detto!”. La strega rimase in silenzio ascoltando le sue lacrime ferirle il viso, per
l’ennesima volta, respirando a fatica, come dopo una lunga corsa. Ariel smise di piangere. Quel
respiro. Non lo sopportava. “Smettila di ansimare! Non lo sopporto!” gridò Ariel. “Sono stata
mandata per spiegarti che il tuo regno esiste ancora e che quello che ti sembra di vivere è solo un
brutto sogno! Hai una malattia, tesoro mio. Immagini le cose. Fatichi ad addormentarti e quando
inizi a sognare ti perdi nei tuoi sogni non riuscendo più ad uscirne. Stai vivendo in un tuo incubo.”
Le spiegò la strega. “Chi sei?” – domandò Ariel – “Sono Mnemosina, la fatina dei ricordi e della
memoria. Io non ti posso ingannare! Sono buona!”- rispose la strega. Ariel iniziò ad affezionarsi a
quella strana voce così dolce e per l’ultima volta volle credere a quelle parole. Fu così che si
convinse che era tutto un sogno, scaturito dalla sua mente malata. Dal quel giorno non fece più
domande al Drakòs, pensando che fosse tutto normale. Il Male Oscuro s’impadronì definitamente di
lei e non la lasciò più. La tristezza pervase ogni piccola parte di lei, nulla aveva più senso.
Il Drakòs morì, per età o, forse, per giustizia divina e lei fu gettata in mezzo a una strada del
Deserto della tristezza dove incontrò tanti altri ragazzi e ragazze che, come lei, avevano lavorato per
l’Orco. Incontrò persino Faith ed Expectation, le sue migliori amiche ai tempi delle fiabe raccontate
dallo Gnomo Solitario e dalla Grande Orsa. Anche loro girovagavano senza una meta nel groviglio
di fitti rami spinati che pervadevano il Deserto della Tristezza. Tutto era morto in lei: il desiderio di
ritrovare e salvare il suo Regno (se mai fosse esistito un suo regno), la speranza che qualcuno la
cercasse e la trovasse mettendo così fine a quel dolore incessante che le pervadeva il corpo, la gioia
della luce del Castello dell’Amore che ogni giorno la svegliava. Tutto era morto e lei non desiderava
altro che spegnersi come il sole al tramonto facendo fluire, dal suo corpo, il dolore insopportabile
come fosse sangue dalle vene. Voleva lasciarsi rapire dal Buio, il suo unico e fedele amico, l’unico
che aveva ascoltato le sue grida e raccolto le sue lacrime custodendole segretamente dentro di sé.
Capendo il desiderio di Ariel, il Buio la sommerse in un attimo. Ariel era scomparsa. Lì, era rimasto
solo il suo scarno e lacerato corpicino che, abbandonato a se stesso, si stava decomponendo
emanando un fetore simile a quello percepibile tuttora nella prigione del Drakòs.
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¹Testo tratto (e trasformato in racconto) da un romanzo di formazione inedito scritto da me. Nonostante la struttura di questo racconto, il romanzo da cui è tratto racconta la storia di questa ragazza (Ariel) e dell’incontro meraviglioso che ha avuto con Dio, incontro che ha trasformato per sempre la sua vita, dandone un senso. Il romanzo è legato a un progetto di riscoperta della fede.


La poesia (saggio breve).

“Poesia”. Che cosa s’intende per poesia? Una poesia con la p maiuscola o minuscola? Una poesia
che rappresenta un assoluto immanente o trascendente?
Poesia è una parola così lucente (intesa in senso dantesco), ma anche così trasparente e fugace.
Essa è un attimo di eternità, è espressione di Dio continuamente presente, è l’emozione stessa di
Dio. È un continuo fluire di emozioni, è un travaglio di infinita felicità ed è espressione di un solo e
unico credo comune: emozionarsi.
In passato, la poesia ha avuto un significato molto forte, a volte pungente (come in Palazzeschi), a
volte supremo (come nei poeti romantici), ma è stata sempre l’espressione di profonde emozioni
dello spirito o della società (come sostiene anche Vassalli ne “Il declino del vate”).
In Novalis, poeta e filosofo del Romanticismo tedesco, la poesia rappresenta la “Sehnsucht” amata,
in generale dai poeti romantici.
Spesso, nella storia della letteratura, la poesia ha rappresentato anche l’anima ed è stata l’unico
strumento che dava senso alla vita dei poeti nonché all’esistenza assurda dell’uomo e del mondo;
essa è stata l’espressione dell’immortalità come in Leopardi e in Foscolo, per i quali la poesia era
qualcosa che “non moriva, non si disintegrava e non scompariva, come il corpo del poeta nella
tomba”.
Oggi, questa funzione di espressione di emozioni o della loro impressione sulla carta (impressione
che spesso non rappresenta esattamente l’emozione o l’eventuale visione poetica, come anche
Dante sottolinea quando si trova nel Paradiso), è svanita, persa nei meandri del tempo e, secondo
me, solo Leopardi è riuscito a rappresentarla esattamente.
Questa funzione è svanita a causa di un mondo frenetico (“isterico”, lo definiva Montale ne “É
ancora possibile fare poesia?”) e fugace, che non si ferma mai un secondo e che non ha tempo di
ascoltare. Che dolce parola è l’ascolto: l’ascolto silenzioso di un fiume in divenire, l’ascolto dolce e
rilassante della pioggia che irruente cade sui tetti e sull’animo del poeta.
Attraverso la poesia, l’uomo può dare un senso alle sue emozioni, alle sue riflessioni che, sempre, la
realtà vuole far soccombere, anche quando ci propone essa stessa riflessioni, perché queste ultime
sono fittizie, riguardano una realtà imposta con coercizione per renderci tutti automi di uno stesso
male comune che si manifesta attraverso tre realtà distinte: la vita senza senso, un mondo assurdo
ed una realtà incomprensibile. La realtà incomprensibile del Welfare State, nel quale però esiste
ancora una divisione tra un mondo ricco, che continuerà ad essere ricco, e un mondo povero,
perennemente sfruttato dal mondo ricco, che continuerà ad essere povero; ma ciò che lo rende ancor
più un mondo assurdo è che, nonostante la storia con i suoi domini lo abbia devastato
completamente, in esso uomini di ogni razza e nazione continuano a combattere l’uno contro l’altro
per ragioni futili. Un mondo pieno di contraddizioni, dove tutto è affidato al caos e al caso e dove
tutto viene pianificato dai potenti, non lasciando alcuna libertà agli uomini. Se non si è come la
società ci vuole, si è esclusi: ecco il perché nel mondo contemporaneo, la poesia non è più Vita,
Universalità, qualcosa che può fornire un senso o dare una spiegazione razionale alle domande
sull’esistenza umana come lo era, ad esempio, durante il Romanticismo.
Ma, la poesia, è veramente morta o è viva e lotta contro di noi (come si domanda Rabon ne “La
poesia? Si vende ma non si dice?”)?
La poesia è sogno utopico o realtà eufemistica? É l’idea o la sua rappresentazione? Secondo il mio
punto di vista, la poesia non può morire del tutto (come sostiene anche Conte ne “Ma la poesia non
sempre deve essere popolare”).
Si assopisce, si rende infinitamente piccola, si nasconde nell’angolo più recondito del cuore
arrivando fino all’anima del vero poeta. Ma chi è il vero poeta? Il vero poeta è colui che manifesta
questo suo essere in un lampo nella realtà, ma anche, in un attimo di eternità nel suo animo:
quest’attimo è sospeso tra l’anima del poeta che assurge a manifestarsi e la realtà che non vorrebbe
che questo accadesse.
La poesia serve per capire l’universale della realtà assurda del mondo nel particolare, che è il cuore
degli uomini.
Infine, devo sottolineare, che il poeta e la poesia non sono “una parola ma un indice”, come dice
Fruttero ne “L’indice di Borges”.
Il poeta è la mano costruttrice di sogni, di emozioni, di amori e di sensazioni; la poesia è l’opera
infinita di emozioni a cui la realtà, il mondo dovrebbe assurgere per rappresentare una “realtà in
essere” e non una “realtà in divenire”, un divenire che è un continuo fluire di messaggi subliminali
che ci rendono degli automi in un’infinità di perché.