Anánkē

Dionýsios abbassò la testa. Vicino a lui, Kritías lasciò andare un sospiro rabbioso, sordo. Cercò i suoi occhi; ma il cugino fissava un punto immobile nel vuoto, sotto di sé.
La Hēliáia si rodeva lentamente nel sole, mentre si spegneva l’ultima traccia della condanna. “Athánatos è colpevole di non riconoscere gli dei che la pólis riconosce e di introdurre altre nuove divinità. Inoltre, è colpevole di corrompere i giovani. Si richiede la pena di morte.” Dionýsios si chiuse il volto con le mani. Quella era stata l’imputazione avanzata da Páris, che, ora, se ne stava dall’altra parte dell’edificio, con la fronte alta e uno sguardo marmoreo. Dionýsios sentì Megaklès smozzicare un insulto al suo indirizzo.
Giù per le tribune della Hēliáia, i giudici sedevano in un silenzio di pietra. Sulle ginocchia, le tavolette, col profondo solco nella pellicola di cera, incidevano la massima pena.
«È Anánkē, necessità ineluttabile, che io vada a morire» dichiarò Athànatos. «Sarebbe successo anche senza la vostra sentenza. Ma quale sia la sorte migliore –se la mia o la vostra- è ignoto a voi quanto a me».
Hippokràtes ebbe un nascosto moto d’impazienza. «Quanto dura questa farsa?» sibilò all’orecchio di Dionýsios. «Sappiamo benissimo che lui non può…»
«Zitto!» scattò il compagno. «Certo che non può finire così. Certo che loro non sanno… Non possono fargli niente. Ma tutto questo è una porcheria a ogni modo». Kritìas soffiò un altro respiro rovente.
I giudici uscivano dalla Hēliáia. Lo sguardo di Dionýsios si levò oltre le tribune. Spaziò sul prytanéion, sul bouleutērion. Sull’orchēstra, piena di banchi, d’un brulichio di mercato. Il tempio della Dea galleggiava ironico su quel teatro, inazzurrandosi nel cielo nitido come una lama.
Laggiù, nella città bassa, Dionýsios aveva incontrato Athànatos. Camminava fra le bancarelle e le botteghe, stringendo la grande mano di suo padre. Dall’officina dello scultore, ad un certo punto, era uscito un uomo singolare. Avvolto in un mantello ruvido, aveva ai piedi calzari consumati –pareva- da una cadenzata curiosità. Dionýsios era stato attratto dalla testa, nera e boscosa, come la barba di sileno. Una bocca severa era coronata da un naso grifagno, risalente alla fonte delle oscure sopracciglia. Ma negli occhi, più che in ogni altra cosa, si era fissato Dionýsios. Rilucevano negli anfratti del volto come luci di carbonchio vivo.
«Salve, Athànatos». La voce del padre era suonata cordiale e composta.
«Salve, Méletos» aveva risposto l’altro. Il suo sguardo si era posato su Dionýsios. I suoi riccioli mori erano corsi a schermirsi, dietro il braccio del padre.
«È tuo figlio?» I due carbonchi si fissero ancor più a fondo, con calma.
«Sì, l’unico maschio» aveva risposto Méletos. «Su, saluta Athànatos!» aveva esortato poi. Dionýsios aveva alzato prudentemente il capo. Le sue labbra in boccio erano rimaste immobili. Ma non si nascondeva più.
Qualcosa, oltre agli occhi, lo stregava, in quell’uomo strano. Era la carnagione: non brunita, come quella degli uomini, ma candida e accecante come il riverbero dei monumenti, dalla città alta. Sembrava che quel corpo fosse abitato da uno di quei dàimones, figli di dei e ninfe, che, ogni notte, si aspettava di sentir frusciare attorno al suo letto.
Aveva ritrovato Athànatos anni dopo, da adolescente. Aveva percepito distintamente la sua presenza nel gymnàsion, mentre l’istruttore gli dettava gli esercizi. Andandosene, aveva cancellato la propria orma nella sabbia, per sottrarla a quei tizzoni di pupille.
Poi, poco prima dell’efebia, l’aveva incontrato faccia a faccia. Era fra i tavoli dei banchieri e conversava con un paio dei presenti. Dionýsios si era fermato. E Athànatos si era volto a lui.
«Vuoi seguirmi?»
Il giovane aveva osservato gli altri due interlocutori. Con sorpresa, aveva riconosciuto due rampolli di notabili vicini a suo padre, di quelli che si riunivano a casa sua. Megaklès e Hippokràtes.
Il giorno dopo, era tornato nell’orchēstra col cugino Kritìas. Maggiore di tre anni rispetto a lui, era sembrato non essere per nulla intimidito dall’uomo demonico. Nelle conversazioni, aveva tenuto testa alle sue domande con elegante sicurezza. Kritìas era atletico. Un impeccabile lanciatore di giavellotto, già ai tempi del gymnàsion. Athànatos l’aveva sondato a lungo: su cosa fosse la mira, o l’eccellenza, o la fatica. Kritìas gli aveva parlato dell’esercizio fisico e l’altro era andato oltre, domandandogli cosa fosse ognuna di quelle cose in sé.
«Un tantino stressante, quel tizio…» aveva sbuffato il giovanotto al cugino, più tardi. «Sembrava quasi un bambinetto, con tutte quelle domande… e cos’è questo, e cos’è il talaltro… Però, incredibile. Voglio parlargli ancora».
Dionýsios aveva sorriso di scatto –ricomponendosi subito. Non la conversazione di Athànatos l’aveva colpito, ma la precisa certezza che nulla, nel suo aspetto, era cambiato. Neppure dopo tutti quegli anni.

