7 febbraio

Il nostro amore,
un lampo accecante e brutale
sconquassò il silenzio.
Senza misura, senza decenza
indomabile forza.
Una terra sventrata
e non per questo conosciuta.
Troppo grande da contenere
troppo violento da sopravviverne.
Innocente amore,
sodalizio di malattia,
eterna astinenza, eterno rifugio.
Ciò che non scoprimmo insieme
ci perseguiterà.
Uccisi, i nostri figli
torneranno a noi come fantasmi,
le promesse come dilemmi.
E il tempo guarisce solo
quel che gli appartiene,
di certo non questo miracolo
che fu l’amore nostro,
partorito insieme, mai morto
come invece morimmo noi.


Signora Mente

Signora Mente,
non ho ben capito
se lei è più risorsa o più martirio.
Sarà che la vita
è un essere bifronte
e ogni cognizione è ambivalente.
Sarà che sono folle
di cuore e di intelletto
ma non mi hanno convinto
tutte quelle illustri risposte sul mondo.
Allora signora,
grande Mente,
di chi siamo figli?
Del caso, dell’errore, dell’onnipotente?
Mi dica se l’arte
è il talento dell’infelice
o l’epiteto del vincente.
Mi faccia il conto degli esclusi,
che ne sarà di tutti i soppressi,
uomini, idee, vani sentimenti?
Basterà la schizofrenia
a superare le incongruenze
o dovremo sperimentare
la trascendenza del sapiente?
Disadattata Mente,
come si fa a vivere
con un piede nel baratro
e l’altro tra le stelle?


LA MONOCAMERA

La signora Agata aprì la porta, mi fissò per qualche istante «Luisa, sei tornata! Vieni, entra. Dov’è che sei stata? Sempre in mezzo agli animali?» «Sì, in Sud America», «Sempre contro i circhi?» «Sì, sempre». Sorridevo, la signora Agata mi commuoveva con la nebulosità della sua mente, i movimenti lenti, sembrava costantemente impigliata in qualche pensiero che la tramortiva. I suoi occhi stanchi mi sorrisero, mi toccò la mano «Ti preparo il caffè. Alberto c’è, è rintanato come al solito, gli farai una bella sorpresa ma non credere che sia cambiato, non ha nulla da offrire alle donne, adesso ha solo preteso uno spazio tutto per sé». Mi fece segno di seguirla «Guarda qua» mi indicò una scala a chiocciola che portava ad un piano superiore «Abbiamo comprato la monocamera del piano di sopra. Si è messo in testa che uno scrittore ha bisogno prima di tutto di uno studio, era ossessionato da questo pensiero. Il proprietario ci ha concesso un prezzo di amicizia, un brav’uomo che vuol bene ad Alberto. Abbiamo fatto i lavori. Dio mio, quanta confusione, operai, soldi, caffè dalla mattina alla sera. Ma adesso almeno tutti quei libri li tiene sopra e io non sono costretta a pulire la casa facendomi spazio tra quelle colonne di oracoli in ogni angolo, ti ricordi com’era? Ah, quanta polvere che catturavano e lui che ogni due giorni ne cambiava l’ordine, prima entusiasta e poi indemoniato. A volte penso che sia così strano per dispetto ai genitori, lo sai, no? Entrambi psichiatri, volati via verso altri progetti, altri pazienti. Penso che Alberto vorrebbe essere il caso clinico dei suoi». Toccai la fredda scala in ferro battuto, guardai la finestra e vidi il sole che illuminava il vicolo, il pulviscolo sospeso sopra le piantine di Agata. La seguii in cucina dove si adoperò per preparare il caffè, sentivo che aveva bisogno di parlare; anche Alberto ha sempre avuto bisogno di parlare, nel corso della nostra amicizia i discorsi erano stati come guantiere di dolciumi che ci offrivamo ad ogni incontro. Anche quando nervoso imponeva il silenzio, io sapevo che con le giuste parole, con le giuste domande avrebbe ceduto al dialogo. Per Alberto le parole erano fondamentali, le scomponeva, le inseriva in configurazioni diverse, ci giocava come fossero pezzi di lego e fuggiva le persone perché diceva che non sono all’altezza delle parole. Le usano come fossero intuizioni, veicoli di qualcos’altro, le usano con ignoranza, con superficialità, invece le parole devono essere sventrate, devono essere comprese, vissute. Non si tratta solo di codici, si tratta di vita che può essere contemplata, esperita, trasmessa. E poi c’era la riflessione sulle giuste domande. Mi diceva «Sono le giuste domande che fanno la rivoluzione, non è importante la risposta, è importante elaborare una buona domanda. C’è chi ci riesce perché serba una ruggente sensibilità e certe domande si generano spontaneamente. Per tutti gli altri, soprattutto per gli scrittori, per gli intellettuali, è un dovere riuscire ad imparare a fare le giuste domande. E’ un dovere riuscire a desiderare sapere quel che certe domande cercano di scovare».
Mi sedetti al tavolo, Agata mi dava le spalle mentre accendeva il fornello e proseguì il suo sfogo «Sai Luisa, è stata faticosa per me questa faccenda della monocamera, ma io sono la nonna e volevo lasciargli qualcosa, a questo mondo l’hanno lasciato tutti, gli unici a non mollarlo sono quei diavoli di libri» «Credo che non lo lascerò nemmeno io» le risposi con un sorriso complice; si voltò, asciugandosi le mani con un panno «Spero che tu non ne sia innamorata perché dubito che possa amarti più della sua arte. Lui la vita non vuole viverla, vuole scriverla» mi fissò con sguardo apprensivo e io cercai di lenire la sua inquietudine «Alberto ha bisogno di usare la mente in un certo modo intenso e morboso che è il modo in cui gli scrittori guardano il mondo, percepiscono l’esistenza. Lui vede cose che gli altri non vedono, ha una ricchezza profonda, dona diamanti a chi è pronto per ricevere diamanti. Ma il suo punto di forza è anche la sua dipendenza, per questo pare luminoso e tossico al tempo stesso. Io non mi legherò a lui in un rapporto di dipendenza, amerò il modo in cui mi narra la vita, mi costruisce vie di fuga» la caffetteria sbuffò «E poi vivo con gli animali che come fonte di ricchezza non sono da meno. Di sicuro lui non mi amerà più di quanto ami la sua arte ma probabilmente io stessa non lo amerò mai quanto amo la sua arte».