* * *

«Athànatos… Cos’è l’Anánkē?»
Stavano passeggiando lungo un ruscello, fuori città. La calura estiva si frangeva in barbagli d’oro, sull’acqua rapida. Athànatos si era fermato sotto un albero.
«Tu lo sai meglio di me» aveva scandito gravemente. Dionýsios aveva esitato.
«L’Anánkē… è quello che vuole chi è più forte di noi e può realizzare la propria volontà, anche contro la nostra». Aveva deglutito. «Come… come quando gli Atridi hanno fatto radere al suolo Ílios, anche se Príamos e i suoi figli si opponevano. Così pure gli Atridi non avrebbero potuto comportarsi altrimenti, perché gli dei volevano che Ílios fosse distrutta.»
Athànatos era rimasto a capo chino. Poi, si era piegato a raccogliere una manciata di terriccio.
«Ora, Dionýsios, ho preso un pugno di terra. Adesso, lo lascerò cadere». Aveva aperto la mano. «Dunque, il terriccio è stato raccolto per Anánkē e per Anánkē è caduto, poiché l’ho voluto io, che di esso sono più forte. Sarebbe così, secondo la tua definizione. Giusto?»
«Giusto».
«Però…» La voce di Athànatos era scesa, delicatamente, in una profondità più oscura. «Se l’Anánkē è una volontà… per quale volontà il terriccio ricade infallibilmente verso il basso, una volta riaperto il pugno?»
Si era avvicinato a Dionýsios.
«Per quale Anánkē esistono gli dei che hanno voluto la caduta di Ílios?»
Il giovane era rimasto sospeso.
«Non sarebbe più giusto dire che l’Anánkē non è affatto una volontà? Che è una forza, anzi, che si contrappone a ogni volontà esistente e la supera?»
Dionýsios aveva abbassato gli occhi. Non riusciva a fissarli nelle braci di Athànatos.
«Non sarebbe… non sarebbe possibile…» aveva abbozzato piano «…conformare la propria volontà all’ Anánkē?»
L’uomo, allora, aveva teso un vibrante silenzio.

* * *

Nella sala, erano rimasti solo gli uomini, mollemente adagiati sulle klínai. Dionýsios divideva la propria con Kritìas. Gli appoggiava il capo sul petto, senza letizia.
Gli schiavi cominciavano ad attingere dai kratēres il vino annacquato e speziato e a versarlo nelle kýlikes. Dionýsios bevve. Se ne fece versare altro. Bevve ancora. Di sfuggita, galleggiarono davanti a lui i kratēres. I più belli del servizio, con maestose volute e bocche vaste. Le figure rosse ritagliavano, in uno, il bel Ganymédes rapito dall’aquila di Zeus e, nell’altro, Endýmion che s’addormentava per sempre nella propria giovinezza, per l’amore di Selene.
Intorno a lui, i convitati di suo padre cominciavano a motteggiare, ridere e scambiarsi sentenze. Qualcuno lanciava lazzi in versi alla calvizie dell’uno o ai vizietti dell’altro. Oppure, faceva strisciare commenti ai processi avvenuti di recente. A Dionýsios si strinse lo stomaco.
«Kritìas…»
Il cugino mosse appena le sopracciglia. Stava degustando, con buon garbo, i fichi secchi appena serviti, che teneva impeccabilmente tra pollice, indice e anulare. Nessuna traccia d’apprensione o spaesamento.
«Allora… sarà domani che… andremo da Athànatos?»
Kritìas annuì, con cenno sobrio. Dionýsios si acquetò di nuovo, ma senza potersi distendere in un sorriso.
Il sympósion offerto da Méletos era stranamente sfarzoso. Oltre alle olive, al formaggio, alle erbe, alla frutta secca o essiccata, la servitù aveva portato gamberi glassati nel miele, anguille e un tonno di dimensioni maestose. Il vino era un rosso di Chîos, trapunto di aromi strani e dalla forza densa. Dionýsios ne era già leggermente stordito. Colse il sorriso di suo padre, dall’altro capo dell’andrōn. Era di calmo trionfo, sul bordo dolce della kýlix. Dalla klínē vicina, gli ammiccava un giovane dai capelli rossicci. Pàris.
Un veleno sottile bruciò, d’improvviso, il ventre di Dionýsios.
Gli era parso sospetto che uno come lui, pur se brillante e ambizioso commediografo, potesse aver formulato quell’accusa di propria iniziativa. Da dove gli sarebbero venute tutta quella temerarietà e quell’avversione? La risposta sorseggiava vino con calma, accanto a lui.
Dionýsios rilesse, con rabbiosa chiarezza, i silenzi e le sostenutezze del padre, da quando lui era divenuto discepolo di Athànatos. Non gli era sembrato che Méletos fosse nemico a quell’uomo in sé. L’ombrosità era forse nata quando si era cominciato a vociferare dell’assiduità di Athànatos al gymnásion, delle sue notti passate a dormire sulla soglia della loro casa. Poi, Dionýsios, non più adolescente, aveva cominciato ad accompagnare quel sileno nella piazza, frequentando vasai, calzolai, facendo domande ora a questo, ora a quello sul suo lavoro. Era entrato con lui nelle case più in vista, dove si ritrovavano a bere insieme poeti, strateghi ed intellettuali girovaghi. Soprattutto questi ultimi erano detestati sordamente da Méletos, che non perdeva occasione di additarli al figlio come ambigui stranieri e chiacchieroni prezzolati. «Non credevo che Athànatos si sarebbe mescolato a loro!»
Anche Pàris ascoltava quelle lunghe filippiche, probabilmente, quando Méletos non era col figlio. Era stata acclamata una sua commedia, in cui derideva un Athànatos stralunato, sospeso in una cesta a ficcare il naso fra le nuvole e partoriente una serie di sproloqui. Dionýsios si ricordò di quanto il padre avesse applaudito più forte degli altri.
Bevve altro vino, con rabbia.
Suo padre non sapeva. Non sapeva che Athànatos non poteva morire.
L’odore delle foglie che cingevano il suo capo lo punse, tra i fumi dell’ebbrezza. Abbassò le palpebre. Il lungo suono dell’aulós carezzò il suo rancore e la sua voglia animosa di vedere l’indomani. L’incenso che profumava l’andrōn salì nel suo capo, mescolandosi alle volute dei sogni.

* * *

Fissavano il ruscello, dall’ombra dell’albero. Ad un certo punto, Athànatos si era voltato verso Dionýsios. Un rivoletto di sangue gli solcava la gola cerea.
«Athànatos… perché ti sei ferito?»
L’uomo aveva sospirato.
«Perché tu non lo sia mai più».
Aveva posto una mano nei riccioli del giovane ed aveva condotto le sue labbra verso la fonte dell’umore purpureo. Un brivido d’abisso aveva intriso Dionýsios.

* * *

Aveva riempito d’acqua una bacinella e aveva cercato di specchiarsi. Gli era balenata l’idea di domandare uno specchio vero a sua madre o alle sue sorelle, ma un moto di sdegno virile glielo aveva impedito.
La superficie tremolante gli restituiva un diluito fantasma, con le guance morbide segnate da una lieve barba, gli occhi affusolati e le ciocche di viola che poco avevan perduto dell’efebo. Così si era visto quel giorno, quando Athànatos gli aveva trasmesso il segreto.
Il colorito bronzeo aveva lasciato spazio a un candore di biacca. Dionýsios aveva pensato alle donne, alle spose nivee sotto i ricchi cosmetici verdi e rossi. Il suo corpo aveva il colore del loro, la stessa grazia intatta, ma senza quella promessa di nozze e fertilità. Come il marmo, non avrebbe generato, perché eternamente erede di se stesso. Non avrebbe amato la carne, perché carne non poteva più dirsi la sua. Il suo sangue, come quello di Athànatos, avrebbe infuso o estratto dai corpi una bellezza al di sopra di nascita, mutamento e morte. Kritìas, Megaklès e Hippokràtes gli avrebbero sorriso con seduzione di fratelli, nel sympósion di quel segreto. Un moto di trionfo gli aveva allargato il respiro –e, senza sapersene spiegare il perché, due lacrime gli avevano attraversato il volto.

* * *

Athànatos stava a capo chino, seduto sul giaciglio del carcere. La sua maschera grifagna era percorsa da un alone cereo. Negli occhi, il lume delle pupille sembrava velato di fumo.
Dionýsios, Kritìas, Megaklès e Hippokràtes facevano corona attorno a lui, in un silenzio religioso. Avevano pagato lautamente, perché la condanna a morte fosse eseguita in privato e dignitosamente. Sulle labbra del maestro, pareva aleggiare un fantastico sorriso.
«Siamo pronti» intonò Hippokràtes. Le orbite di Athànatos si levarono su di lui. «A cosa?» modulò.
Il giovane si accigliò lievemente. «A… ad andarcene. Ad accompagnarti fuori di qui».
Il vegliardo rimase immobile –innaturalmente, statuariamente fisso. «Non avete sentito cos’ho detto, prima di uscire dalla Hēliàia?»
Hippokràtes impietrì. I suoi compagni s’irrigidirono.
«È Anánkē che io vada a morire. Anche se non ci fosse questa sentenza. Io vi ho resi dei. È ora che voi mi rendiate uomo»
Le parole di Athànatos salirono nel capo di Dionýsios, come il suono d’un aulós –o una cappa d’incenso.

* * *

Kritìas lo fissava dall’alto della propria statura –in un certo qual modo, già lontano.
«C’è stato mondo, prima di Athànatos. Ora, comincia quello senza di lui». Gettò lo sguardo dal porto, sulla distesa del mare.
«Come fai a saperlo?» La voce di Dionýsios giunse strozzata, da un anfratto del petto. «Come fai a sapere che c’era mondo, prima di Lui?»
«Anche lui è morto, come ogni cosa che non è mondo» vaticinò Kritìas. Raccolse un pugno di polvere e riaprì le dita. La brezza disseminò lontano i granelli.
«Per Anánkē, ogni cosa che amiamo deve morire. Ma noi non faremo parte dell’ Anánkē».


La morte profuma di rosa

Ὦ δύσποτμ’, εἴθε μηποτε γνοίης ὃς εἶ.

Infelice, che mai tu possa sapere chi sei!

Sofocle, Edipo re, v. 1068

Chiara richiuse la boccetta e la pose sul ripiano. Odorò il polso fragrante di rosa ed un sorriso compiaciuto le velò il volto.
«No, non è una buona scelta» la interruppe Marcello. La ragazza lo fissò, con le sopracciglia alzate in incredulo rimprovero.
«Io… il profumo di rosa mi turba» esalò lui, allora. La voce stridente filtrò il suo disagio.
Chiara aprì il rubinetto e cominciò, controvoglia, a sciacquarsi i polsi. «Ma… è così buono!» tentò. La vanità delusa si mischiava a un allarme. Per tutta risposta, Marcello scrollò le spalle.

* * *

Non aveva indizi, né metodi d’acciaio per quell’enigma. L’anima non lascia impronte digitali e così pure gli odori. Tutto ciò che aveva erano le notti insonni, accese dal ricordo di quel profumo di rosa, colpevole verso lui d’un irrecuperabile delitto. Fissava il soffitto della stanzetta (Chiara dormiva ignara al suo fianco), cercando di far scorrere il filo delle sensazioni. Un filo vago, incomunicabile, ma l’unico di cui tenesse il capo. E si stupiva d’una speranza folle: rivivere il delitto delle rose, che un provvido oblio teneva lontano dalla sua coscienza.

* * *

Chiara lo spruzzò, ridendo. Lui le sorrise di rimando, chiudendo però il rubinetto. Le rose sono odorose, ma anche umide, pensò. Umide come una fontana coperta di muschio, in un giardino assolato. Sull’erba, piedi di bambini. Suoi cugini, forse. Non aveva più rivisto né loro, né gli zii. Ricordi lontani, rubati dalle rose.

* * *

La soluzione dell’enigma gli fu addosso, una sera, come una beffa crudele. Dai piedi infantili germogliò una figura. Una bambina. Altri piedini erano suoi e correvano dietro quelli di lei, in un gioco trafelato. Poi, la bimba cominciò a soffrire. E lui seppe che era per propria colpa.
Un litigio improvviso, di pancia, con molti strilli. Uno spintone, dall’orlo della fontana.
La bambina agonizzante, che sprofondava nell’acqua. Accanto, un trionfante cespuglio di rose.


Full Moon Madness

Irreverence was cast out from the sky
And eternity lost its sex forever
And under the same heaven they voted to emptiness
They still celebrate under a Full Moon Madness…

Da: Moonspell, Full Moon Madness (dall’album Irreligious, 1996)

Rabbrividì, bagnata da un velo di luna. Su di lei, galleggiava la foresta, con le ricche chiome degli alberi fuse dal buio in un manto di nubi.
Le stelle primaverili le punsero il volto. Era scavato, con un mento quadrato e un’alta fronte. I capelli scuri, screziati di bianco, si levavano e ricadevano in una ricca massa ferina. Sotto le sopracciglia incolte, si aprivano due occhi affusolati, con la pupilla infissa in un ipnotico bruno-dorato. Non sorrideva la sua bocca decisa, fatta per ululare e per mordere.
La luna disegnava il suo corpo latteo, con muscoli e nervi attorti, i seni appuntiti, le gambe abituate alla corsa. Mandragora guardò davanti a sé, in fondo alla doppia fila di torce che la invitavano, sotto l’occhio della luna piena.

* * *

Diana si svegliò con un misterioso soprassalto. Le era parso, nel sonno, di porre un piede in fallo. Eppure, era là, distesa sul materasso di juta imbottito di foglie di granoturco.
Gettò uno sguardo attorno a sé. Dalla finestrella, entrava qualche barlume lunare, che lambiva il pezzo di specchio con la brocca e la bacinella, l’intonaco del muro, le lenzuola ruvide. Quelle in cui non dormiva più Selene.
Diana rabbrividì. La sua bambina aveva già sette anni e una mente acuta, ma la notte stillava nelle sue apprensioni materne come veleno. Guardò ai piedi del letto, sperando di veder Selene sul vaso da notte. Niente.
A tentoni, trovò il lume a olio sulla cassetta rovesciata che teneva al proprio capezzale.

* * *

Le torce sboccavano in un’ampia radura. Su di lei, si puntarono all’unisono gli occhi degli altri lupi: anime immerse nel pelo, negli orecchi tesi e nelle fauci. Soltanto suo fratello, Adàm, era rimasto in forma d’uomo, come Mandragora nudo e opalescente sotto gli astri notturni.
Aveva i suoi stessi occhi affusolati e bruno-dorati, gli stessi capelli corvini, ma screziati di bianco. Della sorella aveva anche le giunture nodose; ma era meno secco e più possente, con una ricca flora di villi.
Mandragora rivolse il viso a lui; ma non poté sorridergli. Il silenzio del rito imbeveva la radura.
Di fronte a lei, si stagliava Fenrir. Il suo manto color cenere gareggiava con la luna. Sul suo muso, correva una striatura di pelo ancor più chiaro, che terminava fra gli occhi nel disegno di una piccola elsa. Quella sorta di spada sembrava imporgli un silenzio ancor più marmoreo.
Tra Fenrir – l’Alfa – e Mandragora, posava un’enorme pietra liscia e tondeggiante, erosa dalla pioggia e quasi assimilata all’erba da un’immemorabile simbiosi. Accanto ad essa, Adàm era pronto ad accogliere la sorella. Le sorrise, lui. Levò una verga di frassino e, con quella, le toccò la spalla. Dai lupi cominciò a salire un mormorio, come di brezza.

* * *

Finalmente, Diana la trovò. La testolina biondo cenere di Selene si tendeva sul davanzale della finestra al pianterreno. Fissava la macchia proteiforme della foresta, in lontananza. Il lume a olio, nella mano della madre, tremolò.
Diana guardò il cielo. La luna piena galleggiava, bagnandosi nell’etere come un occhio.
Capì.

* * *

Mandragora non sentiva più la rigida freddezza della pietra, sotto la schiena e le reni. Un fuoco liquido le percorreva il sangue, mescolandosi con un velo di sudore. Tutt’attorno a lei, la nenia sempre più intensa dei lupi si confondeva con l’abbraccio di Adàm, con il mare caldo e acre della sua pelle. Il pube di Mandragora stillava un liquore pungente e felice, salutando i fianchi del fratello che s’immergevano nei suoi. Mandragora di lui ascoltava l’ansare, così ferino anche in quella forma umana, e stranamente tenero. L’ultimo rantolo di Adàm si liberò insieme all’ululato dei lupi, insieme al fremito che salì dal ventre della ragazza alle pupille di lei, immerse nelle stelle.

* * *

Selene si staccò, barcollando, dalla finestra e crollò fra le braccia della madre. I suoi occhi grigioverdi e limpidissimi erano semichiusi. Dalle sue viscere, risaliva un sospiro gorgogliante, estraneo al suo corpo acerbo.
Diana si strinse la bambina al petto. Come la piccola, così si era abbandonata lei, sette anni prima, fra le braccia di Fenrir. Fenrir, biondo cenere e con quella curiosa cicatrice a forma di spada fra naso e occhi.
Diana, dopo allora, non aveva più rivisto la radura, né la pietra. Quando il suo ventre aveva cominciato a ingrossarsi, le sue metamorfosi in lupa erano cessate. Come se il suo compito si fosse esaurito. Non si era chiesta se se ne fosse sentita ferita. Né aveva voluto sapere se Fenrir avesse trovato una nuova compagna. Aveva lasciato la foresta e le rapinose corse nelle pianure, per dedicarsi all’orto, alle galline e al campo. Al suo cucciolo, avrebbe preparato un nido di zucche e uova, di brodo e carote, di piume e pannocchie. Selene aveva il buon odore della terra fresca e del paiolo bollente.
Diana aveva dimenticato il branco. Ma il branco non si era dimenticato di lei. La richiamava nella figlia di Fenrir, nella sua strana empatia col padre, che l’attirava ai riti del plenilunio, senza che la piccola ne avesse mai sentito parlare.
Diana sollevò il corpicino ormai calmo e lo riportò verso il letto. La finestra rimase aperta